Stati Uniti: la spesa per interessi fa esplodere il debito
di Giacomo Gabellini
Lo scorso 30 ottobre, il Dipartimento del Tesoro ha reso noti gli importi netti dei titoli del Tesoro che intende piazzare nel quarto trimestre del 2023 e nel primo trimestre del 2024. Nello specifico, il governo di Washington pianifica di contrarre debiti sul mercato per un ammontare di 776 miliardi di dollari per il quarto trimestre di quest’anno e di 816 miliardi di dollari nel primo trimestre del 2024, dopo averne accumulati per 1.010 miliardi nell’arco del terzo trimestre.
Gli Stati Uniti intendono quindi imprimere un’ulteriore accelerata al processo di espansione delle emissioni di titoli di debito che si protrae ormai da decenni, con volumi complessivi di Treasury Bond immessi sul mercato che nell’ottobre del 2022 risultavano doppi rispetto al 2015 e quadrupli in riferimento al 2007.
Attualmente, l’ammontare complessivo dei titoli del Tesoro in circolazione equivale a 33,68 trilioni di dollari. Di tale importo, un 7,12 trilioni di dollari sono detenuti da enti pubblici, come i fondi pensione governativi, il Fondo fiduciario di previdenza sociale, ecc., e ben 26,56 trilioni dal “pubblico”. Vale a dire da acquirenti stranieri, la Federal Reserve, le banche, le società assicurative, i fondi d’investimento, le aziende ricche di liquidità come quelle operanti nel settore dell’alta tecnologia e i privati cittadini. È questa variegata platea che secondo le previsioni formulate dal Dipartimento del Tesoro dovrebbe assorbire la massa addizionale di titoli di Stato, per un controvalore di 1,59 trilioni di dollari, entro la fine del primo trimestre del 2024.
Il problema è che, a dispetto dei ragguardevolissimi rendimenti garantiti dagli alti tassi di interesse applicati dalla Federal Reserve, la propensione all’investimento nei Treasury Bond di questi soggetti sta aumentando in misura minima e tutt’altro che commisurata all’incremento astronomico delle emissioni ad opera del Dipartimento del Tesoro. La tendenza risulta particolarmente consolidata nel segmento delle Banche Centrali straniere, come confermato dai dati. Tra il marzo 2022 (quando è stato avviato il processo di rialzo graduale dei tassi di interesse) e l’agosto 2023 (ultimo dato disponibile), il saldo delle detenzioni di Treasury Bond Foreign Official, composte principalmente dalle riserve delle Banche centrali straniere, è risultato negativo per 285,8 miliardi di dollari (da 4.025,3 a 3.739,5 miliardi), nonostante il crescente margine di remunerazione garantito dai titoli di Stato Usa per effetto della stretta creditizia varata dalla Fed. Il fenomeno ha un carattere strutturale, come si evince dal crollo verticale del tasso di partecipazione del settore Foreign Official all’acquisto di Treasury Bond, passato dal 74 al 48,5% tra la fine del 2008 e l’agosto del 2023.
Si tratta di un dato particolarmente significativo, per un verso perché attesta una sempre più marcata propensione di molti Paesi creditori degli Usa a impiegare i dollari in proprio possesso per scopi disallineati o addirittura confliggenti rispetto agli interessi statunitensi. «Gli Stati Uniti – ha dichiarato urbi et orbi Janet Yellen – devono aspettarsi una graduale riduzione della quota di riserve globali coperta dal dollaro». Che un simile mutamento di approccio potesse concretamente verificarsi era stato evidenziato già nel 2007 dal Comptroller General David Walker all’interno di un rapporto trasmesso alla Casa Bianca. Nel documento si richiamava l’attenzione sul fatto che «gli interessi stranieri esercitano un controllo sull’economia statunitense maggiore a quello degli stessi americani, cosa che lascia il Paese in una situazione finanziaria imprudente. Una quantità crescente del nostro debito è detenuta da Stati esteri, non tutti alleati. Le enormi quantità di Buoni del Tesoro possedute da Cina e Arabia Saudita costituiscono un’arma finanziaria nelle mani di Paesi che potrebbero assumere un atteggiamento ostile nei confronti delle imprese Usa e degli interessi diplomatici statunitensi».
D’altra parte, il crescente interesse manifestato nei confronti dei titoli di Stato statunitensi da parte del settore Foreign Non Official, che riunisce gli investitori privati esteri (i quali hanno generalmente un orizzonte di investimento più breve rispetto agli investitori ufficiali), non è assolutamente in grado di compensare al “ritiro” delle Banche Centrali straniere combinato all’incremento forsennato delle emissioni da parte del Dipartimento del Tesoro e alla stretta monetaria varata dalla Federal Reserve, che attraverso il Quantitative Tightening ha ridotto progressivamente le proprie detenzioni riversando sul mercato Treasury Bond per un controvalore di quasi 900 miliardi di dollari in appena 18 mesi. Lo dimostrano episodi allarmanti come quello verificatosi mercoledì 9 novembre, quando un’asta di Treasury Bond a 30 anni da cui il Dipartimento del Tesoro ambiva a ricavare 24 miliardi di dollari è stata disertata da buona parte degli acquirenti “tradizionali”, costringendo i primary dealer, che acquistano la parte di offerta non comprata dagli investitori, a sobbarcarsi una quota di emissioni invendute pari al 24,7% del totale, equivalente a più del doppio della media del 12% registrata nel corso del 2022. L’esito infausto dell’asta ha indotto le autorità statunitensi a incrementare gli sforzi per richiamare potenziali acquirenti al tavolo delle trattative, con conseguente, drastico incremento del margine di remunerazione dei Treasury Bond a 30 anni, che assicurano comunque a tutt’oggi una redditività minore rispetto a quelli a breve termine.
