Tutto cambia perché...
di Giulio Di Donato - La Fionda
Più che le tante rassicurazioni verso l’establishment di Giorgia Meloni, più che il quadro della nuova compagine ministeriale, sono i modi placidi e compiaciuti di Sergio Mattarella e quelli confidenti e premurosi di Mario Draghi il segno più evidente di un passaggio di consegne tra un Governo e un altro, che avviene nel solco della perfetta continuità, se consideriamo almeno i nodi politici fondamentali (poi forse qualcosa cambierà in meglio su pensioni e micro-imprenditoria, in peggio su giustizia e reddito di cittadinanza). Tra non molto anche la maggioranza degli organi di stampa mainstream si adeguerà ai nuovi equilibri, utilizzando parole sempre più concilianti verso le nuove vestali degli assetti di potere consolidati.
D’altra parte, come sappiamo bene, questo è il tempo delle necessità: la sovranità appartiene al pilota automatico (alias vincolo esterno euro-atlantista di matrice tecno-liberale), che la esercita ricorrendo ad ampie dosi di emergenzialismo e di distrazioni indotte da avanspettacolo. Solo sui cosiddetti diritti civili e sul tema immigrazione può esserci dialettica, sebbene strumentalmente ristretta a una contesa propagandistica tra un punto di vista restrittivo/conservatore e uno liberal progressista (anche su questo terreno rimane ai margini una posizione terza, critica tanto verso i primi, quanto verso gli eccessi e le ipocrisie dei secondi).
L’unica nota positiva, in uno scenario ben poco confortante, è la prospettiva di un ricambio benefico ai piani alti del potere, nel segno di una salutare “depiddinizzazione”.
Resta da capire come evolverà lo scacchiere internazionale, tra scenari di guerra, rischi di crisi economica/energetica ed elezioni di midterm in Usa: saranno queste le variabili che nel breve e medio periodo più condizioneranno le mosse del governo Meloni. Nel frattempo il teatrino triste della politica italiana seguirà il copione paludoso di sempre, fatta salva la parentesi “populista” pre e post 2018. Cambieranno solo i modi con cui giurare eterna fedeltà al vincolo esterno auto-imposto, nell’interesse occasionale e residuale del Paese: da una fedeltà fanatica e religiosa si passerà nei fatti ad una più pragmatica e opportunistica.
La speranza nell’affermazione di una classe dirigente popolare sintonizzata con “la missione e l’età del proprio tempo”, finalmente capace di ragionare in termini di interesse nazionale, declinato progressivamente e orientato al multipolarismo, all’insegna del senso più autentico dell’autonomia della politica, rimarrà un qualcosa destinato a rimanere tristemente irrealizzato.