SME e Britannia: quella decisione di Ciampi l'inizio della nostra decadenza
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di Giacomo Gabellini
Nel gennaio del 1990, quando con il crollo del Muro di Berlino si cominciava a parlare con crescente insistenza della riunificazione tedesca e la Bundesbank si accingeva a rialzare vigorosamente i tassi per richiamare i capitali necessari a finanziare l’operazione, il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi dispose il passaggio della lira dalla banda larga alla banda stretta del Sistema Monetario Europeo (Sme).
La drastica riduzione dei margini di oscillazione non rispondeva ad alcuna ragione concreta, se non di supposto “prestigio internazionale” da conferire al Paese. In compenso, l’ingresso nella “massima serie” richiedeva un considerevole rafforzamento della moneta italiana, che la stessa Banca d’Italia si prodigò di sostenere attraverso un convinto innalzamento dei tassi.
Alcuni nostri connazionali, fiutata l’aria che tirava, cominciarono a esportare capitali all’estero, mentre il debito pubblico raggiungeva quota 105% rispetto al Pil, i rendimenti dei titoli di Stato schizzavano oltre la soglia critica del 12% e la bilancia dei pagamenti registrava un passivo sempre più pesante. Nel giugno del 1992, mentre il gotha della grande finanza anglo-statunitense si incontrava con alcuni dirigenti dei Ministeri romani più importanti e dell’industria di Stato italiana* a bordo del panfilo Britannia (di proprietà della Regina Elisabetta), la Bundesbank alzò i tassi al 10%, richiamando capitali da tutto il mondo e provocando una netta rivalutazione del marco rispetto a tutte le altre monete europee. Sul Forex, gli speculatori alzarono il tiro contro la lira, specialmente in seguito alla bocciatura del Trattato di Maastricht ad opera dei danesi.
La drastica riduzione dei margini di oscillazione non rispondeva ad alcuna ragione concreta, se non di supposto “prestigio internazionale” da conferire al Paese. In compenso, l’ingresso nella “massima serie” richiedeva un considerevole rafforzamento della moneta italiana, che la stessa Banca d’Italia si prodigò di sostenere attraverso un convinto innalzamento dei tassi.
Alcuni nostri connazionali, fiutata l’aria che tirava, cominciarono a esportare capitali all’estero, mentre il debito pubblico raggiungeva quota 105% rispetto al Pil, i rendimenti dei titoli di Stato schizzavano oltre la soglia critica del 12% e la bilancia dei pagamenti registrava un passivo sempre più pesante. Nel giugno del 1992, mentre il gotha della grande finanza anglo-statunitense si incontrava con alcuni dirigenti dei Ministeri romani più importanti e dell’industria di Stato italiana* a bordo del panfilo Britannia (di proprietà della Regina Elisabetta), la Bundesbank alzò i tassi al 10%, richiamando capitali da tutto il mondo e provocando una netta rivalutazione del marco rispetto a tutte le altre monete europee. Sul Forex, gli speculatori alzarono il tiro contro la lira, specialmente in seguito alla bocciatura del Trattato di Maastricht ad opera dei danesi.
La notte tra il 10 e l’11 luglio (un venerdì e un sabato), il governo Amato, insediatosi da neanche due settimane, varò il decreto-legge n. 333, intitolato Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica. Il provvedimento stabiliva testualmente che «per l’anno 1992 è istituita una imposta straordinaria sull’ammontare dei depositi bancari, postali e presso istituti e sezioni per il credito a medio termine, conti correnti, depositi a risparmio e a termine, certificati di deposito, libretti e buoni fruttiferi, da chiunque detenuti». Significativamente, la misura fu adottata nel fine settimana al fine di prevenire corse agli sportelli, e all’applicazione pratica del prelievo forzoso del 6 per mille fu attribuito il carattere di retroattività al 9 luglio precedente per evitare fughe di capitali. Il ministro del Tesoro Piero Barucci, dal canto suo, parlò di «contributo che chiediamo alla gente; devono mettere una mano sul cuore e una sul portafoglio».
L’iniziativa del governo Amato preluse a una manovra finanziaria comprendente 43.500 miliardi di tagli alla spesa pubblica e 42.500 miliardi di nuove entrate. Nonché 7.000 miliardi di dismissioni, da ottenere attraverso la preventiva conversione delle aziende pubbliche o parastatali in Società Per Azioni in vista della loro privatizzazione. Un volume complessivo di 93.000 miliardi di lire, pari al 5,8% del Pil dell’epoca. Nello specifico, fu introdotta l’Imposta Straordinaria Immobiliare (Isi, destinata a perdere il carattere di straordinarietà l’anno successivo) del 2 per mille sui valori catastali di fabbricati residenziali, e del 3 per mille sulle seconde case. Due mesi dopo, l’esecutivo impose un’imposta sui beni di lusso e il patrimonio netto delle società – la futura Irap – con aliquota pari al 7,5 per mille.
Parallelamente all’entrata in vigore del decreto-legge n. 333, la Banca d’Italia innalzò il tasso di sconto dal 12 al 13% e il tasso sulle anticipazioni a scadenza fissa dal 13 al 14,5%, caricando sulle spalle del Tesoro un esborso aggiuntivo di spese per interessi quantificabile in 10.000 miliardi di lire pur di sostenere la quotazione della moneta italiana.
