Trump e il nuovo linguaggio del potere

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Trump e il nuovo linguaggio del potere

 

di Marco Bonsanto

 

In poco meno di un mese dal suo secondo insediamento alla Casa Bianca, Donald Trump ha letteralmente terremotato il mondo con il suo linguaggio disruptivo. Coadiuvato in ciò dalle uscite del suo sodale, l’istrionico Elon Musk, Trump sta connotando il discorso istituzionale con modalità comunicative sconcertanti, che raramente si erano viste prima nel mondo occidentale. Non passa giorno che l’uno dalla Sala Ovale, l’altro da X (ex-Twitter), non lancino provocazioni, minacce, ingerenze, giudizi personali e commenti sconvenienti. L’effetto complessivo è quello dirompente e a tratti imbarazzante di chi metta le scarpe nel piatto ad una tavolata di costumati commensali.

Con le sue esternazioni a raffica su Messico, Arabia Saudita, Iran, Ucraina, Canada, Panama, Groenlandia, in un crescendo di enormità fino alla Palestina, Trump sta brutalizzando non soltanto le coscienze dei comuni cittadini, ma anche quelle di politici navigati. Tutto ciò produce immediate ripercussioni sul piano internazionale: sollecitando fortemente i margini della politesse diplomatica, il Tycoon sta infatti mandando in fibrillazione gli equilibri geopolitici di mezzo mondo.

Dapprima sbigottite, le cancellerie centroamericane tentano risposte improntate alla fierezza tipica del temperamento dei propri popoli, ma non ottengono molto. Dopo la dichiarazione d’intenti contro le politiche globaliste annunciata da Trump a Davos, in Europa e in Canada si pìgola in ordine sparso implorando “collaborazione”. La Russia sta invece alla finestra e si gode la confusione imbarazzata dei suoi nemici europei improvvisamente sbugiardati dal padrone. Netanyahu gòngola col ghigno insanguinato, credendo che tutto questo vada a suo vantaggio, almeno nel breve periodo. Le potenze mediorientali strapazzate senza troppi complimenti, tacciono. Quelle asiatiche, le uniche che hanno tempo davanti a sé, per il momento si limitano a fare spallucce, aspettando che la tigre di carta smetta di ruggire in playback e inizi a parlare sul serio.

Trump tuttavia non arretra, e rilancia: immigrazione, terre rare, riviere, petrolio, dazi a gogò! A qualcuno le dà, e ad altri le promette.

Taluni ambienti politici si rifiutano totalmente di comprendere il senso di questo modo di esprimere il potere, liquidandolo come quello di un pazzo. Ma la “pazzia”, si sa, è solo il modo nel quale una ragionevolezza dogmaticamente convinta della propria egemonia appella chiunque argomenti fuori del perimetro discorsivo che serve a legittimarla. Per costoro, il pazzo è quindi anche sempre un malvagio, perché coi suoi discorsi incrina quella maschera di bontà che fa aggio alla loro presunzione di comandare. Per liquidarlo, perciò, credono basti gonfiare il petto di indignazione. Ma ciò che ottengono è solo il sibilo di un venticello – le cose non si spostano.

Altri, meno autocompiaciuti ma altrettanto benpensanti, riconducono questo linguaggio brutale e a tratti irricevibile alle trame di una personalità autoritaria. Vale a dire alterata, sì, ma non proprio folle, piuttosto astuta, prepotente e manipolatoria, che cannoneggia il discorso pubblico per piegarlo a finalità ignote ma che si intuiscono personalistiche e contrarie allo Stato di diritto. Vi riconoscono cioè il linguaggio del “fascismo” (che per definizione è sempre quello degli altri). Pretendono perciò di fermarlo con un roboante appello lanciato dai loro fortini di privilegio (politici e culturali) ad una “resistenza”, che non hanno mai praticato se non sui libri. Con l’unico risultato di dare insperata visibilità ai fascistelli veri, quelli di borgata.

