Su Craxi

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Su Craxi



di Gianpasquale Santomassimo


Mi pare di capire che il film di Amelio, per le sue caratteristiche, non è in grado di suscitare una riflessione di carattere storico su personalità e ruolo di Bettino Craxi.

Vedo ribaditi in rete giudizi consolidati, che appartengono al tempo della battaglia politica dell’epoca che sancì la sua eliminazione dalla vita politica.

La riduzione della sua vicenda a pura cronaca criminale di corruzione e malversazione, da un lato, e dall’altro la difesa acritica del suo operato, in nome di un malinteso “orgoglio socialista” che non sa interrogarsi a fondo sulla distruzione di una grande tradizione politica e ideale, che non avvenne esclusivamente ad opera di agenti esterni.

Eppure il tempo trascorso dovrebbe favorire almeno lo sforzo di un giudizio equanime su una figura che ebbe un enorme rilievo nella vita politica italiana.

Premetto che detestavo Craxi, per molte ragioni, politiche, culturali, addirittura antropologiche (non tanto lui, su questo piano, quanto il mondo che attorno a lui si era creato). Però sono passati vent’anni dalla sua morte, e chi si occupa di storia deve cercare di distaccarsi, pur ricordandoli, dai giudizi del tempo.

E inoltre - fatto non secondario - perché abbiamo visto all’opera i suoi nemici, che conquistarono il potere anche attraverso le forme della sua eliminazione.

Più che altro vorrei suggerire, ripromettendomi di tornarci sopra in maniera più distesa, alcuni filoni di discussione e di ragionamento.

La natura del fronte che mosse contro di lui:

- a) il partito di Repubblica e l’intendenza postcomunista che ne seguì le direttive (per la prima volta nella storia repubblicana il Circolo del bridge post-azionista realizzava il sogno di farsi effettivamente mosca cocchiera di grandi masse di manovra);

- b) i teorici del maggioritario che aprirono la lunga fase in cui si pensò che mettere al centro l’ingegneria istituzionale avrebbe sostituito con profitto una proposta politica e sociale deficitaria o inesistente. Qui Craxi era un ostacolo effettivo: dopo il vaniloquio di una “Grande Riforma” aveva compreso fin troppo bene che il suo potere derivava esclusivamente dal ruolo che il sistema proporzionale attribuiva al suo partito, che non superò mai la soglia di un tredici per cento, nonostante il vanto di “ondate” giocate su pochi decimali. Ma era sufficiente a fare del Psi il partito più governativo del mondo, al governo e al sottogoverno con comunisti o democristiani a seconda delle circostanze.

- c) la vera natura di “Mani pulite”, di cui oggi comprendiamo bene non solo le forzature ma anche il contributo alla creazione di un clima che ha contribuito a mutare in profondità le caratteristiche di ciò che abbiamo inteso per “sinistra” nell’arco della Seconda Repubblica.

- d) il fronte ampio dell’antipolitica e dell’antiparlamentarismo, mai così esteso e limaccioso nella nostra storia. Dobbiamo anche e soprattutto a quel clima se in Italia non abbiamo avuto Syriza, Podemos o gilet gialli, ma un’esperienza come quella promossa da Grillo e Casaleggio, divenuta nell’arco di questa legislatura forza di ampia maggioranza relativa, con percentuali un tempo raggiunte solo dal Pci.

- e) l’ostilità di un fronte internazionale molto potente, che non solo vendicava sgarbi brucianti come Sigonella o l’appoggio ad Arafat, ma richiedeva ormai adesione piena e non più condizionata (come quella che Craxi era in grado di offrire) a un progetto di riconversione globale dell’assetto europeo in termini di eradicamento di qualsiasi opzione socialdemocratica o “statalista”. Lo zelo cieco dei comunisti convertiti era più affidabile, anche perché disponeva ancora di forme di controllo delle masse popolari che i socialisti si erano ormai precluse.


