"Whatever he wants". Le molte facce dell'austerità di Draghi

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"Whatever he wants". Le molte facce dell'austerità di Draghi

Sta aleggiando in Italia la visione secondo cui il premier Mario Draghi, godendo di ampio credito politico internazionale, potrebbe fare “Whatever he wants” in materia di conti pubblici, e stia permettendo all’Italia di rinunciare all’austerità e attuare politiche di bilancio espansive. Sebbene le previsioni sui disavanzi pubblici italiani, riportati del Documento di Economia e Finanza 2021 (DEF 2021) e nella sua nota di aggiornamento (NADEF 2021), sarebbero i più alti a partire dall’inizio degli anni ’90, è utile analizzare con molta attenzione questi dati per giudicare quanto siano davvero espansive le politiche messe in campo dal governo Draghi e se effettivamente l’Italia spenda di più rispetto ad altri paesi europei proprio grazie alla presenza di sua maestà, il presidentissimo Mario Draghi.

Per una questione relativa alla disponibilità dei dati, per poter svolgere un confronto europeo, attualmente si possono avere le previsioni di spesa e di deficit realizzate dalla commissione europea a maggio 2021 relative all’anno in corso. Chi ci racconta che l’Italia sta facendo politiche fiscali fortemente espansive, e quindi che lo Stato sta mettendo pesantemente mano all’economia per risollevarla dalla crisi, fa ad oggi riferimento a questa fonte. Stando a queste previsioni, l’Italia sarebbe uno degli stati che a fine 2021 avrà speso di più per sostenere l’economia, con un livello del rapporto deficit/PIL dell’11.7%, seguita dalla Grecia (10%), Francia (8.5%), Spagna (7.6%), e Germania (7.5%). Tuttavia, è importante sottolineare due aspetti: da un lato, per valutare il reale impatto espansivo di una politica di bilancio occorre fare riferimento al saldo primario e non a quello complessivo. Dall’altro, per valutare la discrezionalità di una manovra espansiva, quanto cioè essa derivi da un reale intenzione politica, una misura più efficace è rappresentata dal rapporto deficit/PIL aggiustato per il ciclo economico. Andiamo con ordine.

Per quanto riguarda la prima questione, rispetto al saldo complessivo, il saldo primario non considera la spesa per interessi sul debito pubblico. Questa spesa ha effetti macroeconomici sostanzialmente nulli in quanto finisce in gran parte nei profitti di banche e altre grandi istituzioni finanziarie e non va a finanziare aumenti di spesa e di consumi. Analizzando il disavanzo al netto degli interessi, queste differenze tra i Paesi si assottigliano. Le previsioni sul rapporto tra deficit primario e PIL (Tabella 1) ridimensionano la portata espansiva della politica fiscale del governo Draghi. Infatti, pur rimanendo uno dei primi paesi per rapporto tra saldo di bilancio primario e PIL (-8.4%), il divario con gli altri Paesi si assottiglia (ad esempio, la differenza rispetto alla Germania passa dai 4.2 punti percentuali se si guarda al saldo complessivo, ad un più modesto 1.4 se si guarda al saldo primario). La portata espansiva della manovra fiscale del governo sembra meno eccezionale, dunque, di quanto possa apparire.

Tabella 1. Previsioni deficit-PIL primario.

Inoltre, per valutare la discrezionalità di una politica fiscale e quindi analizzare la tesi per cui l’esecutivo si sta impegnando senza tregua per risollevare le sorti dell’economia italiana, un indicatore fondamentale è il rapporto deficit primario-PIL aggiustato per il ciclo economico. Questo indicatore rappresenta in modo più chiaro la discrezionalità di una politica fiscale poiché non considera tutte quelle componenti di spesa che variano in modo automatico in quanto legate all’andamento del ciclo economico (come, ad esempio, la spesa per sussidi di disoccupazione che aumenta automaticamente quando la disoccupazione aumenta a causa di una recessione), senza che ci sia un vero cambiamento nelle scelte politiche. C’è inoltre da aggiungere che il drammatico calo del PIL registrato lo scorso anno, al quale non ha fatto seguito una ripresa di pari entità nell’anno in corso, comporta una riduzione fisiologica del gettito fiscale rispetto ai periodi pre-pandemia, con un naturale ‘ammanco’ di entrate nelle casse: questo elemento, al pari degli stabilizzatori automatici, contribuisce a far aumentare l’entità di un disavanzo indipendentemente dalle scelte politiche del Governo di turno. Come mostrato in Tabella 2, le previsioni deficit primario-PIL aggiustato per il ciclo italiane sono sostanzialmente in linea con i maggiori Paesi europei, come ad esempio Francia e Germania. Da ciò, inoltre, si evince come il disavanzo complessivo sia dovuto, oltre che alla spesa per interessi, anche alla drammatica severità della crisi in Italia.

