"The Palace": il disgusto per il liberismo secondo Polanski

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"The Palace": il disgusto per il liberismo secondo Polanski


di Leonardo Persia*

I film di Polanski rivelano il lato nascosto dell’esistenza, l’elemento perturbante della civiltà. In uno dei suoi film più recenti, Quello che non so di lei (2017), entra nella vita di una scrittrice un suo doppio, una ghost writer, fantasma in tutti i sensi, che la la spinge a scrivere il vero che l’altra nasconde. A volte è proprio il genere a manifestarsi, investendo totalmente e simbolicamente la stessa narrazione. L’horror, il noir, per esempio in Rosemary’s Baby (1968) o Chinatown (1974), diventano la stessa chiave di lettura di vicende di cui viene messa in discussione la superficie del racconto, sconquassato al pari dell’ordine sociale. Oltre a palesare l’oscuro della cosiddetta normalità (i demoni della maternità), il ’68 di Rosemary Baby scorge, già al suo nascere, il trionfo dei vecchi, i veri diavoli, e il sostanziale conformismo dei giovani. Ogni investigazione del detective di Chinatown approda alla doppiezza e alla corruzione del mondo, al Male. Di esso è colma la Storia, uno scandalo sanguinario che affiora completamente nel nazismo de Il pianista (2002), nel razzismo de L’ufficiale e la spia (2019) o nelle dittature latino-americane de La morte e la fanciulla (1994). Dietro la spietatezza della rivoluzione industriale di Oliver Twist (2005) si adombra il diktat globo-liberista esploso all’epoca della realizzazione. Persino da una commedia avventurosa in costume come Pirati (1986) un gesto, una battuta, un colpo di scena mettono a nudo la violenza dell’imperialismo, la mattanza dei conquistadores spagnoli, aprendo raffronti inevitabili con il presente che di quella crudeltà si è fatto erede. Qualsiasi violenza collettiva, sociale fa pendant con quella privata. Con la precarietà dei rapporti sociali (Carnage, 2011) o dei vincoli amorosi e sessuali (Luna di fiele, 1992; Venere in pelliccia, 2013), sempre rivelatori di ombre e caos.

 

The Palace è un film sull’odierna ricchezza dei pochi, sulla grande bruttezza del mondo liberista. Mette in scena la competitività scorretta, il lezzo mostruoso dell’artificiale, della chirurgia plastica, di un mondo di plastica. L’autore lo concentra in un luogo simbolico (un hotel denominato Palazzo), all’interno di una data simbolica (il Capodanno a cavallo tra il 1999 e il 2000) e attraverso una variegata umanità internazionale (americani e latino-americani, russi, francesi, italiani; bianchi e neri; ebrei e musulmani). Stavolta la mostruosità e la volgarità appaiono evidenti, incontrovertibili: sono esibiti da subito. Il ritratto dei personaggi è caricaturale ed espressionista; essi appaiono deformi, grotteschi, orridi a vedersi. Una coppia disarmonica, vecchissimo miliardario e giovanissima obesa (John Gleese e Bronwyn James), si sfrutta a vicenda (sesso, soldi); una capricciosa marchesa (Fanny Ardant) nutre un cagnolino col caviale e la bestiola evacua merda pestifera; una gang di mafiosi venuti dal freddo contrabbanda valigie di soldi ed escort compiacenti; un finanziere arrogante col parrucchino (Mickey Rourke) coinvolge in una truffa informatica un bancario ex integerrimo (Milan Peschel). Nell’hotel sfilano pure un chirurgo plastico all’occorrenza veterinario (Joaquim de Almeida), le sue ributtanti clienti all’acido ialuronico (la più nota è Sidney Rome), un porno-attore iperdotato e in disarmo (Luca Barbareschi). Il contraltare è costituito da una servitù tramortita e assortita, alle dipendenze di un direttore paziente, risolutore e diplomatico (Oliver Masucci).

 

