Twitter e come opera lo “Stato di sorveglianza globale”

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Twitter e come opera lo “Stato di sorveglianza globale”


di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico 

 

Nel corso di un’intervista rilasciata a Tucker Carlson per conto di «Fox News», Elon Musk, amministratore delegato di Twitter, ha rivelato che, sotto la gestione del suo predecessore Jack Dorsey, diverse agenzie governative disponevano di “pieno accesso” al social network, compresi i messaggi privati scambiati tramite la piattaforma in oggetto. Mesi addietro, il giornalista di «Rolling Stone» Matt Taibbi aveva sollevato il velo sull’interferenza strutturale del governo federale e delle agenzie ad esso facenti capo sui meccanismi di moderazione dei contenuti pubblicati da Twitter. Più specificamente, Taibbi era riuscito, grazie ai documenti riservati trasmessigli da alcune fonti interne all’azienda (identificate da alcuni proprio in Elon Musk), a ricostruire il rapporto diretto che i vertici sia democratici che repubblicani avevano instaurato con l’apparato dirigente del social media per orientarne la censura, giungendo alla conclusione che la condotta seguita dal personale societario preposto alla revisione dei post abbia agevolato il Partito Democratico.

Durante un’audizione alla Camera, Taibbi ha dichiarato che la documentazione in suo possesso consentiva oltre ogni ragionevole dubbio di concludere che «Twitter, Facebook, Google e altre società affini hanno sviluppato un sistema formale per accogliere le “richieste di moderazione” dei contenuti provenienti da ogni anfratto del governo: Fbi, Homeland Security, Dipartimento della Salute, Pentagono, Global Engagement Center at State e persino la Cia». Ha affermato inoltre che la collusione tra consigli d’amministrazione delle aziende in questione e governo federale aveva dato origine a «una forma di maccartismo digitale del XXI Secolo […]. In effetti, i media sono diventati il braccio armato di un sistema di polizia del pensiero sponsorizzato dallo Stato».

Nonostante il clamore suscitato, né i “Twitter Files” né le recentissime dichiarazioni formulate da Elon Musk apportano novità sostanziali rispetto al quadro generale delineato nel 2013 dallo “spifferatore” Edward Snowden. Il quale, in qualità di ex impiegato per alcune società collegate alla Cia, rivelò a Glenn Greenwald del «Guardian» che la National Security Agency esercitava una sorveglianza capillare e massiccia sui miliardi di comunicazioni sia interne che esterne agli Stati Uniti, attestante l’esistenza di un rapporto di stretta collaborazione tra alcune agenzie governative statunitensi e le principali imprese della Silicon Valley. Verizon, At&T e Sprint Nextel furono le prime ad essere scoperte a trasmettere dati alle autorità attraverso un sistema, denominato Prism, in grado di assicurare all’intelligence nazionale la possibilità di accedere in maniera diretta ai server di cui si servivano le compagnie in questione e ottenere qualsiasi tipo di informazione (messaggi, fotografie, e-mail, ecc.). Il «Washington Post» svelò che Prism era entrato in vigore nel 2007, sotto la seconda amministrazione Bush, e che tra le aziende che avevano accettato di aderire al tale sistema di sorveglianza figuravano nomi di altissimo livello quali Microsoft, Yahoo, Google, Facebook, PalTalk, Skype, Aol, YouTube e Apple. Emerse quindi che la Nsa e il Gchq britannico avevano elaborato e fatto largo impiego di un programma che consentiva di copiare metadati in transito attraverso i cavi in fibra ottica collegati ai server centrali di Yahoo e Google. Il prestigioso settimanale tedesco «Der Spiegel» aggiunse ulteriori dettagli, spiegando che la Nsa si trovava nelle condizioni di accedere liberamente ai dati personali contenuti nei telefoni cellulari, I-Phone e Android compresi.

