Stalingrado, 80 anni dopo

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2 febbraio 1943-2 febbraio 2023: a 80 anni da Stalingrado “Cumpanis” ne ripercorre e ne celebra la Vittoria con un grande convegno pubblico, il prossimo 4 febbraio a Castelferretti (Ancona), introdotto da questa riflessione della redattrice di “Cumpanis” Nunzia Augeri

                         

di Nunzia Augeri* 

 

Il prossimo 2 febbraio 2023 ricorrerà l’ottantesimo anniversario della sconfitta subita dalle truppe tedesche a Stalingrado, ad opera dell’Armata Rossa dell’Unione Sovietica. Fu la conclusione di una battaglia durissima, sanguinosa, esasperata, che è considerata la più importante della Seconda Guerra mondiale. Scrisse nelle sue memorie il generale tedesco H. Doerr: “Per la Germania, la battaglia di Stalingrado fu la più pesante sconfitta della sua storia, per la Russia fu la sua più grande vittoria”. Ed era anche la conclusione, (o quasi) di un’avventura iniziata da Hitler nel giugno del 1941, con grandi illusioni e un’estrema ostinazione contro il grande nemico ideologico e politico: l’Unione Sovietica.

Con il grande Paese orientale, diventato comunista con la Rivoluzione sovietica del 1917 e dal 1924 governato da Josif Stalin, Hitler si era provvisoriamente accordato con il patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop del 1939. Pochi giorni prima, Hitler aveva però espresso chiaramente le sue intenzioni nei confronti dell’Unione Sovietica: “Il patto serve solo a guadagnare tempo, ma alla Russia succederà esattamente quel che succederà alla Polonia: noi annienteremo l’Unione Sovietica”. Le grandi ricchezze del territorio russo – il grano dell’Ucraina e il petrolio del Caucaso in primo luogo – erano estremamente necessarie alla Germania per proseguire la guerra, e inoltre, in base al suo razzismo che prevedeva il dominio dell’Herrenvolk, Hitler aveva il preciso progetto di sterminare gli slavi, considerati Untermenschen, esseri inferiori, subumani e che per di più erano comunisti. La guerra assumeva un aspetto non solo ideologico, ma di sterminio e annientamento.

In quel mese di giugno del 1941 la Germania di Hitler era praticamente padrona di tutta l’Europa continentale: l’Austria era stata annessa nel 1938; in Italia, Spagna e Portogallo i regimi fascisti di Mussolini, Franco e Salazar erano suoi sodali; la Polonia era stata assaltata per prima, nel settembre 1939, ed era caduta in tre settimane; la Cecoslovacchia era stata smembrata e poi fagocitata; i paesi dell’Est europeo – Ungheria, Romania, Bulgaria – erano retti da regimi simpatizzanti; Norvegia, Danimarca, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo erano stati conquistati con un rapido assalto che si era concluso con la conquista della Francia; Jugoslavia, Albania, Grecia erano cadute sotto i colpi congiunti italo-tedeschi.

Di fronte a Hitler si aprivano ormai le sconfinate steppe russe, lo “spazio vitale” cui la Germania anelava fin dal tempo del Drang nach Osten dei Cavalieri teutonici, nel XIII secolo. Con l’“Operazione Barbarossa” contro l’Unione Sovietica, l’esercito tedesco mise in campo una massa d’urto di tre milioni e mezzo di uomini, appoggiati da 3.300 carri armati e 2.770 aerei: circa il 70% delle forze disponibili, distribuite su un fronte di 4.000 chilometri. Le truppe della Wehrmacht erano accompagnate da importanti contingenti alleati provenienti da Ungheria, Slovacchia, Romania e Finlandia. Dall’Italia, Mussolini, ansioso di attaccare il bolscevismo, il nemico ideologico contro cui aveva sempre combattuto, organizzò subito un Corpo di spedizione in Russia (CSIR) di circa 62.000 uomini, che partì nel luglio 1941 e venne dislocato in Ucraina, dove soffrì molte perdite. L’anno seguente, nel luglio 1942, Mussolini organizzò la spedizione dell’VIII Armata, denominata ARMIR (Armata Italiana in Russia), cui vennero aggregate le residue truppe del CSIR, raggiungendo un totale di 230.000 uomini.

