Sionismo e antistoria
La tragedia in Palestina non è solo una tragedia locale: è una tragedia mondiale, poiché è un’ingiustizia che minaccia la pace nel mondo
Arnold Toynbee
È impossibile proseguire l’ingiustizia storica patita dai palestinesi
Xi Jinping
di Eusebio Filopatro
La lancia dell’Imperatore
Lo Stato di Israele riappare nella storia moderna il 22 maggio 1799 con la cosiddetta “dichiarazione di Acre”:
“[Napoleone] Bonaparte ha fatto pubblicare un proclama, nel quale invita gli ebrei dell’Asia e dell’Africa a radunarsi sotto i suoi vessilli per ristabilire l’antica Gerusalemme: ne ha già armato un gran numero, e i loro battaglioni minacciano Aleppo”[1]
Napoleone non era certo un umanitario filantropo[2]. Era invece un eccelso dominatore e stratega. Il suo appello rispondeva a una serie di ragioni:
- Spezzare la continuità geografica degli imperi arabo-islamici che per secoli avevano costituito grandi potenze alle soglie dell’Europa: la strettoia del Sinai è il punto più propizio dove installare un avamposto per controllarli, come un guinzaglio che preme sul collo di un mastino;
- Controllare l’istmo di Suez (il canale è stato realizzato molti decenni dopo), un nodo strategico impareggiabile tra due-tre continenti e cardine del commercio mondiale;
- Conferire un’ulteriore motivazione ideologica agli ebrei da lui impiegati come soldati, e generalmente attrarre le simpatie di quanti condividevano l’obiettivo della rifondazione di uno stato ebraico;
- Contenere il problema dell’integrazione ebraica, infiammato tanto dagli antisemiti quanto da coloro tra gli ebrei che detestavano i goyim (in Yiddish, goyische kopf, letteralmente “testa di gentile/non ebreo”, significa sostanzialmente: “idiota”[3]).
Nessuno di questi obiettivi è esclusivamente ristretto alla Francia o ad altri imperi coloniali: difatti dopo Napoleone sono stati fatti propri da quanti, come l’Impero Britannico e infine gli Stati Uniti, più si sono dedicati al progetto di un’egemonia globale.
Questi ovvi aspetti politici relativi allo Stato d’Israele sono stati occultati sotto lo schermo moralistico e retorico che accomuna la critica di Israele all’antisemitismo e al negazionismo. I propagandisti che danno voce a queste distorsioni non si curano delle critiche che originano spesso da prestigiosi intellettuali ebrei e israeliani. Accusare chi critica Netanyahu e Israele di essere antisemita, negazionista, razzista, è come accusare chi critica Giorgia Meloni e lo Stato italiano – magari durante il ventennio fascista – di nutrire pregiudizi contro gli italiani in quanto tali. Illogico, ma efficace, come tipico della propaganda.
Il racconto di Israele e le “poche parole” sui palestinesi
Spiace che a questa antistoria si sia prestato un giornalista e intellettuale per molti versi apprezzabile, che ha rappresentato un raro esempio di libertà d’espressione e di riflessione riguardo al conflitto in Ucraina, e si è confermato al di sopra della media italiana anche nel criticare quanto si sta consumando a Gaza. Marco Travaglio non si spinge ad affermare che Napoleone ha intentato la creazione di Israele per proteggere i superstiti dell’Olocausto, ma a tratti ci va vicino. Il suo pamphlet, di fatto filo-israeliano, si rivolge idealmente “A chi non si arruola, ma si informa per ragionare e capire”.
In realtà, chi si informa troverà nel testo parecchie, troppe lacune e dicerie, assieme a veri e propri errori, alcuni dei quali facilmente evitabili, mentre a chi ragiona non sfuggiranno dei salti logici, delle contraddizioni, delle incongruenze, tali che il lettore di Travaglio alla fine non avrà realmente capito né il perché né il come né le implicazioni del conflitto in Palestina. Francamente, per comprendere la tragedia che si consuma a Gaza, un quarto d’ora degli eccellenti documentari di Francesca Mannocchi vale un giorno intero sul libro di Travaglio. E questo certo non per difetti stilistici dell’autore, che comunica molto efficacemente. Se però Travaglio avesse scritto il libro di cui c’è bisogno, magari avrebbe ricevuto meno ospitate televisive e più interessamenti di altro genere, ma avrebbe sicuramente onorato la sua professione di giornalista e meglio servito l’opinione pubblica italiana.
Il libro si intitola Israele e i palestinesi in poche parole. Nel testo c’è invece un solo soggetto: Israele, e la sua epopea presentata come gloriosa, almeno finché non è macchiata da quel figliol prodigo di Netanyahu. Chiuso il libro, rimangono in mente parecchi dettagli lirici e la profondità psicologica accordata agli israeliani. “Ancora una volta sono io solo triste in mezzo a tanta gente allegra”, legge Travaglio direttamente dal diario di Ben Gurion. Tutt’attorno gli israeliani “Piangono, ridono, si abbracciano con la folla in delirio che intona l’Hatikvah (“speranza”): l’inno ebraico, più simile a una preghiera che a una marcia.” Ci sono tante altre citazioni di un tenore simile. Golda Meir appare più preoccupata per i figli dei palestinesi che per i propri (“Noi vi potremo un giorno perdonare per avere ucciso i nostri figli, ma non vi perdoneremo mai per averci costretto a uccidere i vostri. Una possibilità di pace esisterà quando dimostrerete di amare i vostri figli più di quanto odiate noi”). Moshe Dayan è “noto per il rispetto dei diritti umani: “Il massimo di tortura che un prigioniero deve subire – raccomanda ai suoi uomini – è mangiare il rancio dell’esercito israeliano”.” Travaglio ha ripetuto quest’ultima citazione anche in televisione.
Retorica e realtà
Nemmeno tra le righe si legge il dubbio che queste frasi non provino nulla, e possano piuttosto fuorviare come presentazione interessata di personaggi controversi, tutti oratori navigati. La citazione di Golda Meir può essere soppesata con la decisione di scatenare l’operazione “Vendetta di Dio”, nella quale i servizi israeliani ammazzarono e ferirono un bel po’ d’innocenti pur di vendicare le vittime del massacro di Monaco. Oppure può essere bilanciata da un’altra, più famosa citazione: “Non esiste qualcosa come un popolo palestinese. Non è che siamo venuti, li abbiamo buttati fuori e abbiamo preso il loro paese. Essi non esistevano”. Del resto, Margaret Thatcher inaugurò il suo premierato con la preghiera di San Francesco (“oh Signore fa di me uno strumento della tua pace…”) e nel 2003, alla domanda su quale fosse il suo filosofo preferito, George W. Bush ebbe la spudoratezza di rispondere “Gesù Cristo, perché ha cambiato il mio cuore”. Ora, a nessuno verrebbe in mente di considerare queste pirotecnie retoriche come rappresentative delle rispettive personalità, tantomeno delle politiche corrispondenti. Invece Dayan non è, nel libro di Travaglio, “il controverso eroe di Israele”[4] sospettato addirittura di aver dato l’ordine di affondare la nave-spia americana USS Liberty (34 morti e 170 feriti, per i quali Israele accettò di pagare cospicui risarcimenti), e nemmeno un famigerato trafugatore di opere d’arte, ma addirittura “un archeologo” più che un soldato. Di opposto parere il (vero) archeologo israeliano Raz Kletter, che ha dedicato ai “tre decenni di ruberie e di traffici” di Dayan un’intera monografia,[5] il cui titolo è un gioco di parole che letteralmente ribalta il giudizio di Travaglio - Un archeologo molto generale. Lungi dall’essere un caso isolato, il libro sovrabbonda di questi eufemismi: verrebbe da dire, il libro consiste in un continuo eufemismo. Questa straordinaria cosmetica verbale è riservata, ben inteso, agli israeliani. Nel poco spazio concesso ai palestinesi, c’è comunque l’occasione di riportare il sospetto che Arafat sia morto di AIDS.
Dai personaggi israeliani cui è riservato il palcoscenico è poi depurata ogni complessità, anche quando “poche parole” aiuterebbero il lettore italiano a meglio capire la complessità del problema. Non c’è ad esempio traccia dei ripensamenti tardivi di Dayan, che ne precedettero di poco la morte. Scrive invece il ricercatore israeliano Shany Mor:
“… è comunque necessario notare la crescente consapevolezza di Dayan, negli ultimi anni di vita, che l'occupazione semipermanente costruita a sua immagine e somiglianza non era sostenibile e doveva essere sostituita con qualcosa di più in linea con le norme internazionali e con gli interessi israeliani a lungo termine. La sua morte precoce, così come quella del suo rivale di lunga data Yigal Allon, proprio mentre anch'egli stava vivendo una sorta di risveglio tardivo sulla stessa questione, ha tolto una voce vitale proprio quando era più necessaria. Egli è stato anche il pioniere di un altro tipo di personaggio israeliano tragico: la figura dell'establishment che improvvisamente si rende conto delle implicazioni catastrofiche del dominio israeliano in Cisgiordania e poi improvvisamente muore, viene assassinato, ha un ictus, viene condannato per corruzione o costretto alla pensione. Anche questo è un personaggio israeliano per eccellenza, che Dayan stesso ha inventato e personificato.”[6]
Travaglio ricorre persino a toni natalizi nel narrare la prima campagna di acquisto dei terreni dei palestinesi:
“La svolta arriva a Natale del 1901. Il V Congresso sionista di Basilea decide di distribuire a tutti gli ebrei del mondo un salvadanaio di latta bianco e azzurro. L’anno seguente, con i risparmi raccolti, nasce il Fondo Nazionale Ebraico per acquistare terreni in Palestina e ospitarvi i primi insediamenti.”
Quasi scappa una lacrima, immaginando un bimbo in qualche freddo Shtetl polacco che si priva delle patate per devolvere un obolo al sogno dell’aliyah (la “ascesa” o “ritorno” alla Terra Promessa). Chissà quanta latta biancazzurra sarà servita per il salvadanaio del barone Edmond De Rothschild, oggi sepolto a Ramat Hanadiv in una cripta degna di un monarca, e noto come “il barone” o “il nobile donatore” per l’irresistibile impulso che il suo potente impero finanziario diede agli insediamenti[7].
Palestinesi, arabi, e il torto di essere vittime
E le voci dei palestinesi? Non pervenute. A libro chiuso non rimane in mente una sola citazione di un leader o attivista palestinese. C’è un estratto bellicoso dallo statuto di fondazione dell’OLP, e Nasser che ruggisce: “la questione per i Paesi arabi non riguarda la chiusura del porto di Eilat, ma il totale annientamento dello Stato di Israele”. Travaglio stesso ammette che Nasser in realtà non puntava alla guerra: ma la citazione bellicosa la infila lo stesso. Praticamente nulla, invece, dall’imponente fonte documentale, diffusa anche se non soprattutto da storici ebrei ed israeliani, sui palestinesi che soffrono discriminazioni, umiliazioni, ingiustizie, fino all’espropriazione della terra, all’espulsione, alla tortura gratuita e brutale, e alla morte. Prima sotto il Mandato britannico, poi nell’espansione di Israele e nelle continue guerre, nel regime di apartheid che li costringe nelle riserve della Cisgiordania e di Gaza, per culminare col genocidio.
I palestinesi non solo non parlano: non agiscono, salvo per qualche agitazione, guerra civile, e attentato controproducente. Nel libro di Travaglio i palestinesi sono materia da plasmare, un ostacolo o un limite nella luminosa epopea della fondazione di Israele. Sono il complemento oggetto: tanto valeva intitolare “Israele scaccia (o schiaccia?) i palestinesi”. A tratti pare addirittura che i democratici israeliani ci tengano tanto a trovare una soluzione per i palestinesi, ma questi disgraziati continuano a tirarsi la zappa sui piedi.
Per dirla tutta i palestinesi non sono né gli unici né i principali colpevoli: va anche peggio agli arabi, accusati ad esempio di aver perpetrato “la più grande strage di palestinesi della storia”: tra i 3 e i 5 mila nel contesto del Settembre Nero. I sionisti, solo tra il ’47 e il ’49, ne hanno invece massacrati 15 000, oltre a scacciarne 750 mila e a radere al suolo 530 villaggi[8], ma forse qualche arbitrario parametro (il lasso di tempo? La concentrazione spaziale?) giustifica il record nella mente di Travaglio. Dal 7/10 al 20/12/2023 Israele ha di nuovo massacrato 20 000 palestinesi, superando di almeno 4 volte il “record” dichiarato da Travaglio.