Polanski ha scritto il film con un altro maestro polacco del cinema, Jerzy Skolimowski, già co-sceneggiatore del suo lungometraggio d’esordio, Il coltello nell’acqua (1962), e con la compagna di quest’ultimo, Ewa Piaskowska. Mancano la tessitura armonica e il climax delle vecchie commedie stese con Gérard Brach, piene di strappi e sorprese all’interno di una narrazione ben più articolata. Stavolta sembra tutto già dato, e già visto, e il progredire delle multiple vicende sembra approdare verso il nulla. E se fosse proprio il nulla, un néant replicante il vuoto assoluto dei nostri tempi, a determinare il senso di tutto? Non pochi critici e spettatori si sono interrogati sul cattivo gusto del film, in simbiosi con il cattivo gusto dei personaggi. Si è parlato di cine-panettone d’autore, di condizionamenti co-produttivi italiani (Luca Barbareschi, RaiCinema). Va ricordato però che anche ai tempi d’oro, Polanski s’era sporcato le mani con i generi, operazione non proprio scontata nei ’60 e ’70. In particolare aveva fatto suo il furore erotico e anarchico della commediaccia all’italiana. Che? (1972), oltre a Mastroianni, utilizzava Carlo Delle Piane e Alvaro Vitali. Si può aggiungere che il modello Vanzina, perfetta epitome del modello berlusconiano, ha finito per improntare anche il cinema internazionale da festival, a sua volta rispecchiante la politica imprenditoriale del mondo. Se la parte finale di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Ostlund, palma d’oro a Cannes, riecheggiava Selvaggi (1995), adesso The Palace mima la famigerata saga di Vacanze di Natale, inaugurata nel 1983. Esibisce un’ampia scelta d’infantilismi, coprolalici e no: pipì, pupù, pisellone. Oppure giochini e giocattoli, animalucci e capitomboli. Polanski s’imprime delle stesse laidezze dei suoi personaggi, allo stesso modo in cui il botox dei personaggi si pone in continuità col botox degli stessi attori (Rourke, Rome). Oltre che sul nuovo Potere, il film è incentrato sul nuovo gusto. Etimologicamente, palatium deriva dal Palatino, il colle del potere dell’antica Roma, così denominato per la forma tonda di un palato. In francese, palais indica entrambe le cose: palazzo e palato. Difatti i ricchi di Polanski, come quelli di Ferreri, mangiano, cacano (e scopano) contemporaneamente. Divorano, ammorbano, si riproducono. Nel film, il bere e il mangiare vengono di continuo accostati a minzione e defecazione, al vomito e alle interiezioni volgari (“Shit!” e “Fuck”). Sia letteralmente che per allusioni spaziali e verbali. Al personaggio di Rourke, scontento della sua stanza, del suo cesso striminzito, vengono offerti champagne e cioccolatini. Il problema della cacca di cane irrompe nella cucina della servitù. La vecchia marchesa si accoppierà col giovane idraulico, tra la puzza di merda del cane, ben esposta nel bagno.

 

Ma la scrittura esplicita del film, che sembra esaurirsi nella propria apparenza, non rinuncia a scorci sottili sull’altrove. Ad allusioni, a parallelismi, al consueto doppio polanskiano. A un perenne fuoricampo. Skolimowski è un teorico della scrittura indiretta, dell’inespresso espresso, dei suggerimenti e delle assonanze disseminati. Per dirne una: se il chirurgo plastico, all’occorrenza, esamina le bestie, vuol dire che le sue farsesche clienti sono esse pure delle bêtes, cioè stupide oltre che animali. Una di esse si lamenta per le tette disarmoniche,  ricordandoci la prostata asimmetrica del miliardario di Cosmopolis, libro (2003) e film (2012). Le citazioni fluttuano vaghe, indirette, nascoste, sono forse criptomnesie. Nei corridoi dell’albergo si aggirano bambine gemelle, come in Shining (1980), che a loro volta rimandano, fuoricampo, a citate gemelle adulte, a una coppia di cani San Bernardo. L’opera risente della sua collocazione temporale, tra la fine del vecchio e l’apertura del nuovo, anno e millennio che si duplicano e confondono, stabilendo una continuità tra apertura e chiusura. I film di fine millennio avevano benissimo espresso l’intuizione di tale raddoppiamento, andando indietro nel tempo, in dissolvenza incrociata con presente e futuro. Si pensi alla circolarità di Titanic (1997) o a Eyes Wide Shut (1999). Godard con De l’origine du XXIème siècle (2000) procedeva a ritroso nei momenti cruciali del XX secolo, tra il cinema e la Storia: 1990, 1975, 1960, 1945, 1930. E, fondamentalmente, Polanski compie la stessa operazione. Menziona, senza menzionarli, i suoi vecchi film (Chinatown) e quelli degli altri (le odalische dell’amato Fellini), attraversa le epoche musicali (Strauss, Verdi, Lorella Cuccarini e Lou Bega), rifà il verso allo slapstick del muto (ruzzoloni continui, parrucche che saltano in aria). Forse omaggia persino il disincanto della più recente avanguardia no motion (l’acquario di Straub, le proiezioni stellari schraderiane di The Canyons, 2013). Soprattutto si serve di un modello letterario e cinematografico antiquato: il Menschen im Hotel (1929) della viennese ebraica Vicki Baum, da cui fu tratto il celebre melodramma Metro all-stars di Grand Hotel (1932). Il riferimento, ben più profondo della facciata di storie intrecciate, con unità di tempo e luogo, è facilmente verificabile attraverso l’affinità di vicende e personaggi. Nel prototipo spiccano ugualmente un contabile che si abbandona alla “dolce vita”, spronato da un barone ladro, un medico cinico e disincantato, truffe finanziarie, amori (o sesso) inaspettati, valigie di preziosi, cadaveri occultati. In una commedia musicale ebraica derivata dallo stesso modello, Wonder Bar (1934), il responsabile del locale (Al Jolson) ricorda molto, per praticità risolutiva e senso diplomatico, oltre che per inevitabile sottomissione, il direttore del Palace Hotel. Come questo, aiuta una cliente a occultare un compromettente cadavere. Si tratta di un probabile archetipo ebraico: Davide che ripara e assume su di sé la colpa oppure l’uomo illuminato della Cabala. Tra le mille, chiassose luci del film, hanno più peso, significativamente, le piccole e silenti fiammelle controcorrente. Quelle care a Georges Didi-Huberman. E certo al disincantato, ma ancora speranzoso Polanski. La sua apocalisse può aspettare. Il blackout della mezzanotte è un effetto speciale dell’albergo e la pistola del direttore un semplice accendino.