Il 13 agosto, sulla scia dell’incedere di Tangentopoli e della campagna stragista di stampo mafioso, Moody’s declasso di ben due livelli il rating dei Buoni del Tesoro Poliennali. Il successivo 27 agosto, a un’asta organizzata dal Tesoro, rimasero invendute obbligazioni statali per un ammontare di 3.300 miliardi di lire. La mattina del successivo 4 settembre, il Forex italiano venne sommerso da un’ondata spaventosa di ordini di vendita sulla lira provenienti dall’Europa e dall’Asia – Wall Street era ancora chiusa. Di fronte allo scivolamento della lira a quota 765,50 per marco, la Banca d’Italia elevò il tasso di sconto di 1,75 punti percentuali portandolo alla soglia del 15%. Una mossa platealmente disperata, puntualmente interpretata come tale da singoli operatori e grandi gruppi speculativi – Quantum Fund di George Soros in testa – che inanellarono una interminabile catena di vendite allo scoperto destinate a vanificare la sconsiderata strategia difensiva messa in campo dalla Banca d’Italia in accordo con il governo, culminata con la polverizzazione di 48 miliardi di dollari di riserve valutarie.
La sera del 13 settembre, il premier Amato annunciò a reti unificate la svalutazione del 7% della lira. In realtà, l’entità del deprezzamento della moneta italiana calcolata sulla base delle transazioni effettive espletate sul mercato valutario sarebbe stata successivamente quantificata nel 32,2% rispetto al dollaro e del 29,2% rispetto al marco, che consentì ai grandi gruppi prevalentemente stranieri di acquisire le imprese statali messe in vendita nell’ambito del piano di privatizzazione disposto dal governo – la presidenza del comitato italiano per le privatizzazioni fu affidata a Draghi – a prezzo di sconto. Un disastro, dovuto anche all’ingente deflusso di capitali “autoctoni” che fece seguito al prelievo forzoso decretato nel luglio precedente. In appena due settimane, qualcosa come 25.000 miliardi di lire erano migrati dai conti di deposito delle banche italiane verso i conti cifrati degli istituti domiciliati in Svizzera e presso altri paradisi fiscali, consentendo ai relativi titolari che avevano provveduto “opportunamente” alla conversione dei propri averi in dollari di intascare una plusvalenza del 30% circa, pari a 9.000 miliardi. Altri tre mesi a questo ritmo, e l’impatto della manovra “lacrime e sangue” applicata dal governo solo poche settimane addietro sarebbe stato completamente vanificato.
Il 17 settembre, Amato ufficializzò l’uscita della lira dallo Sme. Il 7 ottobre, quando lo spread tra Buoni del Tesoro Poliennali e Bund tedeschi raggiunse la soglia record di 769,8 punti, la Lega Nord «invitò gli italiani a smettere di acquistare titoli di Stato a ridosso della maxi emissione da 47.000 miliardi e lo Stato arrivò a bloccare i pagamenti essenziali per contenere le emissioni delle obbligazioni».
Nel giro dei cambisti, il premier Amato, il governatore della Banca d’Italia Ciampi, il suo vice Lamberto Dini, il ministro del Tesoro Barucci e il direttore generale del medesimo dicastero Mario Draghi venivano sarcasticamente denominati “dream team”: chiara allusione alla formidabile squadra di basket statunitense uscita vincitrice alle Olimpiadi di Barcellona. Ma a dispetto dei fallimenti a loro ascrivibili, nei confronti di quattro dei cinque (tutti tranne Barucci) componenti del “dream team” scattò un meccanismo premiale. Amato sarebbe divenuto presidente della Antitrust e quindi della Corte Costituzionale. Ciampi si sarebbe insediato a Palazzo Chigi. Dini avrebbe assunto gli incarichi di ministro del Tesoro (governo di centrodestra), quindi di premier tecnico e infine di ministro degli Esteri (governo di centrosinistra). Draghi avrebbe ottenuto un ruolo di rilievo in Goldman Sachs, quindi la direzione della Banca d’Italia, poi la presidenza della Banca Centrale Europea e infine quella di primo ministro. A Soros, ciliegina sulla torta, sarebbe stata conferita una laurea honoris causa dall’Università di Bologna su proposta di Romano Prodi.
*A bordo del Britannia sarebbero stati presenti l’ex ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, il direttore della banca Imi Rainer Masera, il vicepresidente dell’Iri Riccardo Gallo, l’amministratore delegato di Comit Mario Arcari, il presidente di Ambroveneto Giovanni Bazoli, Alberto Pera dell’Antitrust, Corrado Conti della Consob, Giulio Tremonti, Luigi Spaventa, Mario Baldassarri, i vertici di Snam, Agip e Ina. Oltre a Mario Draghi, il quale avrebbe successivamente spiegato alla Commissione Finanze che le privatizzazioni non erano state attuate in un’ottica di ridimensionamento del debito pubblico, in quanto «i numeri del fabbisogno del debito pubblico sono talmente grandi che l’apporto che potrà provenire dalle dismissioni al risanamento della finanza pubblica o all’abbattimento del debito non sarà grande in termini puramente aritmetici. Ciò che conta è il segnale psicologico nei confronti dei mercati».
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