Sempre secondo Travaglio, durante la Nakba, la “catastrofe” perpetrata dai sionisti ai danni dei palestinesi, “i Paesi arabi non muoveranno un dito per accoglierli e integrarli”. Quindi i milioni di palestinesi che vivono nei paesi circostanti, con gli inevitabili problemi di stabilità poi raccontati nel libro, non solo non sono stati “integrati”, ma neppure “accolti”. In realtà Libano e Giordania, certo non ricchissimi, sono tra i paesi al mondo che accolgono più rifugiati in proporzione alla popolazione. Che poi i paesi arabi abbiano scatenato guerre e patito centinaia di migliaia di morti per la causa palestinese non sembra scalfire l’accusa di egoismo.
Anche la personalità dei leader arabi è insignificante. Al funerale di Nasser parteciparono milioni di ammiratori, e convennero rappresentati diplomatici da decine di nazioni, mentre l’India proclamava il lutto assieme ai paesi arabi. Le Jour, giornale francese di Beirut, proclamava: “cento milioni di arabi sono orfani”. 75 000 palestinesi sfilavano a Gerusalemme cantando: “Nasser non morirà mai”[9]. Perché, se anche lui come tutti i leader arabi non ha “mosso un dito” per loro? Eppure, nel libro appare in una luce peggiore di Anwar El-Sadat: quest’ultimo sembra quasi uno statista, anzi un pacifista, nonostante sia stato aspramente criticato persino nell’Occidente di cui ha tutelato gli interessi[10].
Il mitico Mossad
Non potevano mancare, nel libro, i cenni da romanzo sugli infallibili servizi segreti israeliani: Travaglio apre la sua panoramica scrivendo che, quando Israele si è affidato ai “mitici Mossad e Shin Bet” (corsivo aggiunto), ha sempre avuto successo. Infatti, a detta sua dopo l’attacco di Settembre Nero alle Olimpiadi di Monaco “Il Mossad, il servizio segreto israeliano, riceve l’ordine dalla premier Golda Meir di uccidere tutti i terroristi coinvolti nella strage di Monaco: riuscirà a raggiungerli in tutto il mondo e a eliminarli uno per uno nell’operazione Ira di Dio, durata 20 anni.” (corsivo aggiunto). Fantastico, avvincente, che tosti quelli del Mossad. Sembra quasi un film. Difatti è falso. Probabilmente non è vero nemmeno che il Mossad mancò tutti i suoi bersagli, come dichiarato dalla mente di Settembre Nero, Mohammad Daoud Oudeh, prima di morire di insufficienza renale nel 2010, a 73 anni. Molti ritengono che Jamal Al-Gashey sia ancora vivo, e alcuni dicono lo stesso di Mohammed Safady, mentre secondo il giornalista israeliano Aaron J. Klein pure il terrorista Adnan Al-Gashey sarebbe morto di un attacco di cuore 6 o 7 anni dopo l’attentato[11]. Gli altri partecipanti al commando erano stati uccisi nel tentativo di liberare gli ostaggi, a Monaco. Il Mossad invece riuscì certamente a far fuori uno studente britannico, una suora tedesca, e altri due passanti pur di far saltare in aria Ali Hassan Salameh, il “principe rosso” legato agli attentatori di Monaco, e la stessa esplosione ferì altri 18 innocenti. Un piccolo prezzo, evidentemente, per la vendetta israeliana, al punto che questi danni collaterali non meritano un cenno nel libro di Travaglio, così come sarebbe stato fuori luogo nominare il povero Ahmed Bouchikhi. L’innocente cameriere marocchino fu ammazzato dal Mossad per uno scambio di persona, e dei 15 agenti implicati nell’omicidio, 6 furono catturati dalla polizia norvegese, in quello che divenne poi noto come l’incidente o affare di Lillehammer. Non c’è traccia di questi svarioni nei miti filoisraeliani, e il libro si adegua ai canoni del genere.
La leggenda nera del Muftì avvelenatore
Se molto è pudicamente taciuto sugli attentati e gli omicidi del Mossad, c’è invece molto da inventare sul conto dei palestinesi: dopotutto, va colmata la lacuna storica che li separa dall’Olocausto, e per giustificare il loro trattamento bestiale, serve qualche monumentale malfatta. La storiella perfetta, al punto che Travaglio non solo la riporta acriticamente ma la ripete volentieri in televisione, viene proprio da un libro sensazionalistico sulla caccia agli autori della strage di Monaco. La figura prescelta è il Muftì di Gerusalemme, che essendo un leader musulmano – nei primi del Novecento i cristiani palestinesi erano il 10%: altrettanto numerosi degli ebrei – si presta al ruolo di cattivissimo antisemita. Durante e dopo l’Olocausto, per decenni, nessuno a pensato di attribuire un ruolo significativo ai palestinesi, Muftì compreso. Raul Hillberg, nella sua monumentale opera sulla “distruzione degli ebrei europei” apparsa nel 1961 e ampliata a 3 volumi nel 1985, dedica una riga al Muftì di Gerusalemme, Amin al-Husseini. E per la precisione cosa riporta? La protesta del Muftì col ministro degli esteri tedesco, per il timore che gli ebrei espulsi si sarebbero riversati in Palestina (come difatti poi avvenne)[12]. Nel libro di Travaglio il Muftì è invece citato per ben 5 volte, non solo nell’importante ruolo di “zio di Arafat”, ma soprattutto come reclutatore di SS e fanatico antisemita, letteralmente peggio dei nazisti. Come un supercattivo della Marvel o della Warner Bros, il Muftì avrebbe voluto avvelenare l’acquedotto di Tel Aviv, ma il piano fu fortunatamente sventato. Viene da chiedersi come una storia del genere, se vera, possa essere sfuggita per quattro decenni a giornalisti e storici, ma indagare comunque se sia inventata di sana pianta o solo grottescamente distorta aiuterà a capire come funziona certa propaganda.
L’appiglio storico per la storia del veleno, ammesso che ci sia, starebbe nel verbale della polizia arabo-britannica, che riporta l’arresto di un paio di palestinesi assieme a degli agenti tedeschi. Pare che il gruppo disponesse di qualche capsula per degli assassinii mirati[13].
L’inaudita storia del Muftì supercattivo appare invece per la prima volta in un libro di Michael Bar-Zohar e Eitan Haber, “Caccia al principe rosso” (The Quest for the Red Prince, Morrow & Company, New York 1983): il libro di per è una versione romanzata della caccia a Ali Hassan Salameh, come parte dell’operazione “Vendetta di Dio” contro i terroristi di Settembre nero, di cui si è già detto sopra. Gli autori si spingono però oltre, riscrivendo anche una storia sulle radici dell’antisemitismo in Palestina, incluso il periodo della Seconda Guerra Mondiale – come detto, serve a tutti i costi un qualche legame con l’Olocausto. E per farlo dedicano alla congiura contro gli ebrei di Tel Aviv un intero capitolo (il terzo), intitolato “Avvelenate i pozzi!” con tanto di punto esclamativo. La storia è romanzata con dovizia di dettagli, incluse le conversazioni tra il Muftì e i nazisti e lo scalo “nel Nord Italia” del 5 novembre 1944. Insomma, ci viene raccontato che 5 mesi prima della morte di Mussolini e di Hitler, la chiara priorità di collaborare nello sterminio degli ebrei di Tel Aviv, fornendo l’appoggio per il trasporto aereo di “diverse casse pesanti e borse di equipaggiamento, caricate a bordo di un Heinkel-111” diretto in Medio Oriente[14]. Per valutare la verosimiglianza di questa trama, si consideri che da più di un anno le forze dell’Asse non avevano praticamente un solo soldato in tutto il Medio Oriente.
Ovviamente il piano dei supercattivi è sventato: non certo per la difficoltà di accumulare veleno sufficiente per un’intera città: no, i geniali poliziotti di Gerico notano un’insolita quantità d’oro che circolava nei mercati locali. Continuano le indagini ed ecco l’arsenale del Muftì malvagio (“icona del male” come lo definirà un libro successivo dello stesso genere). 10 contenitori[15], ciascuno dei quali contenente veleno sufficiente per ammazzare 25 000 persone, per un totale di 250 mila. La popolazione di Tel Aviv all’epoca si aggirava sui 160 000, ma il Muftì evidentemente era talmente malvagio, e i nazifascisti a un passo dal collasso tanto prodighi di mezzi e soldi in quell’operazione militarmente inutile, da decidere di arrotondare per eccesso.
Dalla narrazione avvincente quanto priva di fonti di Bar-Zohar e Haber, la storia del Muftì è diventata un ritornello quasi imprescindibile della propaganda sionista, rimanendo al contempo ignorata dagli storici seri. Solo decenni dopo, nel 2008, è stata rilanciata in gran fanfara dal testo di Alan Dershowitz, David G. Dalin, and John F. Rothmann menzionato sopra: Icona del male: Il Muftì di Hitler [!!!], e l’ascesa dell’Islam radicale. Per non farsi mancare niente, e in sintonia col clima dei primi anni 2000, al nazismo giovava aggiungere il radicalismo islamico.
Stavolta la comunità degli storici si è sentita di commentare, e l’ha fatto in particolare Wolfgang Schwanitz con quattro pagine di rigorosa e tagliente recensione[16] in cui smonta con ironia alcuni dei marchiani errori di cui è infarcito il libro. Ecco il paragrafo con che liquida la storiella dell’avvelenamento:
“L'affermazione secondo cui il Muftì avrebbe ottenuto “dieci contenitori di veleno” per uccidere un quarto di milione di persone attraverso il sistema idrico di Tel Aviv per vendicare cinque paracadutisti palestinesi alla fine del 1944 non è comprovata da fonti britanniche o tedesche. Se gli autori riuscissero a fornire una prova concreta, sarebbe una scoperta, dato che il rapporto della polizia britannica del 1944 è molto dettagliato. Se questo tentativo di guerra chimica si rivelasse vero, sarebbe un'importante prova di quanto il Muftì fosse disposto a spingersi oltre per causare, allo stesso tempo, la morte di tanti connazionali musulmani che vivevano nell'area di Tel Aviv.”
Evidentemente Schwanitz non si riteneva soddisfatto dal riferimento all’archivio personale di Sir Martin Gilbert. Gilbert era un ardente sionista, come dichiara egli stesso in un’intervista: “A scuola, una o due volte mi sono trovato nei guai per le mie attività sionistiche. Una volta ho dovuto litigare con un ragazzo dietro la palestra perché aveva fatto delle osservazioni anti-Israele. Gli ho detto risolviamocela a pugni.[17]” Un’altra prospettiva storica apprezzata da Gilbert è la cosiddetta teoria dell’“Eurabia” formulata da Bat Ye'or, e che molti considerano cospirazionista quando non apertamente antiaraba e islamofoba (per un altro gustoso titolo della stessa autrice: L’Europa, la globalizzazione, e l’imminente califfato universale). Al di là delle convinzioni della fonte, sarebbe comunque interessante se, come richiede Schwanitz, le prove del piano di avvelenamento fossero rese pubbliche per la prima volta, cosa purtroppo mai avvenuta. Si noti che Schwanitz, l’autore della critica, non è certo uno storico antisemita o antisraeliano: ha insegnato in Israele per un decennio e ha persino difeso una dichiarazione di Netanyahu che Travaglio attacca nel libro[18] e su cui torneremo dopo. Insomma, se la storiella del veleno non la salva nemmeno lui, immaginate cosa ne possano dire storici di altri orientamenti.
Lo sforzo d’immaginazione è reso inutile da un testo di Norman Finkelstein (il libro Oltre l’arroganza: Sulla strumentalizzazione dell’antisemitismo e l’abuso della storia).[19] A pagina 108 di Oltre l’arroganza, Finkelstein non si accontenta di infierire contro la ridicola storiella del Muftì, ma coglie l’occasione per ricordare che l’avvelenamento con tossine dei campi dei palestinesi da parte di coloni sionisti è pratica ben documentata e denunciata anche da Amnesty International[20]: dal rapporto di Amnesty:
“Nelle ultime settimane, sostanze chimiche tossiche sono state ripetutamente sparse sui campi situati vicino ai villaggi di Tuwani, Umm Faggara e Kharruba, nella regione meridionale di Hebron. Decine di pecore, gazzelle e altri animali sono stati contaminati dalle tossine e diversi sono morti. Gli allevatori palestinesi sono stati costretti a mettere in quarantena le loro greggi e a smettere di usare latte, formaggio e carne, privandoli di fatto dei loro mezzi di sostentamento. Da quando è stato scoperto il primo veleno vicino a Tuwani il 22 marzo 2005, altri campi sono stati presi di mira nella stessa regione.”
