Un “quisling” senza credibilità  

Previsioni sballate e megafono di un'ideologia fallita: che legittimità può ancora avere quello che dice Mario Draghi?

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Un “quisling” senza credibilità  


di Fabrizio Verde


Mario Draghi, l’ex presidente della Banca Centrale Europea (BCE) e già presidente del Consiglio italiano, è una figura che incarna i limiti del neoliberismo e delle politiche di austerità. Nonostante la sua reputazione di “salvatore” dell’euro durante la crisi del debito sovrano, il bilancio delle sue azioni e dichiarazioni rivela un quadro preoccupante: previsioni sbagliate, ideologie fallimentari e soluzioni inefficaci hanno caratterizzato il suo operato, sia come leader europeo che come capo del governo italiano. L’ultima audizione in Parlamento ha confermato questa tendenza, offrendo un’ulteriore dimostrazione della sua incapacità – o forse non volontà - di comprendere le complessità del mondo contemporaneo.


Previsioni sballate: dalla Russia all’Ucraina  

Uno dei principali punti critici del pensiero di Draghi riguarda le sue previsioni geopolitiche ed economiche, spesso infondate o completamente errate. Durante il conflitto in Ucraina, Draghi ha ripetutamente sostenuto che le sanzioni alla Russia avrebbero portato al collasso dell’economia di Mosca e alla vittoria del regime di Kiev sul campo di battaglia. Tuttavia, i fatti hanno dimostrato il contrario:

- Le sanzioni inefficaci: contrariamente alle sue aspettative sbandierate con arrogante sicumera ai quattro venti, la Russia ha dimostrato una capacità di resistenza sorprendente, grazie a un mix composto dal nuovo orientamento delle esportazioni energetiche, la riorganizzazione economica e il supporto da parte di paesi come Cina e India. Draghi ha sottovalutato la capacità di Mosca di adattarsi alle restrizioni occidentali, perpetuando un’illusione che ha solo aggravato le tensioni internazionali.

 - La guerra in Ucraina: la sua visione sul regime di Kiev vincente sul capo di battaglia si è rivelata altrettanto fuorviante. Dopo quasi tre anni di conflitto, l’Ucraina è ormai sconfitta e tenuta in vita artificialmente dai guerrafondai occidentali, mentre la Russia ha consolidato il controllo su vasti territori strategici. Draghi ha ignorato la determinazione del Cremlino e l’impatto umanitario ed economico di un conflitto prolungato, contribuendo a creare false aspettative nella popolazione europea.
     
Queste previsioni sbagliate non sono solo errori di valutazione, ma riflettono una visione ideologica che privilegia la retorica bellicista e le soluzioni punitive, trascurando le conseguenze reali per l’Europa e il mondo.


Neoliberismo e austerità: un’ideologia fallimentare  

Draghi è uno dei principali alfieri del neoliberismo e delle politiche di austerità, un modello economico che ha prodotto disastri ovunque sia stato applicato. Le sue scelte politiche riflettono una fiducia cieca nel mercato e una demonizzazione del ruolo pubblico, ignorando le evidenze storiche del fallimento di questa ideologia:

- Cile e Argentina: le (contro)riforme neoliberali imposte in paesi come il Cile sotto Pinochet o l’Argentina di Javier Milei hanno smantellato il welfare state, aumentato le disuguaglianze e creato instabilità sociale. Draghi sostiene simili approcci, senza mai riconoscere i danni che hanno causato.

- L’austerità in Europa: durante la crisi del debito sovrano, le politiche di austerità promosse da Draghi hanno aggravato la recessione, aumentato la disoccupazione e alimentato il malcontento sociale.

Quando Mario Draghi è salito al Colle come Presidente del Consiglio nel febbraio 2021, molti lo hanno accolto come un salvatore, l’uomo capace di guidare l’Italia fuori dalle secche della crisi pandemica e delle tensioni politiche. Tuttavia, il suo mandato si è rivelato un esempio lampante di come il neoliberismo, applicato in modo rigido e acritico, possa aggravare le fragilità di un paese invece di risolverle. Le politiche economiche e sociali portate avanti dal governo Draghi hanno lasciato un segno profondo, spesso negativo, sull’economia italiana, evidenziando i limiti di un approccio che mette gli interessi delle élite finanziarie davanti ai bisogni reali delle persone.

Ma i danni non si fermano qui. Le politiche energetiche del governo Draghi hanno contribuito a creare una situazione insostenibile per famiglie e imprese. Il distacco autoimposto dalle forniture russe di gas e petrolio, giustificato in termini geopolitici, ha avuto conseguenze devastanti. L’aumento vertiginoso dei costi energetici ha messo in ginocchio molte piccole e medie imprese, vero pilastro dell’economia italiana, e ha aggravato la crisi del costo della vita per milioni di cittadini. Draghi non è riuscito a proporre soluzioni efficaci per mitigare questi effetti, limitandosi a misure tampone che non hanno affrontato le cause strutturali del problema. Ebbe addirittura l’ardire di pronunciare questa frase aberrante: "Ci chiediamo se il prezzo del gas possa essere scambiato con la pace. Di fronte a queste due cose, cosa preferiamo: la pace oppure star tranquilli con l'aria condizionata accesa tutta l'estate?".


L’audizione parlamentare: un cortocircuito ideologico  

L’ultimo intervento di Draghi in Parlamento ha messo in luce ulteriori contraddizioni e limiti del suo pensiero. Parlando della competitività europea, dei dazi statunitensi e del caro-bollette, Draghi ha proposto soluzioni superficiali e inefficaci, confermando la sua distanza dalla realtà.