Fiducioso nella tecnica della Blietzkrieg, Hitler era convinto che i carri armati e la forza aerea gli avrebbero risparmiato le disavventure subite a suo tempo da Napoleone. In un primo momento i fatti gli diedero ragione: i comandi sovietici vennero colti alla sprovvista, i ponti furono presi dalle truppe tedesche prima che l’Armata Rossa potesse farli saltare, 1.200 aerei furono abbattuti al suolo negli aeroporti, 40.000 soldati caddero prigionieri nei primi sette giorni di guerra.

L’Unione Sovietica aveva una popolazione di 170 milioni di abitanti, e poteva quindi disporre di ampie riserve per sostenere la lotta: di fatto gettò nella guerra circa 11 milioni di uomini. Ma il suo stato economico e tecnologico era giudicato talmente arretrato che l’Inghilterra e gli Stati Uniti pensarono che la Germania sarebbe penetrata in territorio sovietico come “un coltello caldo nel burro”. Infatti, le truppe germaniche avanzarono subito per centinaia di chilometri entro il territorio russo, seguendo tre direttrici strategiche: a nord, verso Leningrado, l’attacco ideologico alla città che portava il nome di Lenin, il capo della rivoluzione sovietica, ma che era anche un importante centro industriale per la produzione di armi, nonché il porto sul golfo di Finlandia che dava accesso al mar Baltico e quindi apriva la via marittima più breve verso la Germania. Al centro, verso Mosca, l’attacco era di carattere politico ma anche strategico, dato che la capitale era il nodo stradale e ferroviario più importante di tutto il Paese, e vi era concentrato un gran numero di industrie. A sud, verso le foci del Volga e Stalingrado, l’attacco contro la città che portava il nome del capo dello Stato sovietico rivestiva agli occhi di Hitler una grandissima importanza simbolica oltre che economica, allo scopo di raggiungere il grano ucraino, il carbone e il petrolio del Caucaso. Il piano più vasto (e temerario) di Hitler, poi, prevedeva perfino il ricongiungimento con le truppe del generale Erwin Rommel che dalla Libia e dall’Egitto, vincendo l’esercito britannico, sarebbero risalite verso nord-est. Il 9 di settembre del 1941, dopo neppure tre mesi dall’inizio della guerra, le truppe tedesche assediavano Leningrado, e alla fine del mese erano nei pressi di Mosca: si dice che arrivarono a scorgere, da lontano, le cupole del Cremlino. Lì si fermarono.

“Hitler era fermamente determinato a radere al suolo Mosca e Leningrado e a sbarazzarsi del tutto della loro popolazione che, altrimenti, dovremmo nutrire durante l’inverno” – scrisse nel suo diario il generale tedesco Franz Halder. Il Führer, infatti, pensava di poter espugnare Mosca in poche settimane e mandò le sue truppe all’attacco senza prevedere abbigliamento e alimentazione adatti all’inverno russo, e senza prendere in considerazione le peculiarità del territorio e del clima. Se in Europa i carri armati avevano potuto lanciarsi a tutta velocità su una rete stradale fitta ed efficiente in territori ampiamente urbanizzati, non era lo stesso nell’immensa pianura russa, con rari villaggi sparsi, solcata da poche strade per lo più non asfaltate, dove la polvere penetrava dappertutto e costituiva un nemico insidioso per uomini e meccanismi. Inoltre, Hitler e il suo Stato Maggiore non avevano calcolato che nel nord l’autunno può essere molto precoce, il freddo e la pioggia possono arrivare già in agosto; la pioggia, mescolandosi alla polvere, produce la terribile rasputitza, una fanghiglia tenace e collosa, che si attaccava alle ruote dei mezzi e agli stivali dei soldati rallentando di molto la velocità e facendo della marcia trionfale della Blitzkrieg un penoso e lento arrancare.

Da parte sovietica, tutto venne organizzato per far fronte all’invasione: in poche settimane, migliaia di fabbriche della parte europea vennero smontate, macchinari e operai si trasferirono verso i territori orientali, negli Urali, in Siberia, nell’Asia centrale, lontani dal fronte e irraggiungibili per il nemico. La popolazione fu chiamata a resistere in ogni modo, e subito a ridosso dell’esercito invasore si organizzava la guerriglia partigiana. Gli enormi spazi della Russia europea permettevano di assorbire i balzi in avanti dei mezzi corazzati tedeschi, e l’esercito sovietico, pur retrocedendo e usando dello spazio, si impegnò con tutta la popolazione in una strenua resistenza.