L’inversione della curva dei rendimenti a cui si assiste ormai da molti mesi, con i Treasury Bond a breve termine, compresi nella fascia che va dai tre mesi ai tre anni, che offrono margini di remunerazione significativamente più elevati rispetto a quelli che caratterizzano i titoli di Stato a lungo termine, che vanno dai dieci ai trent’anni, risulta piuttosto significativa. Anzitutto perché il rischio aumenta in misura direttamente proporzionale alla durata, quantomeno in periodi caratterizzati da una percezione diffusa di stabilità e aspettative positive per il futuro. In fasi particolarmente turbolente, viceversa, l’incertezza spinge gli investitori a privilegiare i titoli a più lungo termine (facendone quindi aumentare il prezzo e diminuire la redditività) a scapito di quelli a breve termine (facendone simmetricamente diminuire il prezzo ed aumentare la redditività). L’esplosione dei tassi di interessi si traduce inesorabilmente in un incremento proporzionale degli oneri sul bilancio federale.
Già alla fine del terzo trimestre del 2023, si registrava un incremento della massa debitoria pari a un trilione nell’arco di poco più di tre mesi, e ad oltre 100 miliardi di dollari in appena cinque giorni. La situazione è tuttavia precipitata all’inizio della prima settimana di ottobre, quando si è assistito a un incremento del debito per un controvalore di 275 miliardi di dollari in appena un giorno.
L’impatto complessivo è stato quantificato dal Dipartimento del Tesoro, secondo cui i costi degli interessi netti hanno raggiunto i 659 miliardi di dollari (2,5% del Pil) nell’anno fiscale 2023, con un aumento di 184 miliardi di dollari rispetto all’anno precedente e di 314 rispetto al 2020 (1,6% del Pil). Il servizio degli interessi sul debito rappresenta attualmente la quarta voce di spesa del governo federale, dietro a previdenza sociale, Medicare e difesa, e davanti a Medicaid, servizi per la nutrizione, servizi per disabili, educazione primaria, trasporti, ecc.
Di conseguenza, il suo contributo risulta assolutamente determinante ad alimentare il deficit federale, che nell’anno fiscale 2023 ha raggiunto quota 1.695 miliardi di dollari, con un aumento del 23% rispetto al 2022. Il Dipartimento del Tesoro ha riconosciuto che si tratta del disavanzo più imponente da quello, pari a 2,78 trilioni di dollari, registrato nel 2021, in piena crisi pandemica da Covid-19.
Per sostenere i loro colossali deficit, «gli Stati Uniti – ha dichiarato Ken Griffin, fondatore e amministratore delegato della società di investimenti Citadel – stanno spendendo come un marinaio ubriaco». Un giudizio lapidario, ma sostanzialmente condiviso da Moody’s che all’indomani della deludente asta del 9 novembre ha rivisto l’outlook del debito statunitense, declassandolo da “stabile” a “negativo”. Nella nota diramata dall’agenzia di rating si legge che: «in un contesto caratterizzato da tassi di interesse elevati, assenza di misure di politica fiscale efficaci in un’ottica di riduzione della spesa pubblica o di incremento delle entrate, Moody’s prevede che i deficit fiscali degli Stati Uniti rimarranno molto ampi, indebolendo significativamente la sostenibilità del debito […]. La persistente polarizzazione politica all’interno del Congresso incrementa il rischio che i futuri governi non siano in grado di costruire consenso in merito a un programma fiscale mirato a rallentare il declino della capacità di sostentamento del debito».
La presa di posizione di Moody’s si situa nel solco tracciato da Fitch, che a cavallo tra luglio e agosto di quest’anno aveva declassato il debito a lungo termine degli Stati Uniti da AAA ad AA+ in ragione, si legge nella nota diramata dall’agenzia di rating, del «previsto deterioramento fiscale nei prossimi tre anni, dell’elevato e crescente onere del debito pubblico e dell’erosione della governance rispetto agli Stati che hanno pari rating AA e AAA negli ultimi due decenni, che si è manifestata in ripetute situazioni di stallo sul limite al debito e risoluzioni dell’ultimo minuto».
Secondo «Milano Finanza», «il motivo per cui il debito degli Stati Uniti non è stato declassato prima e più spesso è che il dollaro rimane la valuta di riserva del mondo. Ma questo “privilegio esorbitante”, come amano definirlo i francesi, non è un diritto di nascita. Può svanire in un attimo se i mercati percepiscono un più ampio declino americano nella governance o nella capacità di far fronte ai propri obblighi finanziari».