Trump-Zelensky, leggere la realtà
di Marco Bonsanto
La scena che il 28 febbraio è stata offerta in mondovisione dalla Sala Ovale della Casa Bianca offre un caso da manuale della realtà politica dei nostri tempi. Il diverbio tra Trump e Zelensky, infatti, non rappresenta un fatto privato, e soltanto un approccio superficiale ed emotivo, può circoscriverlo allo svelamento del contrasto tra due temperamenti individuali, tra due differenti atteggiamenti e modi di porsi, del tipo: arroganza e umiltà, protervia e fierezza, bullismo e tenacia. Esattamente ciò che per lo più ha polarizzato i giudizi dell’opinione pubblica mondiale dopo il fatto.
Al contrario, l’episodio amplifica e fa deflagrare i meccanismi latenti ma non nascosti di un modo di far politica, che è divenuto norma dalla fine della Guerra fredda in poi, quando è iniziata la demolizione controllata delle democrazie occidentali e la rapida erosione del principio della sovranità popolare a favore dello strapotere di gruppi privati di interessi. Da allora il discorso pubblico che sottende la governance politica non si è più presentato come il risultato delle faticose mediazioni dialettiche con le istituzioni da parte di partiti, sindacati e associazioni di cittadini, ma è stato sequestrato dalla casta politica postasi al servizio delle lobby sovranazionali evaporando in pura e semplice “comunicazione d’impresa”.
Nel nuovo scenario i partiti non fanno più da collettori della rappresentanza cittadina, ma sono divenuti agenti commerciali di potentati stranieri; gli attori politici non emergono più come temporanei campioni di una ben riconoscibile tradizione politica, ma offrono al pubblico la propria immagine in termini di brand rispetto a clientes e stakeholder; il consenso degli elettori non svolge più una funzione essenziale sulla loro carriera, ma gli è diventato residuale rispetto al sostegno economico dei propri shareholder; i programmi elettorali non nascono più dalla raccolta e dall’incrocio delle reali istanze dei cittadini coi rispettivi valori di parte, ma fungono da operazioni di marketing di un programma unico predisposto altrove; l’Informazione non svolge più il ruolo di “cane da guardia” del potere, ma assume la funzione di storyteller dei suoi specifici interessi; il cittadino infine non è più considerato il depositario della sovranità e dei diritti ad essa collegati, ma un consumatore che va fidelizzato nonostante i riscontri negativi delle politiche che è stato persuaso a ratificare negli anni.
In questo quadro va tenuta poi in considerazione la presenza da circa vent’anni del sistema mediatico unificato consentito da Internet e dalle tecnologie digitali, con la sua forza pervasiva, capillare e continua, che per il fruitore inconsapevole ha smesso di essere strumentale rispetto a specifici settori della vita ed è cresciuto fino a duplicare l’intera realtà in un mondo fittizio, fatto di immagini e slogan ripetuti all’infinito. Nonostante le precoci profezie sulla sua morte, è ancora il mezzo televisivo – pur reinterpretato nell’infosfera – a costituire in questo apparato sovrastrutturale la fonte di legittimazione ultima della notizia, il canale “ufficiale” del potere. Lo si è visto molto bene durante la Pandemia, alla cui percezione catastrofica la televisione ha contribuito più di ogni altro mezzo, rendendo plausibili e persino auspicabili alla cittadinanza le inaudite restrizioni liberticide ai propri danni.
Il linguaggio della televisione (che per motivi diversi Trump e Zelensky conoscono bene) richiede una specifica professionalità nell’uso, perché fatto di parole ma anche e soprattutto di linguaggi non verbali, di codici espressivi multipli. In esso ogni elemento, concreto o formale, ha un suo significato e veicola messaggi. Di converso, esso richiede anche una specifica capacità di lettura nella fruizione, da parte dello spettatore che non voglia essere passivamente condizionato dalla forza delle immagini. Invece oggi la frammentazione e moltiplicazione delle immagini televisive in clip opportunamente tagliate e strategicamente diffuse sui social e sui giornali online, abbindola un pubblico che non riesce nemmeno più a seguire un intero dibattito, che ha bisogno di consumare in fretta la “notizia” come un popcorn anziché dedurla egli stesso dalle fonti, dal loro approfondimento preventivo, e tanto meno dalla lettura dei documenti correlati.