Hammamet non è Caprera

Sbarazziamoci subito di un facile luogo retorico, non si trattò di esilio (forse in parte autoinflitto) ma di una volontaria latitanza. La rinuncia a difendersi aggravò sicuramente la sua posizione giudiziaria, e accentuò la dimensione di capro espiatorio in gran parte necessario e utile per l’Italia di quella transizione.

Rapporto con Berlusconi

C’è stata la tendenza diffusa a vedere una linea di continuità assoluta tra Craxi e Berlusconi: Craxi precursore di Berlusconi, quasi il Giovanni Battista che annuncia l’avvento del Messia.

Abbiamo visto negli anni Novanta molti giornalisti e politici dichiarare in televisione la loro legittima collocazione a destra, e poi aggiungere, come per dimostrare un percorso di coerenza: «del resto io ero craxiano».
Mostrerei cautela e avanzerei qualche dubbio su questa continuità.

Va ricordato che la stessa eredità politica di Craxi non è univoca, e perfino l’eredità familiare è controversa, con i due figli collocati in schieramenti opposti e sottosegretari in governi diversi. Ma i motivi di cautela derivano da molti fattori.

In primo luogo Craxi era un politico di professione (e anzi rappresentava forse il massimo storico di autonomia e separatezza della politica), non avrebbe potuto indulgere nell’antipolitica né concedersi turpi battute come quelle di Berlusconi sui politici che dovrebbero finalmente andare a lavorare.

Craxi era il segretario di un partito socialista, molto orgoglioso della sua storia, sia pure una storia riscritta, attribuendo assoluta centralità all’anticomunismo: in questo modo si falsava una storia che si era nutrita di dissensi e contrapposizioni aspre ma anche di momenti di unità e collaborazione.

Craxi aveva una visione della politica internazionale originale e autonoma, basata sulla tradizionale fedeltà atlantica ma anche su una particolare sensibilità per la vicenda palestinese: il braccio di ferro con gli americani dell’ottobre 1985 nella base di Sigonella in seguito alla vicenda dell’Achille Lauro rappresentò il punto più aspro di tensione nei rapporti con gli Usa nella vicenda repubblicana.

Craxi, infine, non era un leader populista, anzi esprimeva uno scarso appeal popolare (e probabilmente era istintivamente e cordialmente detestato dalla grande maggioranza degli italiani), la sua oratoria non era trascinante, fatta com’era di lunghe pause e di una terminologia tutta interna alla tradizione partitica.

E nelle memorie di quanti gli furono vicini ad Hammamet si ricorda che accolse con ilarità la notizia della “discesa in campo” di Berlusconi. Le televisioni di quest’ultimo peraltro erano allora le più accese sostenitrici di “Mani pulite” e avevano contribuito in maniera determinante a fare di Antonio Di Pietro un eroe popolare.

Distinguere tra Craxi e il craxismo

Il craxismo è un fenomeno che nel tempo si autonomizza e vive di vita propria. Bisogna notare alcune cose: che la battaglia culturale degli intellettuali craxiani si radicalizza e procede nel tempo in autonomia rispetto alla stessa linea del Partito socialista. Le riviste socialiste diventano la scuola quadri della futura cultura di Forza Italia, ma Craxi non vi partecipa in prima persona, i suoi discorsi sulla Resistenza non si discostano dall’ufficialità (per non parlare della passione che in parallelo il presidente Pertini esprime nel richiamarsi ai valori dell’antifascismo), la stessa fumosa velleità riformatrice dei socialisti si attenua dinanzi all’evidenza di un partito che deve tutto alla propria collocazione di ago della bilancia nel sistema proporzionale. I socialisti, o ciò che ne resta dopo il quindicennio craxiano, saranno nel vecchio quadro politico i più diffidenti verso la stagione referendaria che stava aprendosi.

Craxi e la “modernità”

Modernità è termine ambiguo che può significare molte cose (o può non significare nulla), e l’ideologia della “modernizzazione” fu il porto delle nebbie cui approdò un’intera generazione di marxisti pentiti. Ma non c’è dubbio che Craxi seppe cogliere prima di ogni altro in Italia il mutamento profondo che stava intervenendo in tutto l’Occidente. In forma originale, senza seguire fino in fondo le asprezze della Thatcher e di Reagan (l’accusa di “liberismo” che da alcuni gli viene rivolta è francamente ridicola, se indirizzata a un partito che aveva un rapporto strettissimo con l’industria di Stato).

