'Sputare fatti': il Content Creator e la Banalità del Neoliberismo
"Sputare fatti" altro non è che la rappresentazione eclatante della banalità e del conformismo del linguaggio che oggi (ci) domina
di Angela Fais per l'AntiDiplomatico
Tra le più recenti tendenze che hanno spopolato sui social c’è quello di ‘sputare fatti’. Tralasciando quanto sia già di per sé profondamente disgustoso il format di un trend che ‘sputa fatti’ in faccia a chi ascolta, va da sé che come tutte le tendenze il cui l’effetto è inizialmente dirompente come il contagio di un virus, tutti ahimè hanno iniziato a sputare fatti. Dagli influencer più noti alle persone comuni, agli esponenti delle più disparate categorie professionali. Passano in rassegna psicologi, medici, ginecologi ed urologi, estetiste, erboriste, vegani e ancora tra un ‘content creator’, professione che a quanto pare oggi risulta una delle più in voga, e qualche attrice porno, incontriamo persino - e qui si resta tra l’ incredulo e il divertito - persino preti e suore.
Quali fatti si sputano? Di tutto e di più.
Alcuni argomentano su questioni più attinenti alla sfera professionale, molti altri invece si tolgono semplicemente un sassolino dalla scarpa lanciando anatemi o insulti. Tutti però sputano uniti e fieri, animati da grande veemenza, sono categorici nella piena convinzione di dire delle altisonanti verità, con l’obiettivo di mostrarsi autentici, “veri”, mettersi a nudo abolendo ogni filtro. In questo e in altri trend sui social ma non solo, più genericamente in tutta la comunicazione in atto nella nostra società, si insegue il grande anelito dei nostri tempi: quella “Volontà di sapere” che aveva già indagato Foucault e che oggi si maschera dietro l'inganno e il sogno della sincerità assoluta. Dinanzi all’orrore del dover ‘dire tutto’, del ‘dirsi tutto’, già si espresse Jacques Derrida desiderando “di non essere compreso”, per prendere le distanze e sottrarsi al falso mito di un’autenticità a tutti i costi, che poi autenticità non è, ma instaura una vera e propria dittatura della trasparenza.
Stupido come tutti i trend che fanno impazzire i social, possiamo però ricavare da esso una analisi della società contemporanea. Sicuramente deve il suo successo al fatto che serve fedelmente gli obiettivi del capitalismo dell’informazione. Quest’ultimo lavora alacremente all’estrazione di dati per cementare la sorveglianza. Un ‘flusso di fatti’ assume la parvenza di una narrazione che però è stereotipata e in cui è assente la dimensione dialogica, l’incontro e la presenza dell’Altro. Nei dati, come nei fatti in sé e per sé, non c’è discorso. La parola “narrazione”, che non a caso tanta fortuna ha avuto negli ultimi anni, rimanda a quella “pretesa di spiegazione totale” che l’ideologia porta con sé, di cui parla H. Arendt. La narrazione come racconto ideologico che “fa luce su tutti gli avvenimenti storici ci permette di ottenere una spiegazione totale del passato, una completa valutazione del presente, un’attendibile spiegazione del futuro”.
Naturalmente oggi l’ideologia, diversamente dal tempo in cui la Arendt scriveva, è quella neoliberista. A prescindere dalla tendenza più o meno in voga, avere la pretesa di sputare fatti come se questi fossero verità assolute è un atteggiamento caratteristico del mainstream. E tradisce il pensiero per cui il fatto in sé privo di interpretazione possa sostituirsi al discorso. Si crede che il "dato bruto" qualora venga analizzato dalla intelligenza artificiale, possa essere luogo di verità. Non si pensa più. Già Heidegger diceva che l’assenza di pensiero è l’ospite inquietante del nostro tempo. E il discorso degenera in mera analisi dei dati. Ma “i dati e le informazioni da sole non illuminano il mondo”, scrive Byung-Chul Han. Senza pensiero e senza senso, la narrazione odierna al massimo produce frammenti. L’odioso ‘storytelling’ che oggi esplicita senza vergogna le sue finalità nella ‘promozione di un prodotto in modo avvincente ed efficace', cancella il chiaroscuro tipico del racconto, e si sostituisce alla sua storicità. Se per un verso le narrazioni odierne aspirano a una comunicazione totale nel senso indicato dalla Arendt, per un altro sono contraddistinte dalla frammentarietà, a volte anche incoerente, che confeziona la verità ufficiale e degrada la storia a storiella, riducendola a semplice bene di consumo. La narrazione ha la pretesa di farsi “totale” e proprio per questo resta frammentata: in essa si perde la prospetticità del prima e del dopo, si perde il senso storico. Già nel ’78 Jean Baudrillard scriveva: “Noi viviamo la fine dello spazio prospettico”. Questa visione aprospettica è in primo luogo linguistica. A diventare aprospettica è prima di tutto la parola di queste narrazioni che negano ogni futuro. Non c’è una visione prospettica proiettata nel futuro. Esso è solo catastrofe. Si ricorda lo slogan in pandemia: "Niente sarà come prima", ma anche tutte le narrazioni relative al cambiamento climatico. La parola si appiattisce e da storica si fa “comunicazionale” ossia diviene mero strumento per “comunicare cose”. E’ reificata. E diventa anch’essa merce, cosa fra le cose.
Si perde la plurivocità di significati e quell’infinito gioco di rimandi per cui ‘nella lingua tutto si tiene’, come diceva de Saussure. Quando alla parola resta solo un significato inevitabilmente andrà a coronare il conformismo del pensiero unico.
Nell’ambito di una comunicazione totale si trasmettono fatti, conducendo alla dittatura della trasparenza. Qui siamo noi stessi a esporci facendo introspezione, analisi e autoanalisi, oramai perennemente in una dimensione pubblica. Lontani dai conflitti sociali e dalla lotta di classe, ci si ritrova a “sputare fatti”. Si dice tutto. È il trionfo del conformismo e della chiacchhiera, per dirla con Heidegger. L’imperativo categorico è quello di ‘consegnarsi’. Con confessioni fiume che di autentico hanno ben poco. Tutto è già qui, sempre disponibile. Nel qui e ora di un eterno presente abitato da un individuo che ruota solo intorno a sé stesso, la distanza e la storia si esauriscono laddove la parola diventa univoca e tutto si dissolve in “narrazioni” stereotipate, format plasmati da questa esigenza di informazione continua.
"Sputare fatti" altro non è che la rappresentazione eclatante della banalità e del conformismo del linguaggio che oggi (ci) domina. Completamente esposto e sottoposto al controllo della società delle informazioni e ai calcoli degli algoritmi, fuori dalla sua storia.