 

Insomma, The Palace è ben più sofisticato e intelligente di quanto possa apparire a primo sguardo. Dal Palazzo, dal potere del denaro e dei suoi traffici fa emergere il rimosso, quello che lo spettacolo e la propaganda diffusi censurano. A guastare la festa intervengono malattia (uno dei personaggi principali viene colto da infarto), follia (la moglie del chirurgo; la moglie dell’ambasciatore) e morte (dal tomber comico si passa al tombeau tragico). È genialmente unheimlich quel giovane Putin in tv che riavvia a sorpresa una Storia che si credeva finita  (Fukuyama era uno dei tormentoni mediatici di fine millennio). La mise en abyme di tale rimosso è costituita dalla famiglia del figlio illegittimo del finanziere, non riconosciuta dal padre e incollocabile in albergo. Nel film non ci si capacita dei corpi estranei, della morte. In ascensore, un cadavere viene fissato ma non riconosciuto come tale: lo si guarda solo perché ricorda, ed è, un volto famoso. Più tardi,  l’immobilità del defunto viene presa per snobismo da una vecchia amante che lo bacia. Tantomeno è riconosciuto lo stesso preludio alla morte, la vecchiaia. Le orride cariatidi rifatte si complimentano a vicenda per il supposto aspetto giovanile. Eppure l’instabilità e la bruta animalità di questi rappresentanti ridondanti del jet set si palesano in maniera beffarda quanto sgradevole. La marchesa ha probabilmente i vermi come il suo cane. La sua scopata interclassista con l’idraulico è doppiata da un amplesso interspecie tra cane e pinguino. È il finale surreale del film, memore degli sberleffi di tanta letteratura polacca insubordinata cara agli sceneggiatori (Witkiewicz e Gombrowicz in primis). Il Kubrick terminale di fine secolo, Eyes Wide Shut, concludeva pure l’apocalisse, la rivelazione con quel proverbiale invito alla copula, con un ambiguo “Fuck” circolare. Pure The Palace si riarrotola. Apre qualche minuto prima del mezzogiorno del 31 dicembre 1999, conclude qualche ora dopo la mezzanotte del 1 gennaio 2000. Le dodici ore della vicenda rimandano proprio al 12 come numero del cerchio perfetto, del ricominciamento senza fine, corrispondente a “La bussola gira, gira senza posa…” che chiude il romanzo di Vicki Baum o al celeberrimo “gente che va, gente che viene” del film Grand Hotel.

 

Il primo a entrare in albergo è un cliente in pelliccia ubriaco che ha sbagliato locale: un intruso, che subito dopo cade per terra; l’ultimo a uscire, ugualmente fuori di sé, altrettanto impellicciato, è un secondo intruso senza prenotazione. Si tratta dell’impacciato bancario manipolato dal finanziere col conto in rosso. Figura di schlemihl integerrimo e represso, il buffo uomo-marionetta è stato corrotto, contagiato, e messo nei guai da un demone dalla parrucca strawberry blonde in stile Trump o “polendina” alla Geppetto. Ma ne esce felice, si è divertito, ha finalmente vissuto. È diverso dagli altri. Barcolla, ma non cade. Ha offerto un rotolo di banconote al portiere, contraddicendo una battuta precedente del film: “I ricchi sono ricchi perché non danno mance”. Come Kringelein, a conclusione di Grand Hotel, l’uomo vive il presente, si abbandona alla vita, a dispetto di tutto. È probabile che incarni la debole licht von weiten, la luce da lontano di cui parlava Goethe allo scoccare della dodicesima ora. Oppure rappresenta proprio il chiarore dell’ohr ebraico, emanazione della luce divina. L’uomo si chiama Casper, cioè splendente, il nome di uno dei re Magi. Odora d’incenso. Ed è epifanico, rivelatore.

 

*Leonardo Persia, operatore culturale, direttore artistico di rassegne cinematografiche e piccoli festival indipendenti mai allineati e in controtendenza, ha sempre considerato il cinema una via privilegiata alla conoscenza, al viaggio, all'incontro, alla scoperta. Ama attirare l'attenzione sui film meno conosciuti e riconsiderare quelli poco compresi. Ha scritto recensioni e saggi per "Rapporto Confidenziale" e "Lo Specchio Scuro".

 

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