Quando il 21 luglio iniziarono i bombardamenti su Mosca, la difesa passiva era già efficacemente organizzata: ogni edificio aveva il proprio rifugio attrezzato, nelle gallerie del metro erano state sistemate cuccette, rifornimenti di cibo e acqua potabile, centri di pronto soccorso. Un efficiente reggimento per la lotta contro gli incendi, composto da ragazzi e ragazze, riuscì a disinnescare 18.000 bombe incendiarie che avevano lo scopo di devastare la città. I cittadini erano aiutati anche da una dieta sufficiente: la tessera annonaria operaia prevedeva 600-800 grammi di pane al giorno, e al mese 2.200 chili di carne, 800 grammi di grassi (indispensabili per resistere al freddo), 500 grammi di zucchero, 2 chili di farina di cereali. Le mense aziendali, inoltre, permettevano di aumentare queste razioni, e Mosca poté resistere e continuare a funzionare.

Dagli Stati Uniti il presidente Roosevelt non esitò a inviare aiuti all’Unione Sovietica per un valore di 11 miliardi di dollari, consistenti soprattutto in mezzi di trasporto, estremamente necessari per superare le immense distanze nel territorio sovietico. Gli aiuti statunitensi furono particolarmente importanti nel settore ferroviario, dove ammontarono al 90% del materiale rotabile; vennero inviati anche 18.000 aerei e 7.000 carri armati. Dalla Gran Bretagna il primo ministro Churchill, malgrado il suo spiccato anticomunismo, non fece mancare aiuti militari che vennero inviati attraverso le acque dell’Artico, oltre Capo Nord, con azioni che i sovietici definirono “una saga nordica di eroismo, coraggio e tenacia”. All’URSS vennero forniti anche prodotti petroliferi, materie prime e materiale medico, fra cui un milione di dosi di antibiotici, allora di recentissima scoperta.

Hitler aveva contato molto sul fatto che la popolazione russa fosse ostile al regime comunista, e pertanto si sarebbe rivoltata contro il proprio governo e avrebbe fatto causa comune con l’esercito tedesco, accogliendolo come un liberatore. Ma il comportamento della Wehrmacht tolse ai russi ogni illusione: l’armata di invasori era seguita dalle Ersatztruppen, formazioni speciali delle SS naziste che avevano l’incarico anzitutto di scovare gli ebrei e ucciderli immediatamente. Dovevano, inoltre, uccidere altrettanto immediatamente i commissari politici dell’Armata Rossa, e impadronirsi di tutte le risorse che potessero servire a loro; a tutti quanti – soldati e civili russi– era riservato il destino di schiavitù degli Untermenschen.

Le battute d’arresto nei pressi di Mosca e di Leningrado, dove la strenua resistenza russa aveva bloccato l’avanzata nazista, rappresentavano le prime incrinature. Poi sopravvenne un precoce inverno. Nella notte fra il 6 e il 7 ottobre, nei pressi di Mosca ci fu la prima nevicata, e il generale Guderian, capo delle forze motorizzate tedesche, chiese l’equipaggiamento invernale per i suoi uomini, soprattutto stivali e grosse calze di lana. Il 7 di novembre il generale annotò i primi gravi casi di congelamento. Poco dopo scriveva: “Il gelo sta creandoci una quantità di noie… Per far andare i motori dei carri armati bisogna accendervi sotto il fuoco. In vari casi il combustibile gela e il petrolio diviene vischioso. I reggimenti della 112° divisione di fanteria hanno perduto per congelamento circa 500 uomini ciascuno. A causa del freddo le mitragliatrici non sono più in grado di sparare e la nostra artiglieria si è dimostrata inefficace contro i carri armati T34… Il freddo glaciale, la mancanza di ricoveri, la deficienza di vestiario, le gravi perdite di uomini e di materiali, lo stato miserando del servizio rifornimento carburanti – tutto ciò rende difficilissimo esercitare il comando”.

