Trump può rappresentare veramente la fine del capitalismo?
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di Alessandro Volpi*
Una considerazione forse dai toni troppo perentori, di cui mi scuso in anticipo ma non saprei dirla in altro modo. Trump può rappresentare veramente la fine del capitalismo, l'autodistruzione.
Gli Stati Uniti hanno retto l'urto del mondo emergente, che hanno costruito, commettendo infiniti errori, con la globalizzazione, attraverso una combinazione di dominio finanziario, presenza militare e, soprattutto, con una narrazione liberale e democratica in grado di egemonizzare non solo le destre, ma anche gran parte delle sinistre occidentali. Questo modello ha generato una gigantesca bolla finanziaria che sorregge il Pil a stelle e strisce, ha attratto capitali da tutto il mondo, ha fatto sì che il dollaro fosse considerato la valuta più stabile, ha reso "accettabili" da una parte influente dell'opinione pubblica internazionale le peggiori guerre e ha mantenuto un equilibrio indispensabile con la Cina.
In altre parole, pur non essendo più la più grande potenza economica e pur vivendo profonde contraddizioni interne, gli Stati Uniti hanno garantito la vita del capitalismo. Ora è arrivato Trump che ha messo subito in tensione la finanza con l'appoggio a figure come Musk, pretendendo un esplicito vassallaggio dei super ricchi big tech, ha dichiarato apertamente che il capitalismo è totalmente di destra, ha rotto l'artificio retorico del capitalismo liberale e ha definito un sistema di relazioni internazionali costruito sulla ricerca di un primato retorico fatto di costanti minacce; magari minacce verbali, ma certamente in grado di generare una profonda instabilità in un sistema, come accennato, già molto complesso. Un paese con debito di 37 mila miliardi di dollari, con una posizione finanziaria netta negativa di 24 mila miliardi, con un disavanzo di 3000 miliardi e con una borsa dove le società valgono almeno tre-quattro volte il loro valore reale non può permettersi di essere guidato da un presidente convinto di poter fare del tutto a meno sia del fariseismo tipico del capitalismo sia della liturgia democratica, nell'ambito di una visione dove l'Europa è il peggior nemico proprio perché troppo incline ad un illuminismo delle diversità. Peraltro, un paese che non è certo in grado di sostenere il costo di nuove guerre che minacciano radicalmente la tenuta stessa della dollarizzazione.
La durezza trumpiana, l'idea di gridare sempre per ottenere una successiva mediazione senza alcuna attenzione alle forme e agli equilibri sono un pericolo profondo per una realtà sociale come quella Usa dove le disuguaglianze sono cresciute, dove l'inflazione generata dai dazi può essere devastante e i mutui possono esplodere per l'aumento dei tassi di interesse. Trump ha vinto le elezioni perché gli americani si sentivano insicuri, ma tale insicurezza è esasperata proprio dall'aggressività trumpiana. Dunque, Trump mette a repentaglio la tenuta americana e con essa, appunto, quella del capitalismo, lasciando campo pressoché libero all'affermazione del modello cinese o comunque ad esperienze non direttamente riconducibili al capitalismo. Trump può essere l'uomo dell'armaggedon del Capitale. Forse non è un caso che in questi mesi si sia assistito ad una grande mobilitazione, quasi terrorizzata, di figure come Mario Draghi, consapevoli di questo rischio e solerti nell'incitare gli europei ad accelerare i tempi per mantenere in vita il capitalismo in quella forma liberal democratica che ha consentito ai ricchi di vincere la lotta di classe, cancellando l'idea stessa di Sinistra.
*Post Facebook del 2 marzo 2025