Usa e Mar cinese meridionale: libertà dei mari o libertà di provocazione?
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Diego Angelo Bertozzi
“L’arte della provocazione”, oppure “La libertà dei mari come libertà di provocare”: ci si potrebbe divertire con la fantasia per sintetizzare con efficacia il comportamento degli Stati Uniti in un luogo caldo del pianeta - per le tante rivendicazioni territoriali e perché area di proiezione dell'ascesa cinese - che non ha certo bisogno di essere surriscaldato.
La Marina a stelle e strisce ha messo ora in atto quanto da tempo stava progettando ai massimi livelli (rapporto rivelato agli inizi di ottobre dal Financial Times), vale a dire il pattugliamento all’interno delle 12 miglia (distanza che delinea le acque territoriali sottoposte alla sovranità di un Paese costiero) degli isolotti rivendicati dai cinesi: nella mattina di martedì il cacciatorpediniere “USS Lassen” ha navigato a 11 miglia al largo del Subi Reef (nelle isole Nansha/Spratly), scatenando dure reazioni da parte di Pechino (“un atto provocatorio” e una “palese violazione della sovranità cinese”, si legge in un editoriale dell’agenzia di stampa ufficiale Xinhua) giunte fino alla convocazione dell’ambasciatore statunitense.
Gli obiettivi di una tale mossa possono essere sintetizzati così: da una parte - sempre secondo il documento citato dal quotidiano finanziario - si tratta di sfidare con singoli atti dimostrativi “gli sforzi della Cina nel rivendicare gran parte del corso d'acqua strategico attraverso l’ampliamento di rocce e scogliere sommerse per farne isole abbastanza grandi per piste di atterraggio militari, apparecchiature radar e alloggi per truppe”; dall’altra di confermare agli occhi dei propri alleati come le Filippine o il Giappone (che qualche dubbio lo nutrono), e di possibili partner come il Vietnam, il proprio impegno nella sicurezza di tutta l’area in caso di escalation dell’assertività cinese.
Un comportamento provocatorio ampiamente annunciato e che rientra appieno nella “filosofia” di documenti come l’aggiornamento della dottrina militare statunitense contenuti nel “A Cooperative Strategy for 21st Century Seapower: Forward, Engaged, Ready”, rilasciato nel marzo scorso dalla Marina, dal Corpo dei Marine e dalla Guardia costiera, che indica in Pechino l’avversario principale. Ancora una volta la proclamata difesa dei “beni comuni” e della “libertà di navigazione” nei mari nasconde l’intenzione di Washington di ostacolare e fermare la comparsa di un potere statale in grado di ostacolarne l’egemonia militare e politica, soprattutto in un palcoscenico strategico di “importanza crescente come la regione Indo-Pacifico” dove - si legge nel documento - “il continuo sviluppo e la messa in campo di sistemi d’arma anti-accesso/Area denial (sfidano il nostro accesso marittimo globale”. Il documento delinea un ricetta che non lascia adito a dubbi: il rafforzamento della presenza militare, in linea con il nuovo Manifest Destiny rappresentato dal “Pivot to Asia” fondato sull’indispensabilità della presenza a stelle e strisce: delle 120 navi che saranno messe in acqua da qui al 2020 (a fine 2014 erano 197), il 60% navigherà proprio tra l’Oceano Indiano e il Pacifico mettendo in mostra i gioielli di famiglia: Littoral Combat, navi dotate di sistema di difesa missilistica contro missili balistici di medio-corto raggia, caccia F-35C Lightning II Joint Strike, droni MQ-4C Triton, e squadroni MV-22 Osprey (velivolo per il trasporto truppe). A questo si aggiungono una Forza di spedizione rapida di Marines nel Pacifico occidentale e la distribuzione di Marines in Australia.