Poiché, come detto, il libro di Travaglio non parla veramente dei palestinesi, non stupisce che non accenni a questi crimini, i quali contrariamente alla congiura attribuita al Muftì sono comprovati.
Anche sul collaborazionismo col nazismo, Finkelstein non si limita a ridimensionare le accuse mosse al Muftì, il cui nome nemmeno compare negli atti del tribunale di Norimberga. Finkelstein ricorda anche un fatto rivelato dallo storico Joseph Heller, nel suo libro sul terrorismo sionista che preparò la fondazione di Israele[21]:
“A partire dalla fine del 1940 l'organizzazione sionista dissidente di destra “IZL in Israele” cercò un accordo con i nazisti sulla base di una “collusione di interessi” tra la “nuova Germania e il rinato volkisch-nationalen Hebraertum [ebraismo nazionalpopolare]” e allo scopo di “ristabilire lo Stato ebraico nei suoi confini storici, su una base nazionale e totalitaria, alleato del Reich tedesco”. Sebbene i nazisti non abbiano risposto nonostante i ripetuti appelli, l'iniziativa sionista ebbe un epilogo degno di nota. Un membro di questo gruppo di aspiranti collaboratori dei nazisti, Yitzhak Shamir, è diventato primo ministro di Israele.”[22]
Penso sia superfluo spiegare perché questo interessante quanto trascurato spaccato di storia non poteva trovare posto nel libro di Travaglio.
Per inciso, tanto Finkelstein quanto Heller sono ebrei. Heller è professore emerito all’Università Ebraica di Gerusalemme. Durante l’escalation del conflitto a Gaza, è diventato virale un video di Finkelstein che, accusato di mancanza di rispetto verso l’Olocausto, rivendica di essere figlio e parente di sopravvissuti alla Shoah. Per aver incontrato dei rappresentanti di Hezbollah durante la guerra tra Israele e Libano, Finkelstein è stato arrestato, interrogato per 24 ore, deportato, e infine gli è stato precluso l’ingresso per 10 anni ne “l’unica democrazia del Medio Oriente”.
Il negazionismo di Netanyahu
Curiosamente, lo stesso Travaglio si avvicina per un momento a criticare l’abuso ideologico della storia:
“Nel 2015 Netanyahu riesce a dichiarare al Congresso sionista mondiale, come un negazionista qualsiasi, che “Hitler non voleva sterminare gli ebrei, solo espellerli”, poi però fu traviato dal Muftì di Gerusalemme (lo zio di Arafat).”
Con questo virgolettato, il problema pare essere l’affermazione che Hitler avrebbe voluto espellere gli ebrei, e non l’assurda tesi per cui l’Olocausto sarebbe stato ispirato dal Muftì. È un fatto storico acclarato – ne parla persino il sussidiario di storia impiegato da mio figlio alle medie – che Hitler puntasse originariamente a deportare gli ebrei, con il Madagascar come destinazione potenziale[23]. Addirittura, i nazisti avevano firmato un accordo con i sionisti, l’accordo di Haavara, per il quale gli ebrei che abbandonavano i loro averi in Germania per rifugiarsi in Palestina, contrariamente a quelli diretti altrove, potevano ricevere un rimborso. Sull’accordo ha scritto in anni recenti persino Sergio Romano, che lo contestualizza in una prima fase in cui l’antisemitismo nazista si concentrava appunto sull’espulsione[24]. Si noti che Romano riporta anche le proteste del Muftì supercattivo, e spiega che i nazisti lo ignorarono per mantenere invece il patto coi sionisti.
Gli storici se la sono presa invece con la parte che Travaglio lascia fuori dalle virgolette, ovvero la dichiarazione che il Muftì sarebbe stato l’ispiratore dell’Olocausto. Naturalmente è stata aspramente criticata da quanti la vedono come il culmine di decenni di distorsione propagandistica della storia della Palestina[25], ma anche dal leader dell’Unione Sionista[26] e dallo Yad Vashem[27]. La polemica non è stata però inutile perché ha offerto ad alcuni storici l’occasione di ricordare che, se 6300 arabi, tra cui un migliaio di palestinesi, servirono tra le fila dell’Asse, solo tra i palestinesi gli Alleati reclutarono 9000 soldati, e 250 000 arabi si batterono contro i nazifascisti nell’esercito francese, rappresentandovi la gran parte dei morti e dei feriti in quanto soldati semplici[28]. Insomma, a conti fatti i palestinesi in particolare e gli arabi in generale non hanno debiti, ma crediti, per il loro impegno storico contro i perpetratori dell’Olocausto.
Talvolta Travaglio dà spazio ai più recenti sviluppi della propaganda, e il suo racconto è più nelle corde dell’ideologia di Netanyahu di quanto i giudizi su quest’ultimo indurrebbero a pensare. Del resto, Netanyahu è criticato più per la riforma della giustizia e le inchieste in corso – gli aspetti, diciamo, “berlusconiani” – che per l’incapacità di tutelare la sicurezza degli ebrei e l’infame genocidio dei bambini di Gaza.
La Guerra dei Sei Giorni: Chi ha attaccato chi
Altre volte Travaglio si limita a riportare acriticamente semplificazioni e veri e propri errori che sono ormai penetrati nell’opinione pubblica occidentale. Così è sulla Guerra dei Sei Giorni: Travaglio la considera una “guerra preventiva” alla quale Israele fu spinto dalle azioni ostili, anche se non apertamente bellicose, di Nasser: “Pietro Nenni, leader del Psi, annota nei suoi diari: “Per primo ha sparato Nasser quando ha chiuso il golfo di Aqaba”.” Poiché il parere di Nenni non pare dirimente, ecco una fonte meglio informata sui fatti. Il Primo Ministro israeliano Menachem Begin dà una versione diversa nel suo discorso al National Defense College, riportato sul New York Times del 21 agosto 1982[29]. Begin distingue tra “guerre senza scelta” e guerre dove invece Israele ha deciso. A quest’ultima categoria appartiene la Guerra dei Sei Giorni: “Nel giugno 1967, avevamo di nuovo una scelta. Le concentrazioni dell'esercito egiziano nei sentieri del Sinai non provano che Nasser stesse davvero per attaccarci. Dobbiamo essere onesti con noi stessi. Abbiamo deciso di attaccarlo.” Nello stesso discorso Begin riporta una citazione di Ben Gurion attuale quanto inquietante: “In realtà, abbiamo accettato e ci siamo sottomessi a un dettame americano, soprattutto per quanto riguarda la Striscia di Gaza (che David Ben Gurion chiamava "la parte liberata della patria”)… Dopo il 1957, Israele dovette attendere 10 anni interi perché la sua bandiera tornasse a sventolare su quella porzione di patria liberata.” Niente di nuovo sotto il sole: Israele considera Gaza come cosa propria, e Netanyahu non è né una deviazione né una degenerazione, ma casomai una prosecuzione coerente della traiettoria politica e militare di Israele (anzi, almeno non ha la storia di personale militanza terroristica di Begin e Shamir). Devo ringraziare Travaglio perché, rivedendo le fonti sullo scoppio della Guerra dei Sei Giorni, questo discorso di Begin e la citazione che contiene mi hanno spinto ad approfondire l’ideologia di Ben Gurion sui confini dello Stato Ebraico, conducendomi alle citazioni che riporto più avanti.
I protetti degli imperi
Travaglio forza non solo la storia ma anche la logica fin dall’inizio del libro, e diverse asserzioni o implicazioni sulla nascita di Israele sono non solo fattualmente errate e fuorvianti ma anche assurde o contraddittorie. Un esempio:
“Nel 1917 il ministro degli Esteri, Arthur James Balfour, ha rilasciato una celebre dichiarazione: “Il Regno Unito vede con favore la fondazione in Palestina di un Focolare nazionale per il popolo ebraico”. Ma è un fuoco di paglia, foriero soltanto di delusioni.” (corsivo aggiunto).
Poche righe prima riporta invece – correttamente – che la popolazione ebraica di Palestina era aumentata di sei volte sotto il mandato britannico: da 85mila unità nel 2014, a 530mila alla fine del secondo conflitto mondiale. E questo perché i britannici limitarono l’immigrazione solo quando costretti dalle continue rivolte arabe, e per evitare che gli oppressi fossero tentati dalle lusinghe dell’Asse. Imporre dei limiti, però, non significa contrastare: il Mandato britannico fu indiscutibilmente un promotore della creazione di Israele. Come abbiamo visto, la lealtà dei palestinesi in particolare e degli arabi in generale non fu in alcun modo compensata: al contrario, fu punita. A discolpa dei britannici va detto che nel frattempo gli estremisti sionisti, unendo il consueto opportunismo allo straordinario fiuto per il potere, avevano iniziato a compiere attentati contro i loro antichi protettori e si erano invece rivolti alla più efficace tutela statunitense (e sovietica). Il Mandato britannico favorì prepotentemente il progetto sionista, e addirittura già dagli anni ’20 il nome Eretz Israel (“Terra d’Israele”) compariva accanto al nome arabo per la Palestina nei documenti ufficiali. Da chi venne la decisione? Dalla massima autorità locale: l’Alto Commissario Herbert Samuel, l’ebreo sionista che governò la Palestina dal 1920 al 1925 per conto dell’Impero Britannico. Per capire quanto l’imposizione del nome Eretz Israel fosse iniqua, basti ricordare che all’epoca gli ebrei rappresentavano circa il 10% della popolazione della Palestina. Il 90% fu implicitamente dichiarato straniero in casa propria, circa 30 anni prima della proclamazione formale dello Stato di Israele.
La guerra “a mani nude”
Anche l’idea che i britannici avrebbero lasciato le proprie armi ai palestinesi come “ultimo dispetto”, come dice Travaglio, è fuorviante. Vero, i britannici rifornivano di armi i paesi arabi: si erano impegnati a farlo anche con dei trattati. Fu proprio per questo che, quando la Gran Bretagna impose l’embargo, Egitto, Iraq e Transgiordania rimasero prive dell’unica fonte di armi e munizioni. Al contempo, Israele faceva liberamente incetta dall’Unione Sovietica e da tutto il blocco orientale. Del resto, come avrebbe potuto Israele combattere la sua prima guerra, la Guerra d’Indipendenza che seguì immediatamente la proclamazione dello stato, non solo contro i pochi palestinesi la cui resistenza non era stata spezzata da decenni di repressioni, ma pure contro diversi eserciti arabi?
Travaglio scrive letteralmente “Israele deve imparare subito a combattere da solo, a mani nude.” Devo confessare che, di tutto il pamphlet, questo è il punto che mi ha lasciato più incredulo. Arrivato a questa iperbole, per quanto in linea con il tono generale, ho sorriso aspettando il passaggio dalla retorica alla storia: ma il passaggio qui semplicemente non c’è. Travaglio insiste: “Scarseggiano però i quadri militari e gli armamenti: soprattutto l’artiglieria (pochissimi cannoni), i mezzi corazzati e l’aeronautica (una trentina di vecchi aerei incollati con lo sputo), perfino le uniformi.” Il lettore è abbandonato a chiedersi non solo come degli immigrati privati e, ci viene detto, osteggiati, potessero contrabbandare cannoni e “una trentina di vecchi aerei” in uno stato non loro – appunto il Mandato britannico. C’è poi da chiarire come potessero mettere in piedi un’industria bellica praticamente da zero, in un paese che fino al giorno prima non gli apparteneva, sotto il fuoco dell’immediato attacco degli arabi. Travaglio non lo spiega, e il lettore è portato a pensare che davvero si possa combattere una guerra a mani nude, come scrive incredibilmente ma letteralmente. Il riassunto del libro potrebbe essere: “a Israele tutto è possibile”: materialmente e moralmente.
