Zeitgeist e venti di guerra
Alzando l’età media dei partecipanti ho assistito di recente ad un dibattito aperto sulla guerra in Ucraina organizzato da un collettivo studentesco di estrazione cattolica. Ai brevi interventi dei relatori (un noto reporter e la ricercatrice di un prestigioso ateneo) sono seguite osservazioni e domande.
“Zeitgeist”, la relatrice faceva un ricorso ostentato del termine e così, dopo la conclusione dell’incontro, ho chiesto a due dei presenti se fossero a conoscenza del suo significato. Come mi aspettavo la risposta è stata negativa. Dacché entrambi laureati a pieni voti e per di più dottorandi, ho pensato che la maggior parte degli altri versasse in analoghe condizioni. Del resto, c’è poco da stupirsi o scandalizzarsi se oggi la conoscenza delle lingue straniere si limita all’inglese; gli americani ci “fregavano” già ai nostri tempi con la lingua (Guccini di “Statale 17”). Gli anglicismi appartengono allo Zeitgeist (almeno in questa parte di mondo) e fin qui poco male, se a ciò non si accompagnasse uno sprezzo del ridicolo che per qualcuno è un carattere senza tempo. Giorni or sono in un talk televisivo un politico di lungo corso ha detto di voler lanciare un “bridge” all’interlocutore... Ma lasciando perdere gli americani, che di colpe ne hanno già abbastanza, siamo capaci di violentare da soli la lingua di Dante, credendo di impreziosirla con parole come “resilienza” “da remoto” ecc...
Tornando a quel dibattito invece, mi ha colpito il fatto che nessuno abbia sentito la necessità di chiedere lumi, non tanto sul significato di Zeitgeist (che con un pò di accortezza si poteva desumere dal contesto), quanto su aspetti relativamente ai quali i relatori sono entrati più d’una volta in contraddizione, non solo reciproca, ma persino con quanto da se stessi precedentemente affermato. Pretendere una conclusione coerente alle premesse sembra ormai cercare il pelo nell’uovo; perché reclamare la coerenza del discorso se nel complesso esso corrisponde a quel che vogliamo sentirci dire e rafforza il nostro senso di appartenenza? Quei ragazzi costituivano un’espressione sincera dei valori sottesi all’art.11 della nostra Costituzione ma nel ripudiare la guerra accettavano implicitamente i presupposti della sua continuazione.
Qui sì che si riflette lo spirito del tempo, tanto in chi forza il racconto seguendo i canoni di schemi invalsi da tempo (in tal caso la tiritera dell’aggredito e dell’aggressore), quanto in chi aderendo all’impianto di fondo di una narrazione rifugge gli approfondimenti e cerca per lo più di rafforzare le convinzioni che lo fanno sentire dalla parte giusta della barricata (la pace, la fine del conflitto, le parole del Papa).
Si chiama pregiudizio di conferma e se è vero che tale tendenza è da sempre nella nostra natura è altrettanto vero che è incentivata e potenziata dalla rete dove su ogni argomento politico-sociale è possibile trovare conferma di tutto e del suo contrario. Ma c’è dell’altro. Invertitosi ormai da tempo il trend (non siamo più noi a cercare la notizia ma sono le notizie e spesso le non notizie che vengono a cercarci) la rete ha anche il potere di manipolare e ri-orientare molti pregiudizi di conferma, e se non è in grado di farlo di renderli inoffensivi. In tal senso ci siamo trovati veramente intrappolati, circuiti e delusi dalla promessa iniziale, tanto che in tempi di Intelligenza artificiale c’è il timore di finire come la rana bollita di cui al celebre apologo di Chomsky.
Ecco allora il rimpianto per quel che poteva essere e che non è stato a cui subentra la considerazione del “ciò che non siamo e ciò che non vogliamo”, un atteggiamento di ripiego che può appagare il desiderio di coerenza intellettuale, ma che così come è non ci aiuta nella comprensione, e non sortisce effetto sui processi reali.
What’s to be done? Disse una volta tale, e dunque restando da quelle parti, chiediamoci come far si che que poco ottimismo della volontà rimastoci, piuttosto che esserne sopraffatto, possa giovarsi del pessimismo della ragione.
Direi in primo luogo prendendo atto dell’impasse vedendo le cose senza filtri e chiamandole con il loro nome, anche a costo di esser tacciati di complottismo, terrapiattismo, antiscientismo, fino al putinianesimo e tutte le altre categorie che la ormai scialba fantasia dei nostri detrattori vorrà far seguire. Questo siamo già molti a farlo.
Ma è facile cadere nella trappola contribuendo ad alimentare i pregiudizi che vanno per la maggiore, lasciando inalterato o addirittura contribuendo a rinforzare il