Ma bisogna sottolineare che, benché l’inverno russo abbia avuto una grande importanza nell’ostacolare l’avanzata tedesca, il fattore decisivo della lotta fu la determinazione e la forza con cui i soldati e il popolo russo si opposero al nemico. Tanto più che le truppe russe, man mano che recuperavano i territori prima occupati dall’esercito tedesco, si rendevano conto delle devastazioni e delle atrocità contro i civili – anziani, donne, bambini – perpetrate dal nemico: il loro spirito combattivo veniva esaltato dallo sgomento e dallo sdegno. Atrocità peraltro esercitate anche contro i soldati sovietici presi prigionieri, i quali vennero deportati nei campi di sterminio e immediatamente avviati ai forni crematori: furono tre milioni i giovani russi così annientati.

Ai primi di dicembre arrivò una grande crisi: davanti a Mosca il generale Georgij Žukov passò all’attacco, col favore di un’accecante tormenta di neve, schierando cento divisioni di truppe siberiane fresche, ben nutrite, ben equipaggiate con abiti caldi e addestrate a combattere in quelle condizioni climatiche. La fanteria era accompagnata da artiglieria, cavalleria, aviazione e da poderosi carri armati, i T34, che le armi tedesche non riuscivano neppure a scalfire: risorse materiali e umane di cui Hitler mai aveva sospettato l’esistenza; infatti fu costretto ad ammettere: “Per quanto riguarda i russi, mi sono effettivamente sbagliato, e per la prima volta. Contavo disponessero di 4.000 carri armati, e ne avevano invece 12.000”.

“Fino al 6 dicembre – recitava un comunicato del governo sovietico alla fine di quell’anno – le nostre truppe hanno condotto aspri combattimenti difensivi… Dal 16 novembre al 6 dicembre, secondo dati ben lungi dall’essere completi, le nostre truppe – senza contare l’aviazione – hanno annientato o catturato 777 carri armati, 534 automobili, 178 cannoni, 119 mortai, 224 mitragliatrici, e l’avversario ha avuto 55.170 morti”. Durante l’offensiva dal 6 al 16 dicembre, secondo il comunicato governativo, “le nostre unità, passate all’offensiva, hanno occupato e liberato dal giogo tedesco più di 400 località. Dal 6 al 10 dicembre sono stati presi 386 carri armati, 4.317 autotrasporti, 704 motociclette, 305 cannoni,101 mortai, 515 mitragliatrici, 546 fucili mitragliatori. Nello stesso periodo di tempo le nostre truppe – senza contare l’aviazione – hanno distrutto 271 carri armati, 565 autotrasporti, 92 cannoni, 119 mortai, 131 mitragliatrici”. Dopo sei mesi di guerra che si voleva lampo, la Wehrmacht fu costretta ad arretrare; il bilancio si rivelò molto pesante, nessun obiettivo era stato raggiunto: né Mosca, né Leningrado, né Stalingrado e il Caucaso erano stati presi, ma, ancor peggio, era stato infranto un mito, quello della invincibilità dell’esercito tedesco.

Dopo una battuta d’arresto nell’inverno 1941-42, la guerra riprese con violenza. Sul fronte nord, Leningrado assediata continuava ad opporre una strenua resistenza: alla città era rimasta un’unica via di collegamento attraverso il lago Ladoga ghiacciato, la “via della vita,” che peraltro consentiva rifornimenti insufficienti, cosicché gli abitanti morivano a migliaia per la fame e il freddo glaciale, fino a 30 gradi sotto zero; nei 900 giorni dell’assedio della città, morirono di stenti 632.000 persone. I vivi non avevano neppure le forze di seppellire le salme, che restavano abbandonate a congelare per le strade e dentro le case. Ma 28 divisioni tedesche con 480.000 uomini restarono inchiodate ad assediare la città dall’8 settembre 1941 al 27 gennaio 1944 e non poterono accorrere al fronte meridionale, verso Stalingrado.