La verità è molto più prosaica ma rivelatrice: i sionisti non annodavano i cannoni dei carri nemici come nei cartoni animati. Erano invece coperti fino ai denti di armi, che avevano anche iniziato a produrre in proprio, con la connivenza quando non con l’appoggio del Mandato, persino quando le organizzazioni estremiste sioniste lanciavano attentati contro le stesse forze britanniche. Infatti, i caduti tra le forze sioniste furono una frazione di quelli britannici, che pure in teoria rappresentavano il potere. L’opposto del concetto di rappresaglia. Dopo aver stroncato nel sangue le rivolte arabe e disarmato i palestinesi, l’unica reazione dei britannici alle violenze degli squadroni sionisti fu di accelerare la ritirata. L’attentato al King David Hotel, ordinato dal futuro primo ministro Begin, è ben noto: solo in quell’episodio, i caduti britannici superarono i caduti sionisti nell’intero “conflitto” col Mandato, se tale vogliamo chiamarlo. L’Ayalon Institute, oggi trasformato in un museo, produceva milioni di proiettili per i sionisti sin dal 1945[30]: sorgeva proprio accanto a una base britannica, “sotto il naso dei britannici”, come dice il sito ufficiale. Nel frattempo, Al Schwimmer contrabbandava aerei dagli Stati Uniti. Condannato dopo la guerra per la violazione delle leggi sulla neutralità, non fece un giorno di galera, e divenne subito amministratore delegato dell’industria aerospaziale israeliana[31].
D’altra parte, tutte le maggiori potenze internazionali facevano a gara per sostenere i sionisti e farsi consegnare da essi le chiavi del controllo del Medio Oriente e del giogo da imporre ai popoli arabi – non solo ai palestinesi – dopo una decolonizzazione formale. Gruppi armati come Stern e Irgun seminavano stragi e terrori tra i palestinesi ben prima della proclamazione legale dell’indipendenza di Israele: e questa fu appunto tale, una formalità, che permise ai sionisti di spingersi ancora più in là. Se avevano moltiplicato per otto la propria popolazione e già rivendicato il nome ufficiale di Eretz Israel sotto il Mandato britannico, cosa potevano fare ora con l’indipendenza, l’appoggio a gara di USA e URSS, il riconoscimento dell’ONU? La risposta sta in una parola: al-Nakba, la catastrofe dello sfollamento di 750mila palestinesi, dell’uccisione di diverse migliaia, della cancellazione deliberata di circa 500 villaggi, della loro storia, della loro cultura. Fu persino nominata una commissione archeologica per cambiare i nomi dei luoghi.
Una risoluzione coloniale
Arriviamo qui a un nodo fondamentale nella prospettiva di Travaglio, perché tanto è il peso che ci attribuisce, quanto la sbrigatività con cui lo tratta nel libro: la famigerata risoluzione 181 che spartisce la Palestina attribuendo la maggioranza del suo territorio a Israele, e relega nel restante la parte più numerosa della popolazione, che è invece arabo-palestinese. È chiaro come la concessione del deserto del Negev fosse necessaria per dotare Israele anche del porto di Eilat, e permettergli quindi la funzione di raccordo logistico nelle catene dei trasporti internazionali che era tanto indispensabile ai suoi sponsor coloniali e al suo arricchimento. Ma non disperdiamoci sui dettagli. Travaglio scrive che la risoluzione fu respinta “soltanto” da 13 stati, perlopiù arabi. Analizzando la realtà non solo vale la pena di notare che ci furono anche un assente e 10 astensioni, tra cui il Regno Unito, in linea con la sua politica imperiale ora di aperta discriminazione a favore dei sionisti (come nella dichiarazione di Balfour e nell’amministrazione di Herbert Samuel), ora di pilatesca neutralità, secondo le convenienze del caso. A favore tutto il Sud America e l’Occidente: ben inteso, compreso il Sudafrica dell’Apartheid. Come noto, Stalin appoggiava in quel periodo Israele, che vedeva come un potenziale stato socialista: anche a lui, come a tutte le grandi potenze, i sionisti avevano lasciato credere che in cambio di un sostegno avrebbero fornito un affaccio sul Medio Oriente. E i voti da lui diretti furono ben tre, perché allora Bielorussia, Ucraina, e Unione Sovietica strettamente intesa erano membri indipendenti e votavano separatamente. A votare contro non solo tutti i paesi arabi e i paesi musulmani allora esistenti (la Turchia, il Pakistan, l’Iran) ma anche l’India.
Il caso dell’India è particolarmente interessante: non solo perché rappresentava già allora circa un settimo della popolazione mondiale, e perché la sua scelta non fu dovuta alla comunanza etnica né religiosa. La politica indiana Najma Heptulla, in un suo libro, riporta che ai delegati indiani furono promessi milioni e che la sorella di Nehru ricevette minacce di morte nel caso non avesse votato in modo “corretto”[32]. Queste dinamiche, che non sorprenderanno chi sa come le grandi potenze esercitano il proprio potere anche attraverso le istituzioni internazionali, passano però in secondo piano rispetto all’importanza del contesto. Siamo agli albori della decolonizzazione: l’India stessa è indipendente da pochissimo ed è tra i pochi rappresentanti del sud del mondo e dei non allineati. La Cina, che diverrà uno dei più convinti, coerenti, ed efficaci sostenitori della causa palestinese, da Mao fino alla dichiarazione di Xi Jinping che apre questo articolo, nemmeno era rappresentata. Molti dei maggiori amici della causa palestinese neppure esistevano: l’Indonesia arriverà all’ONU solo anni dopo, i paesi che ad oggi non riconoscono Israele sono una trentina. Invece i membri delle Nazioni Unite non sono più 57, ma quasi quattro volte tanti: 193. Allora erano molti meno perché gli imperi coloniali non si erano del tutto dissolti: è logico che questo, oltre a conferir loro una porzione più rilevante di voti, gli garantiva anche una maggiore influenza sugli stati minori, e sui neonati o neo-nascenti paesi postcoloniali. Così, ancora una volta, l’allineamento degli interessi delle super e grandi potenze ebbe la meglio sui diritti e sugli interessi degli arabi, sulla loro autodeterminazione, e sulla pace. Non ci è consentito sapere cosa pensasse la popolazione mondiale, ma dati i successivi sviluppi, vale la pena dubitare che fosse altrettanto sbilanciata in favore della causa sionista. Nel 1975 un’Assemblea Generale molto più numerosa approverà con 72 voti contro 35 la risoluzione 3379, che al netto delle premesse consta di una sola riga: “il sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale”[33].
La sragione della forza
Il voto contrario a Israele da parte dei paesi arabi non fu certo una sorpresa. Già nel 1919 il presidente americano Woodrow Wilson aveva inviato una commissione guidata da Henry Churchill King e Charles Richard Crane per analizzare le condizioni di creazione di uno stato ebraico (evidentemente anche Wilson, come Napoleone, non era mosso da un preveggente senso di colpa per l’Olocausto). Pur da una prospettiva di principio filosionista, il report descrisse schiettamente l’ostilità araba al progetto, le tensioni interreligiose e interetniche,[34] per concludere che l’immigrazione andava messa sotto controllo e il progetto di uno stato ebraico abbandonato. Data la contrarietà della popolazione, stimavano King e Crane, solo una forza permanente di almeno 50 000 uomini avrebbe garantito la creazione di Israele.
Più di vent’anni più tardi e nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, nel 1943, il re saudita Ibn Saud, dichiarò che “gli ebrei non hanno alcun diritto al possesso della Palestina” perché gli arabi la abitavano da tempo immemore. “Dio non voglia”, continuò, “che al termine della loro lotta gli Alleati vogliano coronare la vittoria scacciando gli arabi dalla loro casa”. Nel 1942 i britannici avevano tentato di spingerlo a un patto con il leader sionista Chaim Weizmann, con la proposta di nominare il re leader dell’intero mondo arabo, e la garanzia che Weizmann l’avrebbe aiutato a pagare i suoi debiti verso l’Impero Britannico. Ibn Saud rifiutò indignato ogni compromesso, lamentandosi di quelli che riteneva tentativi di corruzione. In seguito, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt viaggiò personalmente nella regione dei Laghi Amari, in Egitto, per incontrarsi con l’anziano Saud. Nonostante la reciproca simpatia e lo scambio di doni, il monarca saudita fu irremovibile: quando Roosevelt gli rivelò alcune notizie sull’Olocausto, e in particolare che in Polonia erano stati uccisi 3 milioni di ebrei, Saud replicò che allora dopo la vittoria se ne sarebbero potuti collocare lì altri 3 milioni. Roosevelt dovette abbandonare la sua insistenza in favore di uno stato ebraico e promettere che gli Stati Uniti non avrebbero intrapreso alcuna misura “ostile ai paesi arabi”. Di ritorno dal viaggio, privatamente, Roosevelt confidò letteralmente al suo emissario per il Medio Oriente Harold Hoskins che, date le dimensioni della popolazione araba, Israele poteva essere instaurato e mantenuto “solo con la forza”. In un’altra occasione disse al sottosegretario di stato Edward Stettinius che “la Palestina dovrebbe appartenere agli ebrei e non dovrebbe rimanervi alcun arabo”. Si noti che in tutto questo paragrafo sto parafrasando e traducendo una pagina di un archivio di stato israeliano[35].
Le promesse di Roosevelt furono rovesciate quando gli Stati Uniti divennero il primo stato a riconoscere Israele sotto la presidenza di Harry Truman. È lecito supporre che il presidente che dichiarò di non aver mai perso del sonno per la decisione di gettare due atomiche a guerra praticamente finita non si sia fatto troppi problemi né per gli impegni infranti né per la perenne e sanguinosa destabilizzazione del Medio Oriente.
Sfolliamo il Lazio?
Se quanto riassunto finora non basta a spiegare la situazione, facciamo un esempio concreto. Immaginiamo le Nazioni Unite, ma profondamente alterate rispetto ad adesso: escludiamo quasi tutte le maggiori potenze occidentali ed amiche dell’Italia. Ipotizziamo ora che venga messa all’ordine del giorno una risoluzione per riparare le ingiustizie e le persecuzioni contro Rom, Sinti e Camminanti, e che sia a questi assegnato il territorio del Lazio per costituire uno stato indipendente. I pochi paesi europei presenti votano contro, e gli italiani manifestano in tutti i modi la loro contrarietà, ma la risoluzione passa e quasi un milione di laziali viene sfollato, mentre si prepara la graduale emarginazione ed espulsione degli altri.
L’analogia tiene solo fino a un certo punto: infatti l’Italia ha delle responsabilità nella persecuzione dei nomadi (specialmente, ma non solo, all’epoca del regime fascista) e in questo si distingue dai palestinesi e dagli arabi che non avevano e non hanno alcun debito storico nei confronti degli ebrei. Al contrario: come detto, avevano pagato col sangue la loro fedeltà agli Alleati nella lotta contro il nazifascismo. Inoltre, avevano convissuto pacificamente con gli ebrei mediorientali per secoli. Infine, al giorno d’oggi gli sfollati laziali potrebbero esercitare la loro professione altrove, e grazie all’istruzione integrarsi in qualche altro posto (l’Europa offre anche più opportunità del Medio Oriente). Nel 1948 invece i palestinesi erano in buona parte contadini che una volta sradicati rischiavano di morire di fame, di freddo, e di malattie nelle tendopoli. Per cui questo scenario ipotetico sarebbe molto meno ingiusto di ciò che è stato concretamente inflitto ai palestinesi. Ma la domanda è: piacerebbe? I laziali chinerebbero la testa? Ringrazierebbero? Si noti che in questo ragionamento tralascio l’aspetto, già evidenziato da Vincenzo Brandi su L’Antidiplomatico, per cui le risoluzioni dell’Assemblea Generale non sono legalmente vincolanti[36].
Il pretesto teologico
Al di là dell’appoggio interessato delle super e grandi potenze, del progetto sionista, e del concretizzarsi di questi nella risoluzione 181, su cosa si baserebbe il supposto diritto di Israele a scacciare i palestinesi dalla loro terra? Sulla Bibbia, naturalmente ristretta all’Antico Testamento interpretato letteralmente? Sulla cartina politica del 70 dopo Cristo? E perché non quella del 70 avanti Cristo, o del 700 dopo Cristo? Queste razionalizzazioni teologiche convincono solo gli estremisti evangelici americani: anzi a ben guardare non dovrebbero convincere neppure loro, perché incoerenti col resto della loro dottrina.