Tabella 2. Previsioni deficit-PIL primario aggiustato per il ciclo.

Vi è, inoltre, una questione più strettamente politica per valutare l’indirizzo, oltre che l’impatto economico, di una politica fiscale che riguarda le riforme economiche ed istituzionali che ad essa si accompagnano. Come abbiamo già osservato in diverse occasioni, gli interventi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) finanziate dal Recovery Fund (chiamato anche Next Generation EU) sono accompagnati da una strategia di riforme, clausole e condizioni subordinate all’erogazione dei fondi Europei. L’obiettivo di queste riforme e condizioni (ben 528), come ci siamo impegnati a dimostrare, è quello di rimuovere gli ultimi residui di stato sociale presenti nel nostro Paese, trasformandolo così in una economia di mercato al servizio del profitto privato che riduce al minimo i diritti sociali di molti, per favorire ulteriormente i privilegi economici di pochi. Le prime riforme approvate riguardano: i) la semplificazione delle procedure amministrative che deregolamentano le procedure di appalto, minando una serie di tutele ambientali e di legalità e trasparenza delle procedure; ii) la riforma del processo civile e penale che porterà, ad esempio, ad una riduzione dei tempi per il pignoramento e lo sfratto dei nuclei famigliari insolventi che di solito non fanno parte delle classi sociali più agiate. Altre riforme che penderanno come una spada di Damocle sulla testa delle classi lavoratrici saranno: i) la riforma delle pensioni e l’innalzamento dell’età pensionabile; ii) il federalismo fiscale; iii) la riforma del mercato del lavoro. Proprio su quest’ultima, i precetti del PNNR assumo dei tratti particolarmente infausti. La riforma, infatti, avrà l’obiettivo di “Aumentare il tasso di occupazione, facilitando le transizioni lavorative e dotando le persone di formazione adeguata”, “Ridurre il mismatch di competenze”, e “Aumentare quantità e qualità dei programmi di formazione dei disoccupati e dei giovani, in un contesto di investimento anche sulla formazione continua degli occupati”. Come abbiamo spesso sottolineato, dietro gli altisonanti proclami di migliorare la formazione dei lavoratori si celano le note politiche attive del lavoro. Queste, mentre da un lato si occupano di fornire alle imprese manodopera qualificata e formata a spese dello Stato, dall’altro si fondano su un presupposto teorico sbagliato. L’idea, cioè, che la disoccupazione sia frutto dell’inadeguatezza dei lavoratori e che l’occupazione si possa accrescere semplicemente incrementando le ‘abilità’ del lavoratore stesso. Ciò, tuttavia, è smentito sia dalla realtà dei fatti, sia dalla ricerca empirica ed economica che ha mostrato come l’aumento dell’occupazione si ottenga solo a seguito di un aumento della spesa per consumi ed investimenti. Il compito di determinare questi aumenti di spesa – specialmente in periodi di vacche magrissime – è dello Stato che, qualora volesse davvero sconfiggere la disoccupazione, dovrebbe impegnarsi in importanti politiche fiscali espansive.

La realtà dei fatti ci racconta, tuttavia, un’altra storia. Da un lato, la politica fiscale del governo Draghi non è così espansiva e salvifica come ci viene raccontato. Dall’altro, la sua azione si incardina in un sentiero reazionario, fatto di riforme liberiste e contro la classe lavoratrice, che ben chiarisce da cosa derivi questa “credibilità internazionale” celebrata dai commentatori: dal rappresentare una clausola indiscutibile di salvaguardia del sistema, a perenne tutela dell’interesse delle classi dominanti.

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