Sul fronte centrale, contro Mosca, Hitler stesso aveva rinunciato ad insistere e anzi ne aveva staccato alcune divisioni per concentrare gli sforzi sulla direttrice meridionale, verso le foci del Volga, allo scopo di raggiungere il petrolio del Caucaso di cui aveva assoluto bisogno. Le truppe del fronte sud furono divise in due gruppi: l’uno puntava sul Caucaso, l’altro si concentrò sulla città di Stalingrado. I generali tedeschi cercarono di far capire a Hitler che la mossa di dividere le forze non era corretta, ma il dittatore era inebriato dalle sue vittorie, ostentava il massimo disprezzo per i militari di professione, ed era inoltre ossessionato dal valore simbolico della città. Il 16 settembre 1942 partirono all’assalto due armate tedesche forti di oltre 320.000 uomini, con 1.260 carri, 17.000 cannoni, 1.640 aerei; vi erano, inoltre, la VIII armata italiana e la III armata rumena, tutte sotto il comando del generale Friedrich Paulus. Lo scontro si rivelò subito feroce: la città venne ridotta in macerie, si combatteva accanitamente via per via, casa per casa, perfino da un piano all’altro dello stesso edificio, la stazione ferroviaria passò di mano per tredici volte. Le truppe naziste occuparono la maggior parte della città.

Con la prima battaglia, che iniziò il 22 settembre, il successo sembrò arridere alle truppe tedesche. L’8 novembre Hitler annunciò che la città era stata conquistata, “tranne due o tre isolotti insignificanti”. Il 19 novembre, dopo i primi geli che induriscono il terreno e consentono rapidità di movimenti, ma prima delle grandi nevicate che invece li bloccano, l’Armata Rossa diede inizio a una gigantesca controffensiva a tenaglia, sia da sud che da nord; un attacco che durò ininterrottamente per venti giorni e venti notti, con una forza d’urto che riempì di sorpresa i comandi tedeschi. Si trattava di più di un milione di soldati, con 900 carri armati, 3.500 cannoni, 13.000 camion, 1.100 aerei; non mancava una banda militare di 90 musicisti. Le truppe sovietiche, comandate dal generale Žukov, penetrarono per oltre 30 chilometri nelle retrovie tedesche e accerchiarono 330.000 uomini delle truppe nazifasciste, comprese migliaia di soldati italiani. Un estremo tentativo di liberarli da parte delle truppe comandate dal generale Erich von Manstein fallì quando già si trovavano a pochissima distanza dagli assediati. L’accorato appello del generale Paulus, che chiedeva di ritirarsi per poter salvare i suoi uomini, venne respinto da Hitler, il quale ordinò di resistere fino all’ultimo uomo.

Per resistere erano necessari viveri, abbigliamento adatto a temperature glaciali, armi, munizioni, carburante, medicinali, foraggio per gli animali, per un totale di circa 750 tonnellate di materiale al giorno. Göring, che dirigeva la forza aerea, assicurò di poterne garantire 350 tonnellate, che già sarebbero state scarse, ma di fatto riuscì a trasportare solo 94 tonnellate: le razioni giornaliere si ridussero a 75 grammi di pane, 200 grammi di carne di cavallo compresi gli ossi, 12 grammi di grassi, 11 di zucchero, mentre il termometro precipitava a 30 gradi sotto zero, e in gennaio toccava i 40. Solo nel giorno di Natale del 1942 morirono per congelamento 1.500 soldati tedeschi. La disciplina si allentava, si moltiplicavano i casi di diserzione e insubordinazione, nel periodo dicembre-gennaio furono eseguite 364 condanne a morte; i soldati fucilati per insubordinazione o diserzione furono in tutto 15.000. Molti soldati si suicidarono, disperati: avevano capito che la guerra era definitivamente perduta.

La disperazione si rivela chiaramente nelle ultime lettere dei soldati tedeschi da Stalingrado; uno scrive: “Tu devi sapere la verità. Sta in questa lettera. La verità è sapere che questa è la battaglia più difficile in una situazione disperata. Miseria, fame, freddo, privazioni, dubbi, disperazione e spaventoso morire”. E un altro, ricordando la retorica bellica hitleriana: “La morte doveva sempre essere eroica, entusiasmante, trascinatrice, per un fine grande, e convincente. In realtà, qui cos’è? Un crepare, un morire di fame, di gelo, nient’altro che un fatto biologico, come il mangiare e il bere. Cadono come mosche e nessuno pensa a loro, nessuno li seppellisce. Giacciono dappertutto qui attorno, senza braccia, senza gambe, senz’occhi, coi ventri squarciati… È una morte bestiale”.

