Venezuela, la giravolta degli Usa, Ue e Canada: Maduro diventa interlocutore
di Roberto Cursi
Per molti sarà stata una sorpresa quando una settimana fa l'Alto Rappresentante Ue per gli Affari Esteri Josep Borrell, il Segretario di Stato Usa Antony J. Blinken e il Ministro degli Esteri del Canada Marc Garneau hanno presentato un dichiarazione congiunta nella quale affermavano: “Un processo negoziale completo e vincolato nel tempo dovrebbe ripristinare le istituzioni del Paese e consentire a tutti i venezuelani di esprimersi politicamente attraverso elezioni [...] siamo disposti a rivedere le politiche di sanzioni basate su progressi significativi in un negoziato globale.” (le sanzioni di cui parlano sono il blocco economico, commerciale e finanziario). Questa improvvisa apertura al dialogo ha sorpreso più di qualcuno ma non chi ha seguito alcuni recenti avvenimenti.
I primi segnali erano giunti dal crollo di consensi che ha avuto l'autoproclamato “Presidente” Juan Guaidò, testa di ponte degli Usa nel tentativo di rovesciare il Governo Maduro; poi il passato gennaio è arrivato anche un breve comunicato di Josep Borrell dove dichiarava che la Ue riconosceva Guaidò come importante leader dell'opposizione venezuelana ma non più come Presidente ad interim di quel Paese.
Ricordiamo che nel gennaio 2019, in una piazza, su un palco e con una folla chiamata al raduno, Juan Guaidò dichiarò “l'usurpazione del potere da parte di Maduro” e si è autoproclamato Presidente. Senza la legittimazione delle elezioni, senza un Parlamento che lo rappresentava, senza un governo con ministri per la gestione nazionale e internazionale e senza ambasciatori di sua nomina nelle sedi ufficiali Guaidò fu riconosciuto Presidente ad interim da quasi 60 Paesi, tra cui quelli con le più “alte” tradizioni democratiche. Questi Stati, arbitrariamente, gli hanno conferito tutti i poteri decisionali che ne conseguono, ma non per esercitarli in Venezuela, dato che in quel Paese non gli vengono riconosciuti. Quei poteri, però, tornavano utili ai suoi principali sostenitori per legittimare le loro decisioni.
Per esempio, la Monómeros produce fertilizzanti ed è una società petrolchimica venezuelana con i suoi stabilimenti in Colombia. Questa società esporta in 50 Paesi e sembra che fosse la seconda fonte d'ingresso in dollari per il Venezuela. Il Presidente colombiano Duque riconobbe subito a Guaidò il controllo della Monómeros, e quest'ultimo cambiò il Consiglio di amministrazione nominando persone “da lui stesso” scelte.
Altra significativa decisione è stata quella di bloccare tutti i conti bancari del Venezuela all'estero, impossibilitando il governo a utilizzarli. A questi si sommano le 31 tonnellate di lingotti d'oro della Banca Centrale venezuelana depositati nel caveau della Banca d'Inghilterra, sui quali il Governo Maduro non può più metterci mano, anche se la Corte Suprema britannica, tra il 19 e il 21 luglio, dovrà analizzare la legittimità di questa decisione.
Concludo con un accenno sulla Citgo, la più importante società di raffineria della compagnia petrolifera statale Pdvsa. Quest'ultima possiede le più grandi riserve di petrolio al mondo (il Venezuela è al primo posto, seguito dall'Arabia Saudita), però gli impianti della società per raffinare il greggio si trovano negli Stati Uniti. Anche in questo caso gli Usa riconoscono subito a Guaidò il controllo della società. Se la Monómeros era forse la seconda fonte d'ingresso per il Venezuela, il petrolio raffinato dalla Citgo era con certezza la prima.
Tutti questi miliardi di dollari che sono stati sottratti alla gestione dello Stato venezuelano, ora sono sotto il controllo di chi? E come vengono amministrati? Non certo investendoli in salute pubblica, istruzione, infrastrutture, servizi e tanto altro che servirebbe al popolo venezuelano, che invece sta subendo durissime conseguenze a causa del “bloqueo”.