Sulla questione ha scritto parole limpide (l’ebreo) Erich Fromm, peraltro sgombrando il campo dall’inutile domanda se i palestinesi siano fuggiti prima o dopo l’arrivo dei soldati israeliani. Così il grande psicanalista, filosofo, studioso del Talmud:
“Spesso si dice che gli arabi sono fuggiti, che hanno lasciato il Paese volontariamente e che quindi hanno la responsabilità di aver perso le loro proprietà e la loro terra. È vero che nella storia ci sono alcuni casi - a Roma e in Francia durante la rivoluzione - in cui i nemici dello Stato sono stati proscritti e le loro proprietà confiscate. Ma nel diritto internazionale generale vale il principio che nessun cittadino perde la sua proprietà o i suoi diritti di cittadinanza; e il diritto di cittadinanza è di fatto un diritto al quale gli arabi in Israele sono molto più legittimati degli ebrei. Solo perché gli arabi sono fuggiti? Da quando questo è punibile con la confisca dei beni e con il divieto di tornare nella terra in cui gli antenati di un popolo hanno vissuto per generazioni? Pertanto, la rivendicazione degli ebrei sulla terra d'Israele non può essere una rivendicazione politica realistica. Se tutte le nazioni rivendicassero improvvisamente i territori in cui i loro antenati hanno vissuto duemila anni fa, questo mondo sarebbe un manicomio[37]”.
Sulla legittimità degli stati creati con la violenza
Sia chiaro, tutto questo non implica lo smantellamento di Israele. Pare invece più ragionevole la soluzione dei “due stati”, purché razionalmente realizzata: evidentemente lo stato palestinese non può consistere in un atollo di gabbie a cielo aperto disseminate fra territori israeliani, e da questi controllate. Per la stessa ragione per cui non ha senso immaginare di ribaltare l’esito della discesa degli Unni in Ungheria, né di restituire ai nativi americani la totalità degli Stati Uniti, ovvero per la stessa ragione per cui i sionisti non avrebbero dovuto scacciare i palestinesi dal territorio che abitavano da quasi due millenni, la storia anche recente va accettata. Questo non significa negare la violenza della discesa dei barbari, del genocidio dei nativi o dei palestinesi, ma ripudiare faide e vendette, e minimizzare per gli innocenti il prezzo dei crimini dei loro padri. Per cui questa prospettiva non sostiene automaticamente la posizione massimalista e intransigente dell’Iran e di alcuni paesi arabi: come ricorda Travaglio, persino Hamas ha riconosciuto il diritto a esistere di Israele. Va rilevato invece come gli eccessi politici e propagandistici del sionismo estremista, e in particolare i crimini di guerra attualmente perpetrati contro Gaza, potrebbero convincere molti del contrario, come evidente dal recente summit della Lega Araba. Qui la risoluzione più dura proposta dall’Iran, che invocava l’embargo e altre misure drastiche, ha ottenuto il favore di Libano, Yemen, Algeria, Libia, Kuwait, Siria, Tunisia, Qatar, Iraq, Oman, Palestina. Solo Emirati, Marocco, Arabia Saudita e Bahrein hanno votato contro. Sudan, Giordania ed Egitto si sono astenuti.
Netanyahu degno figlio del sionismo
Inutile dire che Netanyahu sta spingendo proprio in quella direzione: il totale annientamento della Palestina. Anche in questo, come richiamato, Netanyahu è il coerente compimento dell’impresa dei padri fondatori, che da Ben Gurion a Begin consideravano Gaza cosa propria e i palestinesi dei fantasmi da disperdere col fuoco. È scorretto dire che Netanyahu non sappia quello che sta facendo, o non abbia un progetto di lungo termine. Come spudoratamente rivendicato dall’ex ministro degli esteri israeliano Danny Ayalon[38], il disegno è semplicemente scacciare i palestinesi in qualche tendopoli nel deserto, preferibilmente su territorio altrui. Se è stato possibile con 750 000 profughi nel 1948, perché non qualche altro milione nel corso dei prossimi anni? Si tratta della politica coerentemente perseguita sin dai primi insediamenti: ora coi soldi, ora con le pressioni e le minacce, ora con le discriminazioni delle autorità coloniali e le violenze dei gruppi armati protetti da quelle, ora col pretesto delle risoluzioni e delle tregue, spesso con la guerra aperta e gli attacchi quotidiani. E come avvenuto per più di cento anni, ora più rapidamente ora più gradualmente, ma sempre avanzando, nel lungo periodo, verso il completo genocidio dei palestinesi, col disinteresse o la complicità della “comunità internazionale”, i sionisti potrebbero realisticamente riuscirci.
Il buio prima dell’alba?
Forse, e bisogna sottolineare forse, non sarà così. Infatti, gli ultimi anni hanno visto cambiare fondamentalmente le regole del gioco. I presupposti per l’istituzione e l’espansione di Israele sono due: il primo è l’appoggio e lo strapotere delle super e grandi potenze; il secondo è la divisione e la debolezza dei palestinesi e degli arabi. Come richiamato, i primi insediamenti sfruttarono i disegni imperiali della Francia, la decadenza dell’amministrazione ottomana, e poi la connivenza interessata del Mandato britannico. La dichiarazione dell’indipendenza richiese il prodigioso allineamento dell’appoggio degli USA, dell’Unione Sovietica, ancora della Francia e, come detto, l’astensione della Gran Bretagna. Com’è ovvio il Regno Unito continuò poi a parteggiare apertamente per Israele, soprattutto perché l’Egitto stava reclamando la sua sovranità sul canale di Suez: ma la mossa servì almeno a far digerire all’opinione pubblica il ritiro dal Mandato e i tanti soldati di Sua Maestà smembrati negli attacchi terroristici dell’Irgun. La divisione tra cristiani e musulmani, tra sciti e sunniti, tra socialisti arabi e varie altre correnti politiche e religiose fu poi magistralmente sfruttata da Israele per consolidarsi. Ora però potrebbe suonare la campana della storia. Gli Stati Uniti e l’Occidente in generale sono in declino d’influenza, sull’onda dei disastri in Afghanistan, in Iraq, in Libia, in Siria. Le risorse ancora a disposizione degli USA sono in buona parte assorbite dal conflitto caldo con la Russia e dal braccio di ferro con la Cina. Nuovi centri di potere emergono dappertutto e tra essi, in prima fila, i paesi arabi, che hanno riaccolto la Siria nella loro Lega. Dopo aver risolto le tensioni tra Arabia Saudita ed Iran, pacificando così lo Yemen, il 16 dicembre 2023 la prima riunione della commissione congiunta tra Cina, Arabia e Iran ha solennemente affermato: “Il Medio Oriente non può più essere un’arena per il conflitto tra le grandi potenze”[39]. Il compimento della decolonizzazione, le sanzioni sulle risorse energetiche russe e la conseguente intesa nel contesto dell’OPEC + su ritmi di produzione e prezzi che giovano ai paesi produttori anziché al Nord del mondo, l’azione di sostegno della Russia (Lavrov ha appena dichiarato: “siamo convinti che la giustizia prevarrà tanto in Ucraina quanto in Medio Oriente[40]) e della Cina, persino i flussi migratori e la demografia stanno portando all’emergere della Turchia, dell’Arabia Saudita, dell’Algeria, del Qatar.
Se pare inverosimile che il Regno saudita si faccia dettare la politica estera da Hamas, è invece plausibile che l’Arabia abbia cercato una volta ancora di trovare una soluzione rispettosa dei diritti dei palestinesi come condizione per la normalizzazione dei rapporti con Israele. Il rifiuto o l’incapacità di Israele – per l’ennesima volta –potrebbe aver convinto i sauditi a mollare le briglie. Netanyahu ha capitalizzato l’occasione, che probabilmente aspettava, ma i crimini di guerra genocidari che colpiscono indiscriminatamente la popolazione di Gaza potrebbero ritorcersi contro di lui. A dicembre, 153 membri dell’assemblea generale ONU hanno votato per un cessate il fuoco immediato, e solo 10 contro: si tratta di una rapida crescita rispetto alla risoluzione del 27 ottobre che attrasse “solo” 120 voti a favore. Gli Stati Uniti sono rimasti gli unici a porre il veto al Consiglio di Sicurezza: ormai gli votano contro la Francia, la Svizzera, il Giappone, mentre è degna di nota la longeva ipocrisia del Regno Unito che ancora una volta si è astenuto. Il Sud Africa e la Bolivia hanno interrotto le relazioni con Israele: molti altri paesi hanno richiamato gli ambasciatori e promosso forti azioni diplomatiche.
Il mondo arabo, il mondo islamico, il mondo di tutti
Contrariamente alle teorie sull’”Eurabia”, non è affatto vero che le élites occidentali sarebbero filoarabe e antisraeliane. È vero esattamente il contrario. Lo dimostrano i voti alle Nazioni Unite riguardo ad Israele: quelli occidentali sono i più simpatetici del mondo. In proporzione alle sue dimensioni e importanza, il mondo arabo è oggetto di indifferenza o antipatia da parte delle classi dominanti, anche se gli interessi materiali hanno il loro peso. Quanto all’opinione pubblica, la forte immigrazione contribuisce inevitabilmente alla diffusione della verità su Israele e su Gaza, nonostante il razzismo e i pregiudizi contro gli arabi e l’Islam. I profili WhatsApp e Facebook si coprono di bandiere della Palestina; le manifestazioni portano milioni in piazza da Londra a New York. Nelle università, nei gruppi di amici, nelle trasmissioni, anche se relegate a tarda notte: un pubblico incredulo si interroga davanti alle immagini dei bombardamenti, e riscopre la storia. E per quante bocche abbia la propaganda, per quante pretestuose accuse di antisemitismo e di negazionismo possano essere messe in circolazione, le voci di 460 milioni di arabi risuoneranno sempre più forte, e ad esse si aggiungeranno quelle che di coloro che sono disposti ad ascoltare e pensare.
Esiste infatti un mondo e un popolo arabo. In televisione, Dario Fabbri ha sostenuto il contrario davanti a Massimo Gramellini: il mondo arabo starebbe solamente “nella testa degli occidentali”.[41] Se tralasciamo il gioco del bicchiere mezzo vuoto, per cui allora potremmo dire che non esista la Liguria date le infinite differenze tra Savona e Genova, è ovvio che si tratta di un’affermazione assurda, ma che nella sua erroneità contiene qualcosa di rivelatore. Infatti, il mondo arabo è molto più concreto e coeso, per dire, del mondo europeo. L’Europa non ha una lingua franca di riferimento, pur con tutti i limiti dell’arabo classico. Nemmeno la religione gioca in Europa un ruolo paragonabile a quello dell’Islam, che è rispettato anche dai leader socialisti e secolarizzati, tant’è che non è mai stato estirpato né dalla Tunisia né dalla Turchia. Forse persino dal punto di vista etnico si possono individuare più contatti tra marocchini ed arabi di quanti non ve ne siano stati, storicamente, tra antichi romani e finlandesi. Dalla moschea Hassan II di Casablanca alla moschea di stato a Doha, un visitatore che si risvegliasse con un’amnesia faticherebbe a capire in che paese si trova: l’unità di cultura e di riferimenti è palpabile. Se c’è un popolo europeo, c’è a maggior ragione un popolo arabo.
Certo converrebbe all’Occidente che non esistesse un mondo arabo, che meccanismi di integrazione analoghi alla comunità europea e alla NATO non si mettessero mai in moto nei paesi arabi. Israele riveste un ruolo fondamentale nel sabotaggio di questo processo: ma il potere di controllo esercitato dall’Occidente è limitato.
E dal Marocco al Qatar, indipendentemente dalle opinioni e dalle strategie dei governanti, il popolo arabo freme di indignazione e di rabbia per le ingiustizie storiche inflitte ai palestinesi e per le bugie sul loro conto. I più psicologicamente fragili e socialmente emarginati rischiano di finire vittime di gruppi radicali, e così sprecare la loro vita mietendo quella di qualche innocente. Sono casi eclatanti, gravi, ma rari. La stragrande maggioranza si dedica al lavoro, dagli operai agli ingegneri, dai giornalisti ai ricercatori. Chi nei paesi arabi, chi in Europa, chi altrove, costruiscono passo dopo passo il proprio futuro, la propria famiglia: proprio come i palestinesi, sono spesso più prolifici degli occidentali. Generazione dopo generazione, rifiutano l’ingiustizia storica ribadita in Palestina: rifiutano che i diritti umani si applichino solo agli altri, che le vite degli arabi siano insignificanti, che il potere e la compassione siano riservati all’Occidente e ai suoi amici.