L’Armata Rossa continuava i suoi attacchi martellanti: per due volte nel mese di gennaio, l’8 e il 24, i sovietici contattarono il generale Paulus proponendo la resa; Hitler rifiutò sdegnosamente, ordinando di resistere fino all’ultimo uomo e all’ultima cartuccia e il generale non osò disobbedire. Alla fine di gennaio del 1943 venne meno anche l’estrema resistenza tedesca e il generale Paulus – appena nominato feldmaresciallo del Reich – invece di morire da eroe o di suicidarsi, preferì arrendersi, provocando l’ira di Hitler. Nella battaglia perirono 140.000 soldati tedeschi, 20.000 risultarono dispersi, 70.000 feriti, 91.000 vennero presi prigionieri e trasferiti in Siberia, e di essi solo 5.000 riuscirono a tornare in patria dieci anni dopo la fine della guerra, nel 1955. In Germania furono proclamati quattro giorni di lutto ufficiale per la VI armata annientata: per la prima volta, l’efficiente macchina propagandistica di Goebbels, che da dieci anni teneva soggiogato il popolo tedesco, dovette ammettere una sconfitta. Da parte sovietica, il prezzo pagato dal popolo russo in quella battaglia fu di 478.000 morti e 650.000 feriti.

Quanto alla VIII Armata italiana, i soldati si ritirarono in rotta con una penosissima marcia di 350 chilometri a temperature di 20-30 gradi sotto zero, e con perdite enormi: dei 230.000 uomini inviati a invadere l’Unione Sovietica per combattere il comunismo, ne tornarono in patria 10.032, la cifra esatta consegnata alla storia. I loro racconti aumentarono il senso di sfiducia del popolo italiano nei confronti del regime fascista, con pesanti conseguenti nei mesi successivi.

Ma l‘idra nazista non era ancora definitivamente decapitata: un ultimo tentativo da parte di Hitler di rovesciare le sorti della guerra in Unione Sovietica si svolse a Kursk, nel luglio del 1943, dove su un fronte di circa 180 chilometri si scontrarono 2.500 carri armati sovietici e 2.800 tedeschi. Anche qui i tedeschi vennero debellati, chiudendo con una pesante sconfitta la crociata nazista contro l’Unione Sovietica.

Subito dopo la battaglia, nello stesso mese di luglio a Krasnodar nel Caucaso, l’Unione Sovietica aprì il primo processo per crimini di guerra contro 11 militari tedeschi accusati di omicidio in massa di civili sovietici; otto di loro furono condannati a morte e fucilati. Al processo assistevano alcuni giornalisti alleati, cosicché l’opinione pubblica occidentale poté venire a conoscenza delle atrocità dei nazisti e in particolare dei furgoni della morte, in cui le vittime – ebrei e civili russi – venivano rinchiuse e gassate. Quel processo fu l’anticipo di quello che sarebbe stato nel 1946 il processo di Norimberga contro i maggiori rappresentanti del nazismo.

La vittoria di Stalingrado ebbe una risonanza a livello continentale. I movimenti di resistenza che già operavano in diversi paesi occupati – come in Polonia, in Cecoslovacchia, in Norvegia – ne ricevettero un forte incoraggiamento. In Italia, non a caso nel marzo del 1943 scoppiò una prima ondata di scioperi che videro la partecipazione massiccia degli operai del nord, i quali cominciavano a intravvedere un orizzonte meno cupo. In luglio, proprio nei giorni della battaglia di Kursk, gli alleati sbarcarono in Sicilia iniziando la risalita dello stivale, rallentata dalla accanita resistenza di diciotto divisioni tedesche che avevano occupato il Paese e che qui restarono impegnate, senza potersi trasferire sul fronte orientale. Il 25 di luglio il regime fascista cadde; in settembre il governo di Badoglio si trovò costretto a firmare l’armistizio e anche in Italia iniziò la resistenza.

Ma la conseguenza forse più importante della battaglia di Stalingrado si ebbe nell’agosto del 1943: poche settimane dopo che l’ultimo tentativo di Hitler di rovesciare le sorti della guerra era fallito a Kursk, Churchill e Roosevelt si incontrarono in Canada, nella Conferenza del Quebec. Più volte Stalin aveva insistito perché gli Alleati aprissero un fronte occidentale in modo da alleggerire la tremenda pressione che le truppe tedesche esercitavano contro l’Unione Sovietica. Dopo le decisive vittorie sovietiche di Stalingrado e di Kursk, fra gli alleati anglo-americani sorse la viva preoccupazione che la prevedibile avanzata sovietica portasse i comunisti non solo a Berlino, ma fino a Parigi; decisero perciò finalmente di aprire il fronte occidentale sbarcando in Francia. Gli accordi definitivi vennero presi alla Conferenza di Teheran fra Churchill, Roosevelt e Stalin, alla fine di novembre. Per lo sbarco in Francia gli anglo-americani istituirono lo SHAEF (Supreme Headquarters, Allied Expeditionary Force) che iniziò le sue funzioni il 1 gennaio 1944 sotto il comando del generale statunitense Dwight D. Eisenhower. Sarà, il 6 giugno 1944, il D-Day, lo sbarco alleato in Normandia.