Se ci sbarazziamo – pur senza ignorarle - delle immagini più pittoresche fiorite attorno alla nuova parabola socialista (e spesso provenienti dall’interno, come i “nani e ballerine” dovuta a Formica) non possiamo non cogliere nella fortuna del craxismo il riflesso di un sommovimento interno alla società italiana, che del resto veniva da lontano e aveva conosciuto una lunga incubazione nel corso degli stessi anni Settanta, che furono non solo anni di piombo e di rivolte sociali ma anche anni di emersione di soggettività nuove. Nuove e controverse, fondate su un individualismo sempre più consapevole e divenuto nel tempo irreversibile, che era refrattario a prediche su austerità e contenimento dei consumi.

Questo fenomeno non era solo “rampantismo”, a meno di non immaginare un rampantismo di massa. Era un fenomeno che avrebbe dovuto essere consapevolmente governato da chi se ne faceva interprete e mallevadore, ma qui si apriva una delle pagine più oscure e determinanti di quella parabola. La mano libera lasciata all’arricchimento, talvolta famelico, dei nuovi quadri socialisti, distruggeva lentamente una immagine consolidata nel tempo, del partito di “galantuomini”. Qui non c’era solo malevolenza degli avversari nella denuncia: fu Gaetano Arfé a utilizzare per primo l’immagine della “mutazione genetica” che era in corso, e fu Riccardo Lombardi, nel suo ultimo intervento in un consesso di partito, a pronunciare l’amarissima battuta sui socialisti che erano in galera in misura maggiore di quanti ve ne fossero stati durante il regime fascista.

Le occasioni mancate

Avrebbe dovuto essere, nella propaganda dei suoi seguaci, “il Mitterrand italiano”, il leader capace di riunificare la sinistra e portarla alla vittoria, ma non ci provò neppure, e l’obiettivo dei “riequilibrio” di forze tra socialisti e comunisti si tradusse in una nuova stagione della “conventio ad escludendum” del partito comunista che era sembrata superata dai risultati elettorali del 1976.

Qui si apre un grande paradosso: proprio in un’epoca nella quale le lacerazioni originarie del rapporto fra socialisti e comunisti sembravano assottigliarsi e avviarsi a composizione si apriva in Italia una lotta senza quartiere tra i due soggetti. Con responsabilità da entrambe le parti e assoluta incomprensione delle ragioni altrui.

La scelta, compiuta da Berlinguer in maniera un po’ nervosa e solitaria, della linea di «alternativa » alla Dc, che seppelliva definitivamente il compromesso storico, per essere credibile avrebbe dovuto fondarsi su un rapporto quantomeno di ascolto reciproco con il Partito socialista, senza il quale l’alternativa non era pensabile. Saranno invece gli anni in cui si toccava il punto più basso e conflittuale nel rapporto tra i due partiti. Le proposte concrete avanzate dai comunisti in questi anni si risolvono in slogan come il «governo degli onesti» o il «governo del presidente». Queste formule sono null’altro che traduzioni di editoriali di Eugenio Scalfari e della «Repubblica», che prefigurano il profilarsi di un’altra anomalia italiana degli anni successivi, cioè quella di un gruppo dirigente sostanzialmente eterodiretto (o profondamente influenzato) dagli opinionisti della grande stampa, senza l’autonomia concettuale che era propria di tutti i grandi partiti della sinistra europea.

Da parte socialista, neppure l’occasione offerta dalla crisi finale del comunismo sovietico venne colta per tentare un dialogo che non fosse volontà di annessione.

Entrambi i contendenti usciranno sfigurati e svuotati al termine della contesa, lasciando un vuoto di rappresentanza del mondo del lavoro che non verrà più colmato.

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