Come loro, li rifiuta anche un mondo islamico, molto più vasto, che non ha alcuna intenzione di tornare all’epoca delle crociate, di vedersi umiliare ed emarginare nell’accesso ai luoghi santi e nella loro amministrazione, che non accetta lo stigma di “estremista” per la denuncia delle ingiustizie.
La questione palestinese non è definita né dall’uno di questi mondi né dall’altro. Attivisti ebrei e occidentali comprendono altrettanto bene la portata dei crimini perpetrati contro i palestinesi e li condannano, mentre paesi comunisti, dell’Estremo Oriente, dell’America Latina, “parteggiano” per la causa dei diritti dei palestinesi: cioè, non parteggiano affatto, perché la vera obiettività, la vera neutralità, non è una media tra il torto e la ragione, che di fatto si traduce inevitabilmente in un’apologia del torto. E la migliore garanzia della sicurezza per Israele non è la violenza, ma l’intesa e la pacificazione coi vicini. La vera neutralità, la vera obiettività, è la difesa degli interessi comuni, dei fatti, delle vittime, della giustizia, della pace. Per questo, questi mondi tanto diversi si parlano, e sostengono con diversa solidarietà questa lotta, rendendone tanto più probabile il successo.
Chi di spada ferisce
Molti decenni or sono Israele, con stratagemmi e aiuti esterni di ogni tipo, ha più volte sopraffatto le coalizioni dei paesi arabi appena emersi dalle catene coloniali. Recentemente, ha dovuto confrontarsi non con delle corrotte armate giordane, ma con i guerriglieri armati a puntino ed ideologicamente motivati di Hezbollah. Travaglio definisce eufemisticamente “un flop clamoroso” la seconda guerra di Israele in Libano: altri parlano invece di una sconfitta, perlomeno sul piano strategico. Per ammissione dello stesso analista israeliano Giora Eiland, consigliere di Sharon ed Olmert, Israele non può sconfiggere Hezbollah[42]. La vastità dell’arsenale della milizia libanese è sconosciuta, ma c’è chi parla di 200 000 missili: se il 7 ottobre persino i razzi artigianali di Hamas, alcuni dei quali ricavati da tubature, hanno potuto sopraffare l’Iron Dome, è facile desumere cosa accadrebbe in caso di un assalto di massa da più fronti. Ma l’Iran non ha neppure bisogno di scagliare i suoi guerriglieri in guerra: i “sostenitori di Dio”, gli Ansar Allah anche noti come Houthi, possono chiudere lo stretto di Bab al-Mandab alle navi dirette in Israele, come in parte già stanno facendo, o all’intero commercio mondiale. La “bomba atomica” commerciale di cui già dispone l’Iran è invece la chiusura dello stretto di Hormuz, per cui transita il 20% del petrolio mondiale. Si tratta di un gesto già minacciato in passato e del quale l’Iran è materialmente capacissimo. E la produzione di petrolio – e gas naturale – generalmente controllata dai paesi arabi e islamici, soprattutto nella regione del Golfo, è ancora più vasta. Di comune intesa, le potenze regionali potrebbero far tracollare le già zoppicanti economie dell’Occidente, se questo non mette un freno agli atti genocidari di Israele. L’atomica di cui Israele dispone e che lo scellerato ministro Amihai Eliyahu ha definito “un’opzione” tra le altre nel contesto dello sterminio di Gaza, non cambia di una virgola la situazione. I paesi arabo-islamici non hanno bisogno dell’atomica per devastare Israele: né militarmente, né economicamente, né diplomaticamente. L’epoca in cui il dominio di Israele poteva essere garantito dall’esercizio continuo dalla violenza, come già era chiaro a Wilson e Roosevelt, volge oramai alla fine. O Israele troverà, per la prima volta e finalmente, un modo di convivere che sia compatibile coi legittimi diritti ed interessi dei suoi vicini arabi, inclusi quelli dei palestinesi, che per la morale e il diritto internazionale sono del tutto identici a quelli degli ebrei, oppure “chi di spada ferisce, di spada perisce”.
Il tabù della critica a Israele
Prepariamoci a passare ai temi più importanti del libro di Travaglio, anche se li liquida in poche parole, praticamente senza produrre argomenti: l’apartheid e il genocidio.
Prima di farlo va però riconosciuta la difficoltà, anzi sarebbe meglio dire il pericolo, di articolare una critica pubblica alla politica di Israele su temi di questa portata. Anche se, come vedremo, gli esperti e molte figure di spicco nella scena internazionale generalmente riconoscono i crimini contro i palestinesi per quello che sono, in vari paesi, tra cui l’Italia, i concetti morali e giuridici di “antisemitismo”, “negazionismo”, e più generalmente “crimine d’odio” o “incitamento all’odio” rischiano di essere a tal punto distorti e strumentalizzati, che è effettivamente difficile pubblicare e far leggere un libro più obiettivo di quello di Travaglio.
In realtà numerosi intellettuali, molti dei quali ebrei, hanno mosso critiche anche più radicali, fino all’estremo del tabù assoluto: l’accostamento del sionismo al nazismo. Così lo storico Arnold J. Toynbee, così gli ebrei Noam Chomsky e Norman Finkelstein. Recentemente, pur di stroncare questa tradizione, si è raggiunto il ridicolo e il contraddittorio. A Masha Gessen – discendente di sopravvissuti all’Olocausto – è stato quasi ritirato il premio Hannah Arendt per aver paragonato il massacro di Gaza al ghetto di Varsavia. Samantha Hill ha fatto notare sul Guardian che quindi Hannah Arendt (ella stessa ebrea) non avrebbe potuto vincere il premio che porta il suo nome, dal momento che Arendt paragonò la violenza sionista al nazismo in una lettera collettiva al New York Times (firmata anche da un certo Albert Einstein)[43].
Dobbiamo ora condannare e “cancellare” gli ebrei Chomsky, Finkelstein, Arendt, Einstein, e da ultimo anche Gessen, come “antisemiti”? Dobbiamo tacere le condanne del massacro di Gaza per riverenza verso l’Olocausto? È proprio per il tesoro di valori conferito dall’Olocausto, e il “mai più” che ne riecheggia, che dobbiamo condannare l’efferato genocidio di Gaza.
Vero apartheid
Israele è colpevole di un vero apartheid, perché esiste una discriminazione legale degli arabo-palestinesi, persino quando questi sono cittadini dello Stato ebraico. Dalla “legge del ritorno” alla leva obbligatoria (dalla quale gli arabo-israeliani sono esentati) fino alle più controverse e manifestamente discriminatorie leggi sulla proprietà, inclusa l’introduzione dell’assurda categoria giuridica dei “presenti-assenti”, agli arabi non basta essere cittadini d’Israele per ottenere gli stessi diritti degli ebrei[44]. Già decenni orsono il grande intellettuale d’origine cristiano-palestinese, Edward Said, annotava nei suoi saggi che si tratta di un’apartheid nel senso più letterale del termine[45]. L’attenuante spesso proposta, che cioè il peggiore trattamento verrebbe riservato ai palestinesi ghettizzati in Cisgiordania e a Gaza, e che essi non sono cittadini israeliani, attenuante non è: è anzi un’aggravante, perché l’esclusione da una autentica cittadinanza rende questi palestinesi ancora più vulnerabili ed esposti a sistematici soprusi e violenze da parte dei coloni.
Ancora una volta l’argomentazione più solida di Travaglio è un tono che sembra non ammettere repliche: “chiunque abbia visto o studiato come viveva e quali leggi subiva la maggioranza nera dei cittadini sudafricani sa che le discriminazioni e le privazioni inflitte agli abitanti dei territori occupati di Cisgiordania ed ex occupati di Gaza, per quanto orribili, sono tutt’altra faccenda.” Mettiamo questa affermazione alla prova dei fatti ed andiamo a vedere cosa pensano quelli che hanno “visto o studiato” l’apartheid.
Hendrik Verwoerd, praticamente tra gli artifici del regime di apartheid sudafricano, ha dichiarato all’Assemblea Generale dell’ONU: “[Gli israeliani] hanno tolto Israele agli arabi dopo che questi vi avevano vissuto per mille anni. In questo sono d’accordo con loro. Israele, come il Sudafrica, è uno Stato di apartheid”. La dichiarazione è riportata tra l’altro in un libro di Sasha Polakow-Suransky, figlio di due attivisti ebrei sudafricani fuggiti dal Sudafrica per evitare l’arresto[46]. Identica l’opinione del successore di Verwoerd alla guida del Sudafrica: anche per John Vorster, Israele aveva “un problema di apartheid”, per cui i politici sudafricani guardavano “alla posizione e ai problemi di Israele con comprensione e simpatia”[47].
Questi sono solo due esempi tratti da una vasta letteratura. I giudizi espressi dal vincitore dell’apartheid, il Premio Nobel per la Pace Nelson Mandela, contro lo Stato di Israele, sono tali che in Italia scatenerebbero accuse di antisemitismo, o inchieste giudiziarie.
Vero genocidio
Israele è colpevole di un vero genocidio, almeno parziale, perché la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio offre la seguente definizione nel suo Articolo II:
“Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:
- a) uccisione di membri del gruppo;
- b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
- c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
- d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
- e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.”
Tralasciando l’elusivo elemento dell’“intenzione”, è evidente come a, b e c si applichino al caso palestinese. Difatti alla domanda posta dal Time, Raz Segal, ebreo israeliano che risiede negli Stati Uniti e dirige il programma di studi sull’Olocausto e sul genocidio alla Stockton University, risponde che l’operazione scatenata da Netanyahu contro Gaza “è un caso da manuale di genocidio”[48]. Anche una commissione di esperti delle Nazioni Unite conclude che “i palestinesi sono a grave rischio di genocidio”[49], e il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa, come molti leader arabi, ha condannato Israele per i suoi crimini di guerra e, esplicitamente, per il tentativo di genocidio.
Contro questi giudizi, Travaglio si produce nelle osservazioni di rito: “La Shoah-Olocausto è un unicum storico: nessuna strage, per quanto ampia ed efferata, può esservi accostata”. Al di là del tono apodittico, non si vede la ragione per cui il genocidio inflitto al popolo ebraico sarebbe a priori e irriducibilmente peggiore e diverso di quello patito da qualsiasi altro popolo: perché le vittime degli esperimenti di Mengele sarebbero “più vittime” dei nativi americani infettati deliberatamente col vaiolo[50]; o perché massacrare milioni di africani nella tratta degli schiavi sarebbe “meno grave” dell’istituzione dei campi di lavoro e di sterminio nazisti. Se la tesi è semplicemente che queste tragedie sono distinte e differenti, certo: lo sono, proprio come i caduti a Auschwitz erano altri e diversi dai caduti a Buchenwald, e come ciascuno di essi era diverso dal suo vicino di tragedia. Se invece si vuole sostenere che ci sono genocidi di serie A e di serie B, che l’Olocausto riveste un’unica e irripetibile importanza metafisica, ecco che questo è storicamente indimostrabile. Anzi, il rifiuto di confrontare, relativizzare, specificare comunanze e divergenze è esso stesso antistorico. È anche moralmente e giuridicamente sbagliato, perché contraddice il concetto stesso di diritti umani e il diritto internazionale, che si applica ad arabi, ebrei, bianchi, gialli, neri, indipendentemente da etnie, religioni, e altre circostanze.
Israele come Golia
Lo Stato di Israele non è mai stato “Davide contro Golia”: salvo, per chi ci crede, nel racconto biblico. Il progetto sionista non è certo la rivincita dei diseredati, ma come richiamato, l’allineamento degli interessi delle grandi potenze con i capitali dei Rothschild. E i palestinesi non sono affatto i Filistei dell’Antico Testamento, orridi giganti, dediti all’infanticidio rituale: sono uno dei popoli più oppressi, più martoriati del mondo, la più grande comunità di rifugiati che esista. Finché non sono stati espulsi dalle loro case, non hanno mosso un dito contro i loro vicini ebrei: sono più i palestinesi che hanno combattuto contro il nazismo di quelli che l’hanno sostenuto, nonostante le lusinghe e i tentativi da parte dei nazisti.