Dell’incontro tra Trump e Zelensky i media di sistema hanno così ripreso e diffuso soprattutto i pochi minuti del diverbio sui circa 50 dell’intera trasmissione, tralasciando tutto il resto e omettendo il significato della cornice formale in cui è avvenuto, vale a dire il summit a porte aperte tra i due capi di Stato. La funzione di quell’evento a beneficio delle televisioni era di presentare al pubblico americano la volontà congiunta di firmare l’accordo minerario sulle “terre rare”, che Trump ha proposto all’Ucraina come condizione per interporre i suoi buoni uffici nella guerra con la Russia. Il tema non era né l’accordo stesso (che andava definito a latere dell’incontro), né le garanzie di sicurezza militare che l’avrebbero sostenuto. Dopo la firma dell’accordo sarebbe dovuta seguire una conferenza pubblica congiunta dei due leader per comunicarne al mondo i termini, concordati a porte chiuse. Questa cornice definiva i ruoli televisivi dei due politici, circoscrivendone tacitamente sia il perimetro discorsivo sia il lessico in funzione della rappresentazione della comune volontà di venirsi incontro sull’affare in oggetto, così da tranquillizzare le aziende estrattive americane, gli investitori privati e l’elettore trumpiano sul recupero dei finanziamenti statali finora concessi all’Ucraina.
Senza tener conto di questo scenario è difficile rendersi conto che quello che è avvenuto nella Sala Ovale è stato sì, un “agguato”, come molti commentatori di sistema l’hanno definito, ma a parti rovesciate, una trappola che è stata sventata in diretta, trasformando l’incontro formale in un’operazione-verità da parte del duo Trump-Vance.
Tutto il senso dell’intervento di Zelensky è racchiuso nel simbolismo della nota felpa militare con la quale si è presentato alla Casa Bianca. Non si è trattato di un fraintendimento sul dress code ma di una deliberata scelta in funzione di quello che sarebbe stato il suo ruolo nello show televisivo: tentare di estorcere al nuovo governo americano, davanti al suo pubblico e attraverso la retorica del paese aggredito, un ulteriore supporto militare da spendere contro la Russia. Vale a dire l’esatto contrario di ciò che Trump ha dichiarato di voler fare dopo gli incontri con la diplomazia di Putin a Riad. Il suo sarcasmo sull’eleganza dell’ucraino recitato a beneficio delle telecamere, è stato dunque tutt’altro che un atto di volgare bullismo, ma un preciso alert comunicativo all’indirizzo di Zelensky a non giocare sporco, a non approfittare dell’accordo sui minerali per veicolare altri messaggi.
L’incontro era stato preceduto infatti da parecchie dichiarazioni ufficiali di Trump sulla necessità urgente di porre fine alla guerra (tema degli incontri separati con la Russia), sull’impossibilità per l’Ucraina di entrare nella NATO (causa stessa della guerra) e sulla restituzione degli ingenti fondi economici elargiti da Biden, che la nuova amministrazione americana esige ora dal governo ucraino. Proprio quest’ultimo punto era all’ordine del giorno, venerdì, attraverso l’accordo sulle terre rare – preludio, a sua volta, di quello sulla partnership militare-industriale tra i due paesi e di quello sulla ricostruzione ucraina.
Per quaranta minuti l’incontro fila abbastanza liscio, anche se non veramente rilassato, come mostrano le posture sulle poltrone e la mimica che accompagna gli interventi. Con Trump che spiega alla stampa il senso dell’incontro mentre fa finta di non sentire gli insulti di Zelensky all’indirizzo di Putin (“assassino”, “criminale”), mentre mostra cordoglio davanti alle cruenti fotografie portate dall’ucraino, e mentre rintuzza le domande della stampa su eventuali future aggressioni russe. Ciò che gli interessa è l’accordo: è questo il tema del summit. Senza l’accordo, inutile parlare del resto. È l’accordo, dice, che garantirà la sicurezza ucraina; vale a dire la presenza americana in Ucraina, evidentemente già concordata con i russi: “Non farei l’accordo, altrimenti!”.
È bene ricordare infatti che l’attività estrattiva richiede elevate tecnologie e ingenti investimenti (fino a 1 miliardo di dollari); per la sua complessità non diventa veramente produttiva prima dei vent’anni, senza contare che le mappe dei giacimenti ucraini risalgono a circa sessant’anni fa, a metodi obsoleti che potrebbero rivelare un sottosuolo meno ricco di quel che si spera. Trump deve avere perciò ottenuto da Putin ampie garanzie di sovranità, stabilità e sicurezza per l’Ucraina, come del resto recitano il Preambolo e gli articoli 3-4 della bozza d’accordo circolata sulla stampa.
