Siria: Il Pactum Sceleris

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Siria: Il Pactum Sceleris

 

 

di Saverio W. Pechar*

 

Il 22 ottobre del 1956 alti rappresentati diplomatici e militari britannici, francesi ed israeliani si incontrarono a Sèvres per pianificare l’invasione dell’Egitto; il giorno successivo scoppiò a Budapest la rivoluzione ungherese. La perfetta coincidenza temporale tra i citati eventi ne rende evidente l’interdipendenza nel quadro di un più ampio piano occidentale volto a mettere in difficoltà l’Unione Sovietica nel “cortile di casa” (L’Ungheria socialista) per costringerla ad abbandonare al suo destino l’Egitto, obiettivo primario di un’aggressione militare tripartita che si proponeva di rioccupare il Canale di Suez rovesciando al contempo il regime di Nasser. Mentre da una parte il bluff di Chruš?ëv ebbe successo (a differenza di quanto avvenne sei anni dopo, quando fu invece il bluff di Kennedy a prevalere) nello sventare completamente i piani franco-britannici, costringendo questi ultimi ad una precipitosa quanto umiliante ritirata dopo l’aperta dissociazione di Washington (senza il preventivo assenso della quale Londra e Parigi non avrebbero naturalmente mosso un dito), la caccia al comunista scatenata in terra magiara dagli elementi superstiti delle Croci frecciate in combutta con i settori più oltranzisti della Chiesa cattolica incarnati dal famigerato cardinale Mindszenty costrinse dall’altra le truppe del Patto di Varsavia ad intervenire militarmente per fermare i linciaggi e riportare il Paese nell’alveo del blocco orientale; ciò provocò una grave compromissione del prestigio di Mosca quale guida del movimento progressista mondiale, dando così inizio a quella lunga crisi di legittimità dell’Urss che sfociò infine nei ben noti fatti del 1989. Se pertanto il cosiddetto Occidente fallì nel raggiungere il suo scopo principale, esso centrò invece in pieno quello secondario, provocando ripercussioni che andarono probabilmente anche al di là dell’orizzonte contingente e previsto.

58 anni dopo, nel 2014, la città di Kiev fu teatro di un sanguinoso colpo di Stato nazista ugualmente orchestrato dalle Potenze occidentali con l’obiettivo di mettere ancora una volta in difficoltà la Russia nel “cortile di casa” (l’Ucraina) per costringerla ad abbandonare al suo destino la Siria, bersaglio di un’aggressione finalizzata a rovesciare il regime di Assad per sostituirlo con la filo-anglosassone e filo-sionista Fratellanza Musulmana. In questo caso, l’assenza di un tempestivo intervento di Mosca a sostegno del governo legale ha tuttavia fatto sì che il golpe degenerasse in guerra civile, mentre sul fronte mediorientale il tiepido sostegno accordato dal Cremlino alle autorità di Damasco si è tradotto nell’occupazione di vaste aree del Paese da parte delle forze armate turche e statunitensi e nel bombardamento quasi quotidiano del territorio rimanente ad opera dell’aviazione israeliana. Costretta infine quasi obtorto collo (riflesso tra le altre cose della storica diffidenza di Putin nei confronti delle gerarchie militari, attitudine del resto comune a tutti gli ex membri del KGB) a lanciare una sedicente “operazione militare speciale” per proteggere i propri concittadini del Donbass dalla violenza degli squadroni della morte ucraini, la Federazione si è perciò trovata a partire dal febbraio 2022 a combattere una guerra su due fronti contro l’intero schieramento militare della Nato e la sua appendice sionista: eppure, nonostante tale minaccia esistenziale alla sua stessa sopravvivenza, essa ha optato per una strategia sostanzialmente attendista, impostata sull’utilizzo di un coefficiente molto limitato di uomini e mezzi finalizzato all’obiettivo di raggiungere a tutti i costi un compromesso con la coalizione avversaria. Com’era logico aspettarsi, una simile postura è stata interpretata quale segno di debolezza dalla cupola anglosassone, che ha immediatamente posto il veto a qualsiasi ipotesi di dialogo, aumentando invece gradualmente il proprio coinvolgimento militare allo scopo dichiarato di infliggere una sconfitta strategica al nemico.

In quest’ottica il recente ricambio del vertice politico a Washington, lungi dal rappresentare un’opportunità per la Russia, potrebbe al contrario configurarsi come un pericolo potenzialmente mortale, in quanto suscettibile di rilanciare le ambizioni dell’élite liberale ancora molto influente ed ascoltata al Cremlino, la quale, seppur pesantemente ridimensionata dagli avvenimenti degli ultimi tre anni, ha immediatamente risollevato la testa, nella convinzione di poter ora contare su una sponda al di là dell’Atlantico. Le conseguenze nefaste di tale involuzione nella politica di Mosca non hanno tardato a manifestarsi proprio sul teatro bellico da quest’ultima percepito come secondario, ovvero quello mediorientale, sotto forma di un crollo repentino dell’esercito e dello Stato siriano che, specie alla luce del contrasto con l’ostinata resistenza alle orde islamiste posta in atto dagli stessi nell’eroico quadriennio 2011-2015, non può che costituire il frutto di un accordo tra la leadership russa (e iraniana) e la triade USA-Israele-Turchia, raggiunto verosimilmente alle spalle del presidente Assad, al quale è stata offerta la magra consolazione di un asilo politico utile quantomeno a risparmiargli l’oltraggio supremo a suo tempo riservato a Saddam ed a Gheddafi. Il breve lasso di tempo intercorso tra la vittoria elettorale di Trump e l’offensiva incontrastata dei gruppi terroristici su Damasco dà cioè adito al più che ragionevole sospetto che la mossa sia stata concordata in precedenza tra i nuovi apparati di potere che si celano dietro l’anziano miliardario e le loro controparti moscovite, configurandosi pertanto come una sorta di dono di fidanzamento al nuovo inquilino della Casa Bianca nell’ambito di un futuribile accordo globale che, negli auspici di Putin, dovrebbe rendere la controparte più malleabile nei confronti delle richieste russe e, di conseguenza, maggiormente propensa ad una soluzione del conflitto ucraino che tenga conto delle esigenze di sicurezza della Federazione. Fuor di metafora, la Siria sembra quindi essere stata l’oggetto di un baratto; un baratto sulla pelle del suo popolo, del popolo libanese e del popolo palestinese.

* Geografo, storico e segretario della sezione di Roma dell'AICVAS (Associazione Italiana Combattenti Volontari Antifascisti di Spagna), 

 

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