La crisi non risparmia nessuno, dalle classi più disagiate ai funzionari pubblici, fino ad arrivare a diplomatici/ambasciatori.
Aveva colpito in particolar modo la storia dell'Ambasciatore del Venezuela in Italia, Isaías Rodríguez – ripresa anche da “La Stampa” – che si dimise con una lettera pubblica indirizzata a Maduro. In un passaggio il diplomatico scrive: “Con immenso rispetto per questa meritevole e coraggiosa battaglia che ha combattuto contro l’impero in declino, Le scrivo per presentare le mie dimissioni dall’incarico […] Me ne vado senza rancore e senza denaro. Mia moglie ha appena venduto gli abiti regalatile dall’ex marito per poterci mantenere a fronte del blocco americano. Sto tentando di vendere l’auto che comprai arrivando all’ambasciata e, come Lei sa, non ho un conto bancario perché i “gringos” mi hanno sanzionato e la banca italiana mi ha cacciato”
Nonostante tutto questo, le misure che puntavano a smantellare il sistema bolivariano per riportare in Venezuela le politiche neoliberiste sembra siano state fallimentari. Il Senatore Usa Chris Murphy già ne era consapevole nell'agosto del 2020, quando in commissione estera del Senato dichiarava: “Aver fatto autoproclamare Jan Guaidò e aver messo il blocco al Venezuela non ha portato a nulla. Abbiamo provato anche con un tentato golpe ad aprile 2019 (evviva la sincerità! N.d.A.) pensando che tutti i Generali dell'esercito si ribellassero a Maduro e invece sono rimasti al suo fianco, e per noi è stato un atto vergognoso. Abbiamo provato di tutto, e ancora riconosciamo Guaidò come Presidente anche se non controlla ne il Governo e ne l'Esercito, e inoltre non ha nessun ruolo istituzionale nel Paese. Dobbiamo ammettere che la nostra politica è stata un totale disastro.
Il passato 14 giugno anche un membro del Congresso, Jim McGovern, ha chiesto a Joe Biden di togliere il blocco al Venezuela denunciando che: “Il Center for Economic and Policy Research (CEPR) con sede a Washington, stima che solo tra il 2017 e il 2018 le sanzioni statunitensi siano state responsabili della morte di 40.000 venezuelani.”
Che le misure non abbiano portato agli esiti sperati dagli Usa e dai suoi alleati è ormai evidente, ma la loro apertura al dialogo di questi giorni non arriva certo per questo, sono ben altri i motivi.
Delusi dalle politiche neoliberiste, in America Latina sta nuovamente montando l'onda progressista/socialista e, in alcuni casi – si guardi al Perù – la scelta è stata anche molto radicale. Questo permetterà al Venezuela di ristabilire relazioni politico-economiche nel Continente.
Per i disagi causati dall'isolamento, la Cina e la Russia sono diventati i suoi principali partners con ingenti investimenti, togliendo sempre più spazio a futuri interessi da parte deli Usa.
Infine la mancanza del greggio raffinato dalla Citgo ha spinto il Venezuela a ricevere petroliere inviate dall'Iran.
Tutto questo sta mettendo in serio pericolo l'influenza geopolitica degli Usa nella regione (da sempre suo cortile di casa); e le grandi aziende statunitensi, europee e canadesi, è già da tempo – causa grandi perdite economiche – che fanno pressione su Washington per rivedere la sua politica. Sarà forse per questi motivi o per ragioni di sincero valore umanitario che una settimana fa Antony J. Blinken (Usa), Josep Borrell (Ue) e Marc Garneau (Canada) hanno fatto la loro “Dichiarazione Congiunta”?
A novembre ci saranno nuove elezioni in Venezuela; la strategia degli Usa e dei suoi alleati dovrebbe essere quella di mettere da parte la linea dura (già hanno abbandonato Juan Gaidò) e spingere i partiti di opposizione ad allearsi in un'unica coalizione per sconfiggere Maduro.
La loro speranza è che – con una campagna elettorale dell'opposizione finanziata con milioni di dollari – il popolo venezuelano si convinca ad abbandonare “democraticamente” il chavismo bolivariano, eleggendo così un nuovo Presidente per gli Stati Uniti – “ops” – scusatemi, volevo dire per il Venezuela.