Altri ancora, riconducono le sparate di Trump alle uscite improvvisate, sconsiderate e maldestre di un parvenu della politica, un mero affarista improvvisamente catapultato (non si sa come né da chi) al vertice del potere. Lo dissero in Italia anche di Berlusconi, che proprio grazie a loro governò poi per vent’anni. Ma si sa che il dubbio sulla propria ottusità non sfiora mai i cosiddetti “competenti”, perché a furia di accreditarsi circolarmente tra di loro, di darsi premi e riconoscimenti, di dirsi reciprocamente quanto sono bravi e indispensabili, finiscono per crederci davvero, lusingati dall’ossequio delle masse istruite che apprezzano sempre l’imbecillità, purché in cattedra.

Altri ambienti, infine, più avvezzi al realismo politico e perciò meno scandalizzati, credono di riconoscere nel linguaggio di Trump né più né meno che il bullismo da cowboy tipico del pragmatismo americano, la ruvida mancanza di buone maniere di gente troppo impegnata a condurre mandrie nelle praterie e ad accoppare pellerossa. Sono coloro che facendo la faccia truce credono di potergli imporre un confronto restituendo pan per focaccia, perché “a brigante, brigante e mezzo”. Ma, come tutte le reazioni simmetriche non spontanee, essi finiscono soltanto per alimentare la forza del suo duro linguaggio imitandone maldestramente il ringhio, mentre quello li spiazza ogni giorno attaccando su un fronte diverso, con mezzi sempre nuovi.

Nessuno di loro si è preoccupato per tempo di capire da dove questa modalità di comunicazione traesse la sua forza, attribuendola genericamente e comodamente al riflesso dell’ignoranza generale (cioè di tutti quelli che non appartengono ai loro circoli). Ed è così che hanno perso le elezioni.

In realtà, Trump non è nuovo a questa modalità di interlocuzione politica. Già nel suo primo mandato aveva più volte scompaginato l’aplomb presidenziale con quelle che sembravano affermazioni sbilenche, dati esagerati, attacchi a istituzioni e persone dello Stato federale, pubbliche minacce ai nemici degli USA. Un linguaggio che fa parte del suo corredo populista e che gli ha permesso di dare voce a larghi strati di popolazione dimenticati dalle politiche DEM. È tuttavia evidente che in questo secondo mandato, quelle che nel primo potevano essere considerate strizzatine d’occhio al malcontento popolare, si sono ampliate e trasformate in una precisa strategia comunicativa, pianificata e coordinata in sinergia con Musk ed altri esperti del settore. Né è difficile individuare le ragioni di questa scelta, se si ricorda in che modo i DEM americani hanno cercato di affossare la carriera politica di Trump con infondate accuse di impeachment e di altri reati, che hanno costretto il Tycoon a difendersi per anni, prima di poter tornare a presentarsi agli elettori.

Quegli eventi infatti non sarebbero stati possibili, se non in un sistema dell’Informazione ampiamente controllato dal Deep State (CIA inclusa), alterato da inchieste giornalistiche pretestuose occultamente finanziate dall’USAID, e soprattutto percettivamente manipolato da social come Facebook e Twitter in grado di togliere credibilità e voce persino al Presidente USA. Si aggiunga che questo sistema ha le sue lunghe propaggini in molti altri paesi, specie europei, e finisce per infiltrare anche il discorso pubblico di istituzioni sovranazionali (come l’ONU, l’UE e l’OMS) apparentemente neutre, ma in realtà fortemente condizionate dalla cordata globalista ostile a quella incarnata da Trump. La sfida politica lanciata da quest’ultimo ai suoi competitor interni, perciò, ha riguardato e riguarda tuttora anche il contrasto ad ampi segmenti della narrazione propagandistica occidentale nel mondo, che solo un occhio esterno a questa lotta può ricondurre ad interessi genericamente  statunitensi, mentre è funzionale soprattutto al potere autonomo delle multinazionali del World Economic Forum e, in subordine, ai governi che lo servono.