Il “peccato originale” nel conflitto israelo-palestinese non è certo la resistenza palestinese, o l’ovvio, dichiarato, e prevedibile rifiuto arabo alla risoluzione 181: affermarlo equivale a condannare la vittima di un’aggressione, perché i suoi denti sbucciano le nocche di chi lo prende a pugni. È assurdo parlare di “difesa” di Israele, quando non solo Israele guadagna territori da decenni, ma un secolo fa, formalmente, nemmeno esisteva. Come può un popolo “che si difende” espandersi continuamente? Come si può aggredire uno stato che non esiste? Come può uno stato stabilirsi “difendendosi” in mezzo a un popolo e ad altri stati che non lo vogliono?
Non c’è niente di “originale” nella resistenza dei palestinesi: l’origine del conflitto è l’imposizione dell’insediamento sionista, e l’espropriazione delle terre dei nativi. Non c’è niente di “peccaminoso” nella resistenza dei palestinesi: qualsiasi popolo in uguali condizioni reagirebbe come hanno fatto loro, e peggio.
E se queste affermazioni non suonano convincenti, o addirittura “antisemite”, lasciamo la parola al terso ragionamento di un grande oratore e protagonista degli eventi:
“Perché gli arabi dovrebbero fare la pace? Se fossi un leader arabo non scenderei mai a patti con Israele. È naturale: abbiamo preso il loro Paese. Certo, Dio ce l'ha promesso, ma cosa importa a loro? Il nostro Dio non è il loro. Noi veniamo da Israele, è vero, ma da duemila anni, e cosa importa a loro? C'è stato l'antisemitismo, i nazisti, Hitler, Auschwitz, ma è stata colpa loro? Vedono solo una cosa: siamo venuti qui e abbiamo rubato il loro Paese. Perché dovrebbero accettarlo?
Voglio distruggere innanzitutto l'illusione dei nostri compagni che il terrore [arabo] sia una questione di poche bande, finanziate dall'estero... Non siamo di fronte al terrore, ma a una guerra. È una guerra nazionale dichiarata contro di noi dagli arabi. Il terrore è uno dei mezzi di guerra... Si tratta di una resistenza attiva dei palestinesi a quella che considerano un'usurpazione della loro patria da parte degli ebrei - ecco perché combattono. Dietro i terroristi c'è un movimento che, sebbene primitivo, non è privo di idealismo e abnegazione.
Dietro di loro c'è il popolo arabo. Nelle nostre discussioni politiche all'estero, minimizziamo l'opposizione araba nei nostri confronti. Ma non ignoriamo la verità tra di noi. Insisto sulla verità, non per rispetto alla realtà scientifica ma a quella politica. Il riconoscimento di questa verità porta a conclusioni inevitabili e serie riguardo al nostro lavoro in Palestina... Non costruiamo sulla speranza che le bande terroristiche si stanchino. Se alcuni si stancano, altri li sostituiranno. Un popolo che lotta contro l'usurpazione della sua terra non si stanca tanto facilmente... è più facile per loro continuare la guerra e non stancarsi che per noi... politicamente noi siamo gli aggressori e loro si difendono. Militarmente siamo noi sulla difensiva ad avere la meglio... ma sul piano politico sono superiori... Il Paese è loro, perché lo abitano, mentre noi vogliamo venire qui e insediarci e, secondo loro, vogliamo portargli via il loro Paese.” [corsivo aggiunto]
Di chi si tratta? Un attivista per la pace, un esponente della sinistra radicale, un simpatizzante di Hamas?
Ovviamente no: a parlare è David Ben Gurion, il padre fondatore di Israele.[51] A Ben Gurion non sarebbe mai passato per la testa di considerare la resistenza palestinese un “peccato originale”, perché sapeva e capiva benissimo che i palestinesi combattevano per lo stesso motivo degli israeliani: il possesso della terra. La differenza era “solo” che i palestinesi, a differenza degli israeliani, ne avevano diritto. Se questa differenza valga qualcosa o meno, dipende evidentemente dal peso che si attribuisce al diritto morale e giuridico.
Ignorare o fraintendere questo punto, sul quale israeliani e arabi si intendono benissimo dalle loro opposte e speculari prospettive, significa ignorare o fraintendere l’essenza del problema della Palestina. Si possono anche scrivere diecimila pagine sulla questione palestinese, ma se si disconosce questo punto cruciale, in realtà si parla di altro.
E qual era, sin dal principio, l’obiettivo di questo conflitto? Forse la sicurezza del popolo ebraico? Un rifugio dai pogrom e dal rischio di un nuovo Olocausto? Instaurare “l’unica democrazia del Medio Oriente”? Non è che Ben Gurion anteponesse semplicemente le vite e gli interessi degli ebrei alle vite e agli interessi dei palestinesi: la tesi del sionismo è precisamente che la priorità su entrambe vada alla statualità di Israele:
“Se sapessi che è possibile salvare tutti i bambini in Germania trasportandoli in Inghilterra, ma solo la metà di loro trasportandoli in Palestina, sceglierei la seconda opzione, perché non siamo solo di fronte al giudizio su quei bambini, ma al giudizio storico sul popolo ebraico”[52].
“Non è per stabilire la pace nel Paese che abbiamo bisogno di un accordo. La pace per noi è un mezzo. Il fine è l'instaurazione completa del sionismo.”[53]
Se il fine a cui tutto va sacrificato è l’instaurazione dello Stato d’Israele, più precisamente, geograficamente, come va esso inteso? Ecco la risposta di Ben Gurion preceduta dal commento di un suo biografo[54]:
“Per Ben Gurion, i 1.835 anni di esilio ebraico non contavano e il moderno Stato di Israele era il naturale successore dell'antico Regno di Davide. I suoi nemici erano gli eredi degli antichi nemici: l'Egitto dei Faraoni, l'Assiria e la Caldea. La guerra era una continuazione delle guerre che Israele aveva sempre condotto contro i suoi vicini. Ben-Gurion scrisse nel suo diario il 21 maggio: “Il tallone d'Achille della coalizione araba è il Libano. La supremazia musulmana in questo Paese è artificiale e può essere facilmente rovesciata. Dovrebbe sorgere uno Stato cristiano, con la sua frontiera meridionale sul fiume Litani. Firmeremmo un trattato di alleanza con questo Stato. Poi, quando avremo spezzato la forza della Legione Araba e bombardato Amman, potremmo spazzare via la Transgiordania; dopo di che, la Siria cadrebbe. E se l'Egitto osasse ancora farci guerra, bombarderemmo Port Said, Alessandria e il Cairo. In questo modo avremmo posto fine alla guerra e avremmo regolato i conti con l'Egitto, l'Assiria e la Caldea a nome dei nostri antenati”.”
Ecco spiegato nelle parole del suo “padre fondatore” che la missione di Israele non è l’instaurazione di un rifugio, ma del dominio sul Medio Oriente e la vendetta storica sulle popolazioni arabe odierne, che tra l’altro hanno poco o niente a che fare con i paesi biblici citati dallo stesso Ben Gurion.
Insomma, se qualcuno proponesse che Israele è “Davide” nel senso metaforico, intendendo che si tratti di qualcuno di più piccolo e debole che riesce a sopraffare un aggressore soverchiante, questo è storicamente l’opposto della verità.
Se invece dicendo che Israele è “Davide” si intende che l’obiettivo posto agli albori dello stato è la restaurazione dell’Impero Davidico, questo è storicamente esatto.
La via della pace
Come si sono sviluppati tali propositi ideali nella storia concreta di Israele? Con il calpestamento di ogni argine morale e giuridico.
I sionisti sono stati protetti e sostenuti per decenni dalle autorità del Mandato britannico, molte delle quali erano ebrei sionisti: i sionisti hanno bombardato e assassinato i rappresentanti del Mandato britannico non appena l’hanno percepito come un ostacolo o un rallentamento ai loro piani:
Palestinesi e arabi, vicini di pacifici degli ebrei, hanno patito migliaia di morti e contribuito con centinaia di migliaia di soldati alla disfatta dell’Asse: Israele li ha sfollati e massacrati.
il giusto conte Folke Bernadotte, durante la Seconda Guerra Mondiale, aveva contribuito alla liberazione di migliaia di ebrei,[55] e come mediatore di pace dell’ONU, propose un piano che fu rifiutato con sdegno dagli stati arabi (tranne la Giordania): estremisti sionisti assassinarono il giusto conte Folke Bernadotte, per aver negoziato tregue e proposto un piano per loro troppo vicino agli interessi arabi.
Gli Stati Uniti sono il primo paese che ha riconosciuto l’indipendenza di Israele, e il suo principale artefice: Israele ha fatto saltare la USS Liberty, una nave spia americana, con decine di morti e feriti.
Israele giustifica la legittimità del suo stato proprio in base a una risoluzione ONU, la 181: quando l’Assemblea Generale ha condannato il sionismo come ideologia razzista e discriminatoria nella risoluzione 3379, Israele l’ha letteralmente stracciata. I sionisti hanno cambiato il nome di tutte le strade intitolate alle Nazioni Unite, e le hanno ridedicate al sionismo.
Israele è in perenne violazione di una trentina di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, che contrariamente alle risoluzioni dell’Assemblea, lo vincolano in quanto stato membro. Dal 1972, gli Stati Uniti hanno utilizzato il veto circa 40 volte per bloccare ulteriori risoluzioni di condanna di Israele[56].
A novembre, il ministro israeliano per l’agricoltura Avi Ditcher ha fieramente dichiarato: “Stiamo lanciando una nuova Nakba. Gaza Nakba 2023. Ecco come finirà”. Non è possibile chiarire più definitivamente ed esplicitamente che lo Stato d’Israele è un’unica, continua parabola di violenza da prima del 1948 al 2023.
Questa atroce trafila di gigantesche ingiustizie ha danneggiato il popolo ebraico e il mondo. Persa l’occasione di liquidare l’antisemitismo nell’immondezzaio della storia con la condanna universale dell’Olocausto, i sionisti hanno provocato reazioni violente e confusamente antisemite in milioni di menti deboli, incapaci di distinzioni. Il fanatismo sionista semina tuttora divisioni persino tra gli intellettuali e tutti gli ebrei, e le voci critiche e umanitarie che come sempre lo onorano vengono accusate di “antisemitismo interiorizzato”. Al contempo, le ingiustizie patite dai palestinesi e il controllo arbitrario dei luoghi santi, per i quali era invece previsto un regime speciale sotto la supervisione dell’ONU, sono state strumentalizzate dal fondamentalismo islamico, a danno del mondo intero, e rischiano di riportarci all’epoca delle crociate.
Né nel militarismo né nella rappresaglia si trova la sicurezza cui ha diritto il popolo ebraico: c’è ormai un secolo di precedenti a dimostrarlo. La sua storia è intrecciata indissolubilmente con quella del popolo palestinese, e i diritti degli uni possono essere realisticamente garantiti solo dall’uguale realizzazione dei diritti degli altri.
Alcuni tra i massimi intellettuali ebrei – Einstein, Fromm, Arendt, Chomsky, e molti altri – hanno elevato autonomamente il proprio giudizio ad un’altezza che non è esagerato definire eroica, e criticato al prezzo del disprezzo e dell’emarginazione potenti esponenti ed istituzioni del loro stesso popolo. Se in questo saggio ho a mia volta lasciato posto quasi solo a voci ebraiche, è stato da un lato per non essere vulnerabile ad accuse di parzialità, che sarebbero state sollevate se mi fossi rifatto maggiormente, per dire, ad Al-Jazeera o ai palestinesi; dall’altro, e soprattutto, per l’eccezionalità di queste testimonianze. A dispetto di quanti, per giustificare la barbarie, abusano del prestigio morale del popolo ebraico, questi suoi esponenti accrescono tanto quello quanto il patrimonio di valori dell’intero genere umano.
La propaganda può solo cullare e confermare in una confortevole ignoranza. La storia ha il potere di inquietare le coscienze, per smuoverle verso la via della giustizia e della pace.
NOTE
[1] Antoine Siméon Gabriel Coffinières, Buonaparte peint par lui-même dans sa carrière militaire et politique, Belin-Le Prieur, 1814, p. 120.
