Valentina Ferranti: “L’antropologia è un antidoto al transumanesimo”

Valentina Ferranti: “L’antropologia è un antidoto al transumanesimo”

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di Giulia Bertotto per L’AntiDiplomatico

 

«L’uomo è un mistero. Un mistero che bisogna risolvere, e se trascorrerai tutta la vita cercando di risolverlo, non dire che hai perso tempo; io studio questo mistero perché voglio essere un uomo».

Un giovane Fëdor Dostoevskij al fratello Michail



Valentina Ferranti è un’antropologa, saggista, articolista. “Si occupa di mitologia e simboli legati alle antiche civiltà, ma nelle sue ricerche antropologiche si interessa anche del mondo contemporaneo. Scrive per diverse riviste che si occupano di tradizioni sacre e di attualità. L’amore per la fantascienza e in particolare per il genere distopico arriva per caso, mediato da un approccio che vede in questo tipo di narrazione uno sguardo quasi profetico sull’uomo e il mondo a venire”.

“L'antropologia è la disciplina che studia l'essere umano, considerato sia come soggetto o individuo, sia come membro di comunità. L'antropologia fisica, che si è andata distinguendo nettamente dall'antropologia culturale solo alla fine del XIX secolo, è quel settore delle scienze biologiche che studia l'uomo dal punto di vista naturalistico (come appartenente a un particolare gruppo zoologico, la specie Homo sapiens, dell'ordine dei Primati), prendendone in esame i caratteri fisici, variabili in relazione all'ambiente, all'eredità, all'età, al sesso, ai tipi costituzionali e razziali, alla distribuzione geografica, alle diverse epoche”[1]. Da essa si sono poi sviluppate l’antropologia culturale e sociale.

La nostra società è in mutamento rapidissimo, il piano tecnologico, medico e scientifico e quello delle idee, delle convinzioni, dei valori, registrano una fusione mai vista. “L'elettronica e l'antropologia: lontane parenti che la recente modernità ha avvicinato fino a unirle in matrimonio”, ha detto lo scrittore inglese Ian McEwan. Abbiamo cercato di vedere i nostri tempi con lo sguardo antropologico della dottoressa Ferranti, per riflettere ancora su questo mistero che è l’uomo.

Se l’antropologia cerca di indagare la sfuggente natura umana il transumanesimo dichiara di volerla potenziare. Come risponde il suo modo di essere antropologa di fronte al transumanesimo galoppante che appunto sembra puntare a stravolgere ontologicamente l’uomo come lo abbiamo conosciamo.

Il transumanesimo è la morte dell’essere umano perché implica la globalizzazione del suo corpo e del pensiero. L’antropologia è esattamente il contrario, elabora il contesto in cui un essere umano si esprime culturalmente e socialmente e lo valorizza nelle sue specificità. Potremmo dire che l’antropologia è in qualche modo anche un antidoto al transumanesimo. Il transumanesimo frana verso un progresso che porta all’abisso e all’oblio mentre l’antropologia tende a conservare le memorie dell’uomo sulla terra. L’antropologo, nello studiare l’uomo, preserva le forme culturali, linguistiche, l’etimologia delle parole, mentre il mondo transumano tende anche all’appiattimento del linguaggio e all’omologazione della terminologia che deve essere gender fluid e politicamente corretta.

Il progetto di trasformazione antropologica oggi si legittima con l’ideologia LGBT (che distinguiamo dal rispetto dovuto ad ogni persona di ogni orientamento sessuale), con le promesse dell’intelligenza artificiale e le attrattive della realtà aumentata…intanto Elon Musk dice di aver impiantato un chip nel sistema nervoso di un essere umano.