Non a caso, dunque, l’ultima campagna elettorale di Trump è stata interamente e apertamente improntata alla contrapposizione tra Verità e Menzogna (vero filo conduttore delle sue proposte politiche, economiche e migratorie), un tema che è stato sempre storicamente eluso nella competizione per la Presidenza, come sconveniente, perché dissonante rispetto alla funzione di unità nazionale incarnata dalla massima carica dello Stato. Evidentemente, di là dell’appartenenza partitica e di fazione, per le élite americane la “verità” del sistema di potere statunitense non è mai stata in questione. C’è voluto Trump, per mettercela. Espulso da Facebook e Twitter dopo la farsa di Capitol Hill, il Tycoon ha fondato un proprio social dal nome programmatico “Truth”, con l’intento dichiarato di supportare "un’aperta, libera e onesta conversazione pubblica, priva di censura e discriminazione”. Pochi mesi dopo gli ha fatto eco Musk con l’acquisto di Twitter e l’operazione-verità dei Twitter files, un’autentica bomba mediatica che ha rotto il fronte unito della censura e della manipolazione sino ad allora operate dai colossi della Silicon Valley.

Se come afferma Orwell non c’è nulla di più rivoluzionario della verità, Trump ha giocato consapevolmente e pericolosamente sul mito della Rivoluzione americana, riuscendo a incarnare la sete di verità di vasti strati di popolazione trasversali all’appartenenza di classe. La corsa presidenziale ha così assunto volutamente i tratti messianici di un Armageddon, con Trump nelle vesti del Paracleto venuto a punire i malvagi e a dare soddisfazione ai perseguitati (come suggerisce esplicitamente il suo ritratto ufficiale); cosa che gli ha attirato, tra gli altri, il sostegno di molti gruppi religiosi millenaristi.

È per questo che le esternazioni di Trump risultano spesso spiazzanti anche per gli esperti di comunicazione, perché assumono sempre immediatamente una doppia valenza, di politica interna e insieme estera; perché spaccano il fronte narrativo preconfezionato da decenni di propaganda globalista denunciando la falsa narrativa di un presunto “bene comune” nazionale, continentale e occidentale, incarnato da governi fantoccio che ora cadono come birilli (tedesco, francese, canadese, sudcoreano, austriaco, norvegese); perché tagliano trasversalmente gli interessi reali in campo, di volta in volta deludendo ed esaltando le speranze di settori a geometrie variabili del pubblico mondiale, ed obbligando a frettolosi riposizionamenti forze che da molto tempo erano invece garantite nella loro egemonia.

A questo fine, non è ovviamente essenziale che Trump dica effettivamente la verità. È importante invece che i suoi elettori, i suoi sponsor, e i suoi sostenitori nel mondo, pensino che lo faccia; per lo meno rispetto ad una narrazione sedicente progressista che, negli ultimi due decenni, è stata caratterizzata da enormità ideologiche, quali: l’assenza di chiari sessi biologici, la fine del mondo per arrostimento già entro il 2023, la sistematica cancellazione dalla Storia e dalle opere d’arte di fatti e personaggi sgraditi al politicamente corretto, la morte dell’intera popolazione mondiale per Covid, ecc.

Fedele al suo mandato, Trump ora questa verità la dice – tutta, senza riserve né ipocrisie.

La violenza verbale che ne deriva trae legittimità dall’incarico ricevuto dal popolo: non semplicemente fare il “bene” degli USA o raddrizzare i torti, ma mostrare finalmente le cose ultime: i segreti inconfessabili dello Stato profondo, le macchinazioni lobbistiche, gli omicidi di Stato, la corruzione generale, la menzogna eretta a sistema. Non si comprende il messaggio implicito in questa nuova forma  di comunicazione, se non si tiene conto della violenza ben peggiore esercitata negli ultimi trent’anni dal linguaggio delle istituzioni pilotate dal globalismo progressista, orwelliano, ipnotico e sedativo, che concede la parola soltanto ai “competenti” della propria cricca togliendo legittimità al dissenso, che incolpa chi protesta di voler rompere un’inesistente unità d’interessi, che obbliga a sottoscrivere policy politicamente corrette dietro le quali maschera la realtà di un potere repressivo e totalitario più violento di chi minaccia esplicitamente! Trump ha scosso profondamente questa realtà comunicativa illusoria ma altamente perniciosa, per la quale la “guerra è pace”, “il vaccino è un gesto d’amore”, e dire alla propria donna “ti amo, bambina”, una violenza carnale.