[2] Basti come esempio il celeberrimo “che coglione!” con cui apostrofò re Luigi XVI per non aver represso nel sangue la rivolta del popolo francese: “Bisognava spazzarne tre o quattrocento a fucilate: gli altri sarebbero fuggiti". Andrew Robert, Napoleone il grande, Traduzione di Luisa Agnese Dalla Fontana e Aldo Piccato, UTET, Torino 2015, p. 66; anche in Dmitrij Merežkovskij, Napoleone: L’uomo, la sua vita, la sua storia, Rusconi, Santarcangelo di Romagna 2019.
[3] Andrew Silow-Carroll, “Is Goy a Slur?” (“Dire “gentile” è un insulto?”), in Jewish Telegraphic Agency, 22 aprile 2019, https://www.jta.org/2019/04/22/ideas/is-goy-a-slur.
[4] Dal titolo di una biografia di Mordechai Bar-On.
[5] Raz Kletter, A Very General Archaeologist, Gorgias Press, Psicataway 2006. La citazione sui tre decenni di ruberie viene dall’abstract.
[6] https://fathomjournal.org/book-review-moshe-dayan-israels-controversial-hero/
[7]https://www.ramat-hanadiv.org.il/en/ganim/%D7%9E%D7%A2%D7%A8%D7%AA-%D7%94%D7%A7%D7%91%D7%A8/
[8] https://www.aljazeera.com/features/2017/5/23/the-nakba-did-not-start-or-end-in-1948
[9] Time, 12 ottobre 1970, “World: Nasser's Legacy: Hope and instability” https://content.time.com/time/subscriber/article/0,33009,942325,00.html.
[10] Dalla recensione della biografia di David Hirst e Irene Beeson: The Dark Side of Anwar Sadat, pubblicata da Thomas W. Lippman sul Washington Post il 25 aprile 1982: “[Sadat] non è stato un brillante statista che ha guidato la sua nazione verso la pace e la gloria, ma una frode pura e semplice: in parte buffone, in parte banchiere, e in tutto e per tutto traditore della causa araba che ha professato di sostenere. [I giornalisti Hirst e Beeson] ritengono che gli egiziani abbiano visto attraverso una facciata che ha ingannato gli ammiratori di Sadat in Occidente.” E ancora: “Aveva, dicono, “certe doti superficiali”. Era un attore. Aveva il talento del giocatore d'azzardo. Ma, soprattutto, era un consumato opportunista. . . Non c'era divinità che non volesse detronizzare, non c’era principio che non volesse abiurare, non c’era cambio di direzione, abbandono di un amico, abbraccio di un nemico. Non c’era atteggiamento di cui, nel suo vero io, non fosse l’antitesi. Era costante solo nella sua incostanza. La politica cambiava, e in modo irriconoscibile; solo la persona, la sua retorica, le sue stesse parole - intemperanti, demagogiche, alternativamente offensive e ossequiose - rimanevano opportunisticamente, mendacemente le stesse”.
[11] “The Mossad had reported that the third man, Adnan Al-Jishey, had died of heart failure sometime in 1978–1979 in the Persian Gulf state of Dubai. His natural death, they were told, was caused by a genetic heart mutation.”: Aaron J. Klein, Striking Back: The 1972 Munich Olympics Massacre and Israel's Deadly Response, Random House, Londra 2007.
[12] Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews, New York 1985, volume 2, pagine 789–90.
[13] Capitolo “Opération Atlas”, in Christian Destremau, Le Moyen-Orient pendant la Seconde Guerre mondiale, Éditions Perrin, Parigi 2015: “Une fois parvenu au sol, le groupe se trouva aussitôt dispersé et, dans la confusion, égara un précieux poste radio. Les policiers arabes et britanniques mirent très vite la main sur une partie de l’équipement et des effets qui avaient été parachutés, dont des sacoches contenant des pièces d’or, des détonateurs, un peu d’explosif et des capsules de poison, probablement destinées à permettre l’élimination d’individus considérés comme des collaborateurs des autorités du mandat. Les membres de la mission furent tous arrêtés au bout de quelques jours.”
[14] The Quest for the Red Prince, citato, pagina 58.
[15] Ivi pagina 61.
[16] Wolfgang Schwanitz, “A Mosaic on the Mufti’s Islam”, Jewish Political Studies Review, Vol. 21, No. 1/2 (primavera del 2009), pp. 178-182
[17] http://kosharovsky.com/interview-with-martin-gilbert/.
[18] “La vera storia dietro al commento di Netanyahu sull’Olocausto: un’intervista con il Dottor Wolfgang Schwanitz”, di Brent Scher, sul The Washington Free Beacon, 24 ottobre 2015 https://www.meforum.org/5581/schwanitz-interview.
[19] Beyond Chutzpah: On the Misuse of Anti-Semitism and the Abuse of History, University of California Press, Berkeley 2005.
[20] https://www.amnesty.org/en/wp-content/uploads/2021/06/mde150272005en.pdf
[21] Joseph Heller, The Stern Gang: Ideology, Politics and Terror, 1940–1949, Londra 1995, pagine 77–108 (le pagine citate da Finkelstein sono 85–86).
[22] Finkelstein, Beyond Chutzpah, Appendice II, pagina 278.
[23] Ne accenna ad esempio qui la storica dell’Olocausto Laura Fontana, con relativa bibliografia https://memoria.comune.rimini.it/sites/default/files/vivere_nei_ghetti.1237193676.pdf
[24] https://www.corriere.it/lettere-al-corriere/15_luglio_30/-PARADOSSI-ANTISEMITI-HITLER-E-LA-PALESTINA_ca467316-367a-11e5-99b2-a9bd80205abf.shtml
[25] https://theworld.org/stories/2015-10-21/holocaust-experts-netanyahu-no-palestinian-did-not-convince-hitler-kill-jews; https://mondediplo.com/2010/05/14blamethemufti.
[26] https://www.haaretz.com/israel-news/2015-10-21/ty-article/opposition-blasts-pm-for-distorting-holocaust-history/0000017f-dc33-d3a5-af7f-febf01760000
[27] https://www.haaretz.com/2015-10-22/ty-article/.premium/yad-vashems-chief-historian-netanyahu-had-it-all-wrong/0000017f-dc50-df62-a9ff-dcd77dd90000
[28] Antonio J Muñoz, Lions of the Desert: Arab Volunteers in the German Army 1941-1945, Axis Europa, New York 1997; Lukasz Hirszowicz, The Third Reich and the Arab East, Routledge & Kegan Paul, Londra 1966.
[29] https://www.nytimes.com/1982/08/21/world/excerpts-from-begin-speech-at-national-defense-college.html
[30] https://shimur.org/sites/ayalon-institute-bullet-factory-rehovot/?lang=en
[31] https://www.jewishvirtuallibrary.org/al-schwimmer
[32] Indo-West Asian Relations: The Nehru Era, Allied Publishers Limited, Bombay 1991, pagina 158.
[33] Più tardi, su pressione anche di Bush senior, l’Assemblea Generale ritirerà la risoluzione in cambio della partecipazione di Israele al processo di pace, che evidentemente non ha dato l’esito sperato.
[34] https://ecf.org.il/issues/issue/1367
[35] https://www.jewishvirtuallibrary.org/president-roosevelt-meets-king-saud-at-bitter-lake-february-1945
[36] https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-israele_e_i_palestinesi_lettera_aperta_a_marco_travaglio/39602_51752/
[37] Jewish Newsletter, Vol. XIV, No. 10, maggio, 19, 1958, p. 2.
[38] https://www.aljazeera.com/news/2023/10/15/palestinians-in-gaza-can-go-to-tent-cities-former-israeli-minister
[39] https://www.globaltimes.cn/page/202312/1303744.shtml
[40]https://tass.com/politics/1724325?utm_source=google.com&utm_medium=organic&utm_campaign=google.com&utm_referrer=google.com
[41] https://www.la7.it/in-altre-parole/video/pericolo-ritorno-terrorismo-in-europa-la-risposta-di-dario-fabbri-nelle-nuove-generazioni-esiste-una-14-10-2023-508046
[42] https://www.reuters.com/article/idUSTRE6BF20L/
[43] https://www.theguardian.com/commentisfree/2023/dec/18/hannah-arendt-prize-masha-gessen-israel-gaza-essay
[44] https://ilmanifesto.it/presenti-assenti-sotto-sfratto
[45] Si veda la citazione da una lettera del professor Israel Shahak, ovviamente israeliano ed ebreo sopravvissuto all’Olocausto, fondatore della Lega Israeliana per i Diritti Umani: “Non sono solo i palestinesi (compresi quelli che prestano servizio nell'esercito, nella polizia e nello Shabak israeliano) a non avere il diritto di utilizzare tali terreni. I regolamenti razzisti del Fondo Nazionale Ebraico, che si occupa di tali questioni, ne vietano anche l'affitto o qualsiasi altro utilizzo a persone non ebree. A mio avviso, il razzismo così istituzionalizzato supera in importanza il furto della terra ai palestinesi. Ci sono molti Stati che rubano sistematicamente la terra. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno derubato la terra degli indiani, trasformando la maggior parte di essa in terra di Stato. Tuttavia, tale terra è ora disponibile per l'uso da parte di tutti i cittadini statunitensi. Se a un ebreo negli Stati Uniti fosse vietato affittare terreni appartenenti allo Stato solo perché ebreo, ciò verrebbe giustamente interpretato come antisemitismo. Se non riconosciamo il vero problema - che è il carattere razzista del movimento sionista e dello Stato di Israele e le radici di questo razzismo nella legge religiosa ebraica [Halacha] - non saremo in grado di comprendere le nostre realtà. E se non riusciamo a capirle, non saremo in grado di cambiarle.” Citato in Edward Said, Peace and Its Discontents: Essays on Palestine in the Middle East Peace Process, Random House, New York 1996, p. 129. Said ricorda alla stessa pagina che più del novanta per cento della terra di Israele è riservata agli ebrei per tale motivo.
[46] The Unspoken Alliance: Israel's Secret Relationship with Apartheid South Africa, Pantheon, New York 2010, epilogo, pagine 240-41.
[47] John Quigley, “Apartheid Outside Africa: The Case of Israel,” Indiana International & Comparative Law Review 2, no. 1 (1991), p. 250. L’intero articolo è, come traspare dal titolo, una dimostrazione del fatto che Israele è un caso di regime di apartheid. L’autore, John Quigley, è professore di diritto all’Università dell’Ohio.
[48] https://time.com/6334409/is-whats-happening-gaza-genocide-experts/
[49] https://www.un.org/unispal/document/gaza-is-running-out-of-time-un-experts-warn-demanding-a-ceasefire-to-prevent-genocide/
[50] “Non si potrebbe pensare di inviare il vaiolo tra quelle tribù di indiani scontrosi? Dobbiamo, in questa occasione, usare ogni stratagemma in nostro potere per ridurli” propose Jeffrey Amherst al suo subordinato durante l’assedio di Fort Pitt: https://asm.org/Articles/2023/November/Investigating-the-Smallpox-Blanket-Controversy.
[51] Citato in Simha Flapan, Zionism and the Palestinians, Barnes & Noble, New York 1979, pp. 141-2.
[52] Per quanto difficile da tradurre, il significato scioccante dell’espressione è inequivocabile: ““If I knew that it was possible to save all the children in Germany by transporting them to England, but only half of them by transporting them to Palestine, I would choose the second—because we face not only the reckoning of those children, but the historical reckoning of the Jewish people.” Citato in Shabtai Teveth, Ben Gurion and the Holocaust, Harcourt Brace, Ney York 1996 p. 75.
[53] In Simha Flapan, Zionism and the Palestinians, citato p. 143.
[54] Michael Bar-Zohar, Ben-Gurion: The Armed Prophet, Prentice Hall, Englewood Cliffs 1968, pag. 130. Si noti che Bar-Zohar è già stato citato in proposito alla vicenda del Muftì: non si tratta insomma di una fonte radicalmente filopalestinese…
[55] https://www.yadvashem.org/odot_pdf/Microsoft%20Word%20-%206002.pdf
[56] http://www.david-morrison.org.uk/sadaka/briefings/BRIEFING-UN_Security_Council_resolutions_contravened_by_Israel.pdf