Il gender è un falso antropologico, non esiste: ci sono le categorie biologiche di maschio e femmina, non c’è alterazione o trasformazione di questo dato biologico e naturale che coincide con il dato divino e quindi con il sentire religioso. La nostra cultura ha reso inconsistenti e fluidi i rituali di passaggio che consegnavano la bimba e il bimbo alla vita adulta cioè sessuata e sessuale e che ne sanciva il passaggio ai ruoli sociali annessi. Durante i riti di passaggio/iniziazione, il bambino veniva allontanato dal gruppo di appartenenza e in seguito viveva una fase liminale in cui doveva mettersi alla prova (isolamento, dimostrazioni di coraggio, acquisizione di un potere specifico etc.), una prova per costituirsi adulto e tornare nel gruppo di appartenenza come uomo socialmente attivo. Per le bambine, data l’evidenza del passaggio dal mondo asessuato a quello di donna fertile, i rituali erano meno ‘evidenti’. In alcuni gruppi vi era un allontanamento dal clan per riunirsi con altre donne adulte ed apprendere i misteri del mondo femminile.

I Simboli vengono associati alle società arcaiche e animiste, cosiddette primitive ma oggi viviamo in una società di simboli anche sul web. Pensiamo al Metaverso e al simbolo dell’infinito…

I simboli sono archetipi universali che poi ogni cultura declina nel modo a lei proprio e peculiare. Il simbolo nel suo segno estetico è una sorta di scrigno che viene aperto e al suo interno si trova un significato. Il simbolo è un fossile culturale che va al di là del tempo e nonostante la nostra contemporaneità non ne scorga il senso, continuano ad agire. La nostra società è inconsapevolmente simbolica, non conosce il vero significato dei simboli che mostra e utilizza nella comunicazione. Noi adoperiamo segni ma non siamo coscienti del loro significato se non in modo inconscio. Il simbolo ha perso di forza anche se ancora può comunicare. Prendiamo l’illuminazione del periodo natalizio: anche le lucine sono simboli, stanno a significare la luce che vince le tenebre. In tutte le culture quando c’è una crisi, momento di buio connesso alle ciclicità stagionali prioritariamente, si usa illuminare con dei fuochi. Illuminare per esorcizzare il pericolo delle tenebre e propiziare la luce nel momento spiritualmente più pericoloso dell’anno. Lo facciamo anche quando accendiamo una candela per la preghiera in un momento di preoccupazione. In qualche modo oggi nella nostra società secolarizzata ‘viviamo passivamente’ il simbolo, lo viviamo in maniera meccanica e non viva.

Come antropologa potrebbe affermare che il nostro paese sta vivendo un’epoca di patriarcato barbaro?

Il nostro paese non è patriarcale e non è matriarcale e non lo dico in maniera ideologica, ma contestualizzando la figura femminile e quella maschile nella nostra società. Non ci sono, tra l’altro, degli assoluti ma va analizzato sempre e comunque il contesto. Viviamo in una dittatura patriarcale? Ricorderei che hai vertici della UE vi è una donna e questo è solo un esempio che possiamo fare tra i tanti.  

In un’intervista ha dichiarato che il cristianesimo è luce dell’Occidente e dell’Oriente. Può dire di più su questa affermazione?

La nostra religione nel suo senso originario è meravigliosa e rivalutarla è anche un’arma di lotta alla globalizzazione. Ci sembra più affasciante il buddhismo giapponese o altri culti esotici di straordinaria bellezza, tuttavia non dobbiamo trascurare o svilire le nostre radici e la sapienza dei grandi mistici cristiani che hanno insegnamenti preziosi da darci. Nel loro modo peculiare possono donarci saggezze universali. Anche per quanto riguarda il femminile, pensiamo alla Vergine Maria, la Theotokos, madre di Dio, quale ruolo importantissimo per la salvezza. Rappresenta il femminile materno, è il simbolo della mediazione tra terra ossia la procreazione mortale e il cielo, ovvero l’immortalità. Il femmineo è il corridoio sacro, svilito da decenni di desacralizzazione della donna e dell’esistenza.

Cosa significa in termini antropologici quello che sta succedendo in Medio Oriente, ossia il tentativo di cancellazione fisica, culturale e psicologica del popolo palestinese da parte di Israele?