Draghi ha denunciato l’impatto negativo delle politiche protezionistiche di Washington, ma ha ignorato il ruolo che le sue stesse politiche neoliberali hanno avuto nell’indebolire l’economia europea. La sua proposta di “rimpiazzare una quota di commercio con l’estero” appare irrealistica e priva di una visione strategica.
   
Pur riconoscendo il problema del costo dell’energia, Draghi ha proposto soluzioni tardive e incomplete, come il disaccoppiamento del prezzo dell’energia rinnovabile da quello del gas. Questa idea, pur sensata, arriva dopo anni di ritardi e mancate riforme, durante i quali l’Italia è rimasta dipendente dai combustibili fossili. E soprattutto dopo che l’intera Europa si è auto-sanzionata rinunciando alle forniture di gas russo a basso costo.

L’operazione ReArm Europe, fortemente sostenuta da Mario Draghi durante la sua audizione in Parlamento, rappresenta uno dei progetti più controversi e preoccupanti del recente dibattito europeo. Dietro l’apparente obiettivo di rafforzare la difesa comune dell’Unione, si nasconde una strategia che rischia di trasformarsi in un immenso trasferimento di ricchezze dalle tasche dei cittadini a quelle delle industrie militari e delle élite finanziarie. Draghi, con il suo solito pragmatismo tecnocratico, ha difeso questa iniziativa come necessaria per garantire la sicurezza del continente, ma le implicazioni economiche e politiche sono tutt’altro che chiare o neutre.

Il piano ruota attorno a due pilastri principali: il primo è un allentamento temporaneo delle regole fiscali europee, attraverso la cosiddetta “clausola di salvaguardia nazionale”, che permetterebbe agli Stati membri di aumentare i deficit per finanziare la spesa militare. Tuttavia, questo meccanismo presenta enormi limiti. Innanzitutto, non tutti i paesi hanno la stessa capacità di indebitarsi ulteriormente. Mentre nazioni come Germania e Francia potrebbero sfruttare questa deroga per investire massicciamente in armamenti, altri, come Italia o Spagna, si troverebbero costretti a tagliare altre voci di bilancio – sanità, istruzione, welfare – per far quadrare i conti. In pratica, si tratta di una licenza per spostare risorse pubbliche verso settori che beneficiano esclusivamente le grandi aziende del complesso militare-industriale, lasciando i cittadini a pagare il prezzo di questa scelta.

Il secondo pilastro è ancora più insidioso: la creazione di un nuovo strumento finanziario europeo, dotato di 150 miliardi di euro, per fornire prestiti garantiti dall’UE ai paesi membri. Questo meccanismo, simile al programma SURE utilizzato durante la pandemia, sarebbe gestito in modo centralizzato e basato su acquisti collettivi di armamenti. Ma c’è un problema evidente: i prestiti, ancorché garantiti dall’UE, dovranno essere ripagati dagli Stati membri con gli interessi. In altre parole, si tratta di un ulteriore aumento del debito pubblico, mascherato da “solidarietà europea”. E chi ne beneficia? Non certo i cittadini, ma le grandi corporation militari, che vedranno gonfiarsi i propri profitti grazie a contratti multimiliardari.

Draghi ha cercato di vendere questa operazione come una necessità geopolitica, parlando della minaccia russa e della necessità di ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti per la difesa europea. Ma la realtà è che il piano ReArm Europe rischia di diventare un gigantesco schema di redistribuzione della ricchezza, dove i soldi dei contribuenti vengono usati per finanziare lobby industriali e militarizzare ulteriormente il continente. Invece di investire in diplomazia, cooperazione internazionale o infrastrutture civili, l’Europa sceglie di seguire la logica della militarizzazione, alimentando una corsa agli armamenti che non fa che aumentare le tensioni globali.

Inoltre, il ricorso all’articolo 122 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), solitamente riservato alle emergenze economiche, per giustificare spese militari solleva seri dubbi di legittimità. Questo articolo, infatti, non è stato concepito per finanziare iniziative di difesa, e la sua applicazione in questo contesto rischia di violare i principi fondamentali del diritto europeo. Ma per Draghi e i suoi alleati, sembra che ogni mezzo sia lecito pur di perseguire l’obiettivo di un’Europa militarizzata.

In sintesi, ReArm Europe non è solo un piano per rafforzare la difesa comune, ma un’operazione che mette in chiaro come le priorità dell’Unione siano sempre più dettate da logiche di profitto e militarismo. Con Draghi a fare da portavoce di questa visione, l’Italia rischia di essere trascinata in un vortice di debiti e spese militari che lasceranno poco spazio alle politiche sociali e alla crescita economica. Un’ulteriore dimostrazione di come il neoliberismo, unito a una visione miope della sicurezza, possa causare danni irreparabili al tessuto sociale e produttivo del paese.    


Un “quisling” senza credibilità  

L’intero operato di Draghi, dalle sue previsioni sballate alle sue politiche fallimentari, lo rende responsabile di molte delle crisi che oggi affliggono l’Europa. Il termine “quisling”, usato per descrivere collaborazionisti che agiscono contro gli interessi del proprio paese, calza a pennello per definire il suo ruolo. Draghi ha sistematicamente anteposto gli interessi delle élite finanziarie e geopolitiche ai bisogni reali dei cittadini, perpetuando una narrazione ideologica che ha indebolito la sovranità e la prosperità dei popoli.

Fabrizio Verde

Fabrizio Verde

Direttore de l'AntiDiplomatico. Napoletano classe '80

Giornalista di stretta osservanza maradoniana

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