Dalla sconfitta di Kursk in poi l’esercito tedesco agì solo in difensiva; l’iniziativa bellica passò nelle mani degli Alleati: dal 1942 avevano iniziato a colpire la Germania con bombardamenti sempre più pesanti che divennero quasi quotidiani, per distruggerne le risorse militari, industriali ed economiche, e insistevano sulle città maggiori per minare il morale del popolo tedesco: nel marzo 1943, 395 bombardieri lanciarono su Berlino 1.050 tonnellate di bombe in 50 minuti, il doppio di bombe fatte cadere dai tedeschi sulla città di Londra nel corso della loro peggiore incursione, il 18 aprile 1941. Due mesi dopo, il 24 maggio, i bombardieri inglesi attaccarono la zona industriale di Dortmund, e Goebbels scriveva: “A proposito di guerra aerea, siamo in posizione di quasi disperata inferiorità e quando subiamo i colpi degli inglesi e degli americani non possiamo far altro che sopportarli. I tedeschi cominciano a scoraggiarsi. È davvero disperatamente duro vivere in queste condizioni per lungo tempo”.

Da parte sovietica, l’Armata Rossa il 22 giugno 1944 – terzo anniversario dell’aggressione nazista – iniziò una titanica operazione bellica destinata a portarla la primavera successiva fino a Berlino: venne denominata “Bagration” dal nome di un generale russo che aveva combattuto contro Napoleone, e schierava 1.700.000 soldati appoggiati da 2.715 carri armati, 1.335 pezzi di artiglieria semovente, 24.000 cannoni e 2.306 lanciarazzi, 6.000 aerei e 70.000 automezzi, oltre a un centinaio di treni al giorno per i rifornimenti. Le truppe dell’Armata Rossa erano inoltre appoggiate da poderose unità partigiane, che ebbero un ruolo particolarmente importante in Bielorussia, quando nel quadro di un’amplissima offensiva contro il gruppo di Armate Centro tedesche si schierarono 140.000 partigiani. Questi, operando fra boschi e paludi, assaltarono depositi di prezioso carburante e strutture logistiche, sabotarono strade e ferrovie interrompendo le comunicazioni fra le formazioni tedesche, ed ebbero un ruolo rilevante nella vittoria sovietica. Fu un disastro gravissimo per la Wehrmacht, peggiore di quello di Stalingrado, dato che in meno di un mese perse fra 350.000 e 400.000 uomini, 6 Corpi d’Armata, 25 divisioni e 22 generali: la strada verso la Germania era aperta.

L’operazione sovietica, in combinazione con quella alleata denominata “Overlord” delle truppe anglo-americane sbarcate in Normandia il 6 giugno 1944, strinse la Germania in una tenaglia che si rivelò decisiva, ma a costo di tante altre migliaia di vittime e di tante distruzioni. Di fatto, l’Unione Sovietica fu il belligerante che pagò più pesantemente il costo della guerra: 30.000 fabbriche e 70.000 città e villaggi distrutti, 20 milioni di cittadini senza più casa, 27 milioni di vittime di cui solo 8 milioni i militari; ancora negli anni Sessanta nella popolazione sovietica c’era un rapporto di sette donne per quattro uomini. Un prezzo che, dagli anni della guerra fredda in poi, il “mondo occidentale” ha sempre voluto ignorare. Ma nelle circostanze storico-sociali in cui viviamo oggi risulta più che mai necessario ricordare con voce alta e forte che il nazifascismo è stato sconfitto dall’Unione Sovietica. A Stalingrado.

*Saggista, storica della Resistenza, traduttrice, in Italia, delle opere di Samir Amin e, tra gli altri, del filosofo ungherese István Mészáros; redattrice di “Cumpanis”

P.S.





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