Trump mette in scena una forma di comunicazione iperrealistica che produce l’allucinazione della realtà ripetendola all’infinito e, per così dire, sdoppiandola in se stessa, scardinandola. Non si tratta tanto di dire cose inedite, né di tornare alla realpolitik, come qualcuno afferma. Le uscite di Trump su Panama, Groenlandia, Canada, non sono affatto nuove, ma circolano da sempre in ambienti politici statunitensi bipartisan. Quanto a quelle su Gaza, Trump ha soltanto dato un nome al delirio criminale messo in atto grazie all’amministrazione precedente, quella dei “buoni” e “bene educati” democratici. Nel mondo dell’infosfera digitale in cui siamo immersi, con la potenza condizionante e manipolatoria che le è propria, dire esattamente ciò che è, senza remore né falsi pudori, finisce per creare un effetto dirompente; finisce per scardinare la realtà stessa del discorso pubblico globale in cui ogni attore linguistico ha un suo posto riconosciuto, obbligando a riposizionamenti comunicativi e autopercettivi inediti, etimologicamente rivoluzionari. Trump insomma mette in scena una specie di Apocalisse laica, il momento in cui tutto sarà svelato: la Verità non nel senso della corrispondenza ai “fatti” (comunque pensiamo che stiano), ma nel senso delle cose indicibili che tutti pensano ma nessuno osa affermare.

È un esperimento comunicativo i cui frutti reali, conseguiti quasi senza muovere un dito, dovranno perciò essere valutati nell’insieme dei suoi risultati, e non puntualmente: la tregua a Gaza con il ritorno dei Palestinesi e lo scambio dei prigionieri, la fine delle politiche Green, Woke e Gender che hanno strangolato l’economia occidentale e attaccato diritti costituzionali, l’appeasement con la Russia, l’entrata in un più equilibrato ordine mondiale coi BRICS, la chiusura di USAID, la nuova politica sanitaria di Kennedy jr, la crisi irreversibile dell’UE pupazza di Davos, la probabile fine della NATO – solo per citare i maggiori. Un esperimento però destinato rapidamente a fallire se non si assume in carico la porzione minima e ineliminabile di ipocrisia, necessaria ad ogni forma di comunicazione umana. Quale sarà il punto cieco del discorso trumpiano, quale sarà il luogo di affioramento di questa ipocrisia nel profluvio quotidiano di dichiarazioni pubbliche, lo scopriremo presto.

Ciò che invece si può già presumibilmente inferire da questa rivoluzione del discorso pubblico è forse la fine dell’egemonia americana, di cui è in qualche modo un segno. La rapidità con la quale salgono e scendono i potenti del mondo occidentale, specie nell’èra della comunicazione ubiquitaria e delle borse valori impazzite, è infatti nota. In un mondo dove l’Informazione è quasi soltanto Comunicazione e spesso soltanto propaganda che altera la percezione di cose e persone con effetti devastanti sulla loro credibilità, basta una dichiarazione improvvida per far crollare colossi economici intrecciati tra loro a livello mondiale. È la forza e la fragilità del modello occidentale nel mondo. Modello da qualche anno entrato in fibrillazione costante, come in un coma indotto. Di là dei proclami trumpiani a fare di nuovo grande l’America, lo stile comunicativo di questa sua seconda presidenza potrebbe così rivelarsi, al contrario, la spia di una consapevole accelerazione nel ridimensionamento del potere statunitense nel mondo. Motus in fine velocior.

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