Ma a Zelensky questo non basta. Non è veramente là per conto dell’Ucraina né della pace, ma dell’UE e delle centrali globaliste che la dirigono e che hanno voluto la guerra. Ha il disperato compito di strappare a Trump la promessa in mondovisione di un ulteriore impegno militare, così da consentire alle élite europeiste di continuare la guerra contro la Russia: unica possibilità per loro di restare al potere dopo la delegittimazione in cui li ha gettati la politica trumpiana di appeasement. Nonostante i patetici proclami di eterna fedeltà all’Ucraina, l’UE infatti non è in grado di continuare da sola la guerra, cioè senza la presenza militare degli USA e l’appoggio strategico della NATO. Se Trump dovesse privare delle armi e del supporto d’intelligence l’Ucraina, anche l’UE sarebbe obbligata a cercare accordi con l’odiato Putin, stante l’impossibilità di ottemperare in così poco tempo alle direttive Draghi sul futuro (militare) dell’Unione. Cosa che rappresenterebbe un duro colpo alla già traballante credibilità del carrozzone europeo. E a quella di Zelensky che ne dipende.
È per questo che il presidente ucraino continua a ripetere che con Putin non sono possibili compromessi, che nessuno glieli può chiedere, che la diplomazia non basta (rivolto a Vance). Ma Trump non ci casca, temporeggia, pur visibilmente infastidito. Sa che una volta chiuso l’accordo l’Ucraina dovrà scendere a più miti consigli, se non altro per proteggere gli investimenti americani sul proprio territorio. Vistosi all’angolo, Zelensky tenta allora l’ultima carta: rivolgersi direttamente al pubblico americano paventandogli future aggressioni russe. Ed è qui che il tavolo salta, in diretta. Il gioco è ormai allo scoperto, chiara la volontà di Zelensky di non firmare l’accordo senza ottenere in cambio armi per conseguire un vantaggio sui russi. L’attore ha preso il sopravvento sul capo di Stato ma ha fatto il passo più lungo della gamba. L’indignazione degli americani è perciò reale.
È bene ricordare infatti che l’avvicendamento di Trump alla Casa Bianca non è avvenuto nel quadro di una tradizionale alternanza di politica interna, ma come esito di una lunga lotta tra settori del capitalismo americano in conflitto esistenziale tra di loro. Tutta la vicenda ucraina può essere ricondotta perciò allo scontro tra le ambizioni avventuristiche delle multinazionali globaliste, che fino a ieri avevano larghi appoggi più o meno palesi, più o meno leciti, nell’apparato federale americano, nell’USAID e nella NATO, e il blocco di potere economico incarnato invece da Trump, che dai globalisti è stato per dieci anni attaccato, demonizzato, accusato e forse persino attentato, e che in questo suo secondo mandato sta cercando di sbaragliare tagliandone i tentacoli. La guerra di Trump insomma è contro i suoi nemici interni, non con Putin. Anzi, per certi aspetti quest’ultimo risulta un suo naturale alleato, visto che ha operato per il ripristino dell’interesse nazionale russo sulle mire globaliste molto tempo prima che il tycoon tentasse l’analogo negli USA.
Zelensky si è prestato a fare la marionetta di questo grande gioco condotto dall’UE per conto di Davos. È una figura che la storia del suo paese si incaricherà di giudicare. Ora che il vento è girato imprevedibilmente a sfavore dei suoi manovratori, Trump gli ha offerto con l’accordo minerario e la pace con la Russia una concreta exit strategy, perdonandogli gli affari coi Biden sui bio-laboratori ucraini e l’endorsement elettorale a favore della Harris. L’alternativa è arrivare allo stesso punto per mancanza di armi, uomini ed equipaggiamenti, ma con in meno le garanzie americane di una pace duratura con la Russia. Ciò che lo trascinerebbe nel discredito insieme agli altri leader europeisti, rendendolo non poco inviso agli ucraini. Aver recitato il copione fino all’ultimo potrebbe costargli qualcosa di più che la semplice carriera politica.
Le narrazioni non reggono più. Una volta tanto la realtà ha cortocircuitato sulla rappresentazione mediatica. È questa, la notizia.