Una minaccia (esistenziale) per l'Unione Europea

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Una minaccia (esistenziale) per l'Unione Europea

 

 di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico

 

Secondo quanto rivelato da «Bloomberg» sulla base di confidenze rese da fonti dotate di familiarità con l’argomento, l’Arabia Saudita avrebbe ventilato la possibilità di scaricare le proprie detenzioni di titoli di Stato europei qualora il G-7 avesse proceduto alla confisca dei circa 300 miliardi di dollari che la Bank of Russia deteneva presso istituti europei (francesi, tedeschi e belgi in primis) e sottoposti a congelamento come ritorsione per l’invasione russa dell’Ucraina.

Nei mesi scorsi, Stati Uniti, Gran Bretagna e Paesi membri dell’Unione Europea avevano discusso l’opzione relativa al riciclo delle riserve di proprietà della Banca Centrale russa in funzione di sostegno all’Ucraina. Dopo una serie di valutazioni, il gruppo ha stabilito, nonostante le pressioni esercitate da Washington e Londra a favore dell’adozione di un soluzione massimalista, lo sfruttamento dei soli interessi e profitti generati dai depositi russi. La prevalenza della linea “moderata” nasce dalla necessità tassativa di evitare lo scatenamento di un tremendo shock economico destinato inesorabilmente a innescare catastrofiche fughe di capitali destinate, con ogni probabilità, a dissestare i conti pubblici di diversi Paesi europei e a mettere perfino a repentaglio la sopravvivenza dell’euro.

Dalla ricostruzione formulata da «Bloomberg» emerge che i sauditi avrebbero tirato esplicitamente in ballo i titoli di Stato della Francia, caratterizzata da un debito pubblico ben avviato verso la soglia del 120% del Pil e detenuto in misura considerevole da stranieri. A rendere particolarmente insidiosa l’intimazione di Riad non è tanto l’ammontare complessivo delle detenzioni saudite di titoli obbligazionari europei, insufficientemente ampie da provocare un tracollo rovinoso in caso di scaricamento, quanto il micidiale “effetto domino” destinato inesorabilmente ad attivarsi in caso di svendita da parte del regno. Significativamente, lo spread tra i titoli di Stato francesi e i Bund tedeschi è cominciato a salire vertiginosamente proprio in coincidenza con l’avvio dei colloqui del G-7 incentrati sulle modalità di riciclo dei circa 300 miliardi di dollari di proprietà della Bank of Russia in funzione di sostegno all’Ucraina.

 

 

La situazione non è certo migliorata alla luce degli exploit elettorali registrati da forze politiche portatrici di istanze (come l’aumento delle tasse e l’abbassamento dell’età pensionabile) alquanto sgradite ai cosiddetti “mercati” e dal periodo di ingovernabilità che il Paese sembra destinato ad attraversare quantomeno fino alle presidenziali del 2027.

La decisione finale assunta dal G-7, che si discosta nettamente dai progetti originari concepiti dal presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj e dagli sponsor anglo-statunitensi, ha con ogni probabilità risentito delle “velate” minacce pronunciate da Riad.

«Bloomberg» si sottolinea in proposito che, a prescindere dal suo movente, la mossa di Riad evidenzia per un verso le difficoltà conclamate in cui il G-7 si sta imbattendo nel suo tentativo di ingraziarsi il sostegno del cosiddetto “Sud globale” in relazione all’Ucraina così come a una vasta gamma di questioni; per l’altro, la crescente influenza sulla scena mondiale dell’Arabia Saudita, sempre più insensibile ai condizionamenti di Washington.

Lo si evince da una serie di iniziative dirompenti assunte da Riad nel corso degli ultimi anni, quali quella risalente all’aprile 2016 che vide il regno minacciare la liquidazione istantanea di investimenti negli Stati Uniti per un ammontare di 750 miliardi di dollari qualora Washington avesse approvato un provvedimento che riconosceva l’Arabia Saudita corresponsabile degli attenti dell11 settembre 2001. Più recentemente, l’Arabia Saudita ha riaperto i canali diplomatici con l’Iran grazie alla mediazione cinese, e allineato – di concerto con gli altri Paesi membri dell’Opec – la propria politica petrolifera a quella della Russia, procedendo a una serie di tagli della produzione intesi a sostenere il prezzo del petrolio contrariamente alle reiterate raccomandazioni statunitensi. In un’occasione, i membri della Camera dei rappresentanti Tom Ma­linowski, Sean Casten e Susan Wild si spinsero a parlare senza mezzi termini di «atto ostile, e di un chiaro segnale che l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno scelto di appoggiare la Russia nella sua guerra con­tro l’Ucraina».

Lo scorso 9 giugno, per di più, la famiglia reale saudita ha annunciato che non avrebbe rinnovato l’intesa cinquantennale raggiunta tra il presidente Richard Nixon e re Faysal nel 1974, che vincolava le garanzie di difesa statunitensi all’im­pegno saudita a commercializzare il proprio petrolio solo ed esclusivamente in dollari e a ri­ciclare parte ragguardevole dei proventi in investi­menti in titoli del Tesoro statunitensi e armi di fabbricazione Usa.

Per gli Stati Uniti, si trattò delle vera e propria quadratura del cerchio; ancorando il mercato petrolifero mondiale al dollaro, l’intesa ricementò la dimensione globale della valuta statunitense messa a repentaglio dal ripudio degli Accordi di Bretton Woods – implicante lo sganciamento del dollaro dall’oro – disposto da Nixon il 15 agosto del 1971. Il risultato fu un incremento forsennato, sospinto dalla drastica rivalutazione del petrolio (400% circa) verificatasi nell’ambito della Guerra dello Yom Kippur, della domanda internazionale di dollari, con conseguente rafforzamento della valuta statunitense e crescita del potere d’acquisto dei salari interni rispetto alle importazioni. L’altro effetto, parimenti rilevante, consistette nella canalizzazione di capitali esteri verso il mercato obbligazionario statunitense, ponendo la Federal Reserve nelle condizioni di mantenere relativamente bassi i tassi di interesse e le banche di Wall Street di riciclare gli ingenti capitali sauditi in crediti ai Paesi in via di sviluppo.

Significativamente, sul sito del Nasdaq è un’analisi sul tema in cui si sottolinea che «la scadenza dell’accordo sul petrodollaro rappresenta un cambiamento significativo nelle dinamiche di potere globali. Evidenzia la crescente influenza delle economie emergenti e il mutevole panorama energetico. Sebbene le implicazioni di questo cambiamento non si siano ancora manifestate, gli investitori dovrebbero almeno essere consapevoli che, a livello generale, l’ordine finanziario globale sta entrando in una nuova era. Il predominio del dollaro statunitense non è più garantito».

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