Di fronte alla portata di tali rivelazioni, la Silicon Valley insorse negando qualsiasi forma di collaborazione con lo spionaggio intensivo esercitato da Washington, ma un’inchiesta del «New York Times» smontò l’impianto difensivo costruito dai giganti dell’hi-tech documentando che molti di essi avevano elaborato una procedura speciale finalizzata a semplificare e velocizzare il processo di trasferimento dei dati alla Nsa.

La collaborazione assicurata alle agenzie governative dai big della Silicon Valley rappresenta una sorta di contropartita per i fondi annuali che la Cia stanzia annualmente a beneficio delle aziende operanti nel settore strategico dell’alta tecnologia. Fin dagli anni ’90, sotto la direzione di George Tenet, l’agenzia di Langley è molto attiva nell’agevolare tutte le varie forme di sviluppo applicabili a fini di intelligence aggirando le lungaggini burocratiche della gigantesca macchina politica statunitense. A tale scopo, la Casa Bianca e il Congresso hanno approvato la creazione della In-Q-Tel, oscura società di venture capital senza scopo di lucro incaricata di favorire la messa a punto di tecnologie d’avanguardia per conto – o quasi – della Cia. Come ha riportato il «Wall Street Journal»: «i vertici In-Q-Tel considerano l’azienda come indipendente, nonostante i legami molto stretti con la Cia e il fatto che quasi tutte le decisioni di investimento sono gestite dall’agenzia di spionaggio […]. La presenza di intricati legami è endemica nel venture capital, in cui la conoscenza intima del settore è essenziale per il successo. Le altre società, tuttavia, giocano con il proprio denaro, o quello di privati. In-Q-Tel utilizza denaro pubblico, soggetto a severe norme sul conflitto di interessi e, secondo fonti vicine, si tratta di almeno 120 milioni di dollari all’anno. A volte impegna questo capitale secondo modalità per le quali, anche se non intenzionalmente, potenzialmente ne traggono vantaggio gli stessi amministratori dell’azienda in virtù di altre cariche nel settore tech. Le scelte di In-Q-Tel spesso attraggono altri finanziamenti. Ogni dollaro investito in una piccola impresa in genere è accompagnato da 15 dollari provenienti da altre fonti. Questo aumenta le probabilità di successo del piccolo business in questione e rende le sue stock option più preziose».

Nel 2000, la In-Q-Tel ha investito somme piuttosto rilevanti in alcune imprese che producevano satelliti e che si occupavano di raccogliere, classificare e analizzare dati sensibili. In breve tempo, la società di venture capital ha rastrellato azioni di decine di compagnie hi-tech sufficienti a dettarne gli orientamenti e portarle così a sviluppare il tipo di tecnologie richieste da Washington. Il «Wall Street Journal» ha precisato nella sua inchiesta che In-Q-Tel aveva finanziato una compagnia particolarmente all’avanguardia nell’elaborare soluzioni chimiche adatte a fabbricare tappeti, ottenendo in breve tempo una specie di sonda in grado di rilevare la presenza di veleni ed altre sostanze chimiche letali in ambienti chiusi che è stata sistematicamente impiegata nei teatri di guerra di Afghanistan ed Iraq. In un altro caso, la In-Q-Tel aveva investito in un’azienda specializzata nel produrre antenne satellitari, ricavando sistemi di localizzazione portali di cui le truppe e le forze speciali Usa si sono servite per segnalare la propria posizione ai centri di comando.

In-Q-Tel ha rifiutato di rendere pubblica parte assai sostanziosa dei propri investimenti adducendo motivazioni legate alla tutela della sicurezza nazionale, lasciando chiaramente intendere che un segmento assai ragguardevole dei capitali riconducibili alla società sia stato convogliato verso aziende come Apple, Google e Yahoo, e che queste abbiano esaudito le richieste del governo per estinguere il debito. Proprio come si evince dai “Twitter Files” e dalle dichiarazioni di Musk. Amazon, ad esempio, è arrivata in qualche modo a gestire l’intero cloud computing della Cia.

 

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