Si tratta di un crimine sul piano etico, storico e antropologico. Nell’ antica terra di Caanan si sta giocando una drammatica partita che riguarda l’equilibrio del mondo. Il fatto di affermare che non è mai esistito un popolo palestinese -si sta arrivando a dire questo- è la prova del tentativo di cancellazione totale di questo popolo antichissimo. Questo avviene attraverso la manipolazione dell’opinione pubblica. I media, stanno minimizzando ciò che sta accadendo a Gaza e di riflesso in Cisgiordania poiché antepongono i fatti dello scorso secolo, al tempo presente.

Quella israeliana è una composizione sociale unica, si tratta di una popolazione compatta dal punto di vista religioso ma non di quello delle origini, le quali non sono condivise. Una sorta di mosaico i cui tasselli sono uniti dalla fede e dalla paura della persecuzione ma non dà un senso di coesione etnica.

La storia del popolo ebraico è affascinante e nel contempo difficile da narrare. Un popolo che ha vissuto la diaspora, la distruzione del tempio… Il tempio di Gerusalemme è la casa di Dio. Salomone, figlio di Re Davide, ha costruito materialmente il primo maestoso tempio, seguendo gli ordini di un angelo. Il padre Davide, non poteva erigerlo poiché aveva le mani sporche di sangue in quanto militare. La maestosa costruzione fu distrutta per mano dei babilonesi nel 587 a.C. Il secondo tempio, dopo la liberazione del popolo ebraico da parte di Ciro re dei Persiani e dei Medi, dalla cattività babilonese, fu ricostruito da un discendente di Re Davide, Zorobabele e ampliato/abbellito da Erode. Anche questo luogo sacro venne distrutto. Fu Tito nel 70 d.C. l’artefice di quest’altro affronto per il popolo ebraico. Il Muro del Pianto è ciò che rimane del secondo tempio. Adesso si sta parlando della ricostruzione del Terzo Tempio, e del ritorno in questa presunta terra promessa, degli ebrei della diaspora. Anche qui vediamo dei simboli: nel 2017 Donald Trump ha spostato l’ambasciata americana da Tel Aviv, centro della vita diplomatica, a Gerusalemme, cuore della vita spirituale e città tre volte santa in quanto luogo sacro per le tre religioni monoteiste. Anche Javier Milei, l’anarcocapitalista, recatosi a Gerusalemme per pregare di fronte al Muro del Pianto, ha inneggiato alla ricostruzione del Terzo Tempio, ricostruzione che, secondo le Scritture e alcune profezie, comporterà la distruzione della Cupola della Roccia e della Moschea di al-Aqsa, tra i luoghi più sacri per la tradizione islamica.

Inoltre secondo molti rabbini la vera patria è quella spirituale e la nazione temporale sarebbe in contraddizione con lo stato metafisico dell’ebreo errante sulla terra. È un tema complesso che richiede di conciliare istanze metafisiche ed esigenze terrene; e che nessuno affermi che ci sia un popolo che non ha diritto ad un suolo di pace.

La religione israelita è strettamente legata al concetto di sangue e di terra, non a caso la linea ereditaria si trasmette per parte di madre ed è una religione fortemente nazionalistica, non ha vocazione universalistica; chiama tutti gli ebrei del mondo in Israele ma il criterio non è l’appartenenza al genere umano, è il sangue. La religione ebraica è una religione territoriale che convive con questi slanci metafisici come quelli di questi illuminati rabbini. Quando parliamo di religione ebraica dobbiamo ricordare che ci sono innumerevoli varianti, così come quando si parla di quella cristiana. Pensiamo ai cristiani dispensazionalisti, cioè sionisti, una delle lobby più influenti in America. Si tratta del 20% della popolazione, quindi circa cinquanta milioni di persone che votano i repubblicani. Queste persone spingono per la ricostruzione del Terzo Tempio e quindi per il ritorno di tutti gli ebrei della diaspora a Gerusalemme perché secondo le loro profezie quando questo avverrà loro saliranno direttamente al cielo e gli ebrei avranno definitivamente la loro terra.

[1] La definizione è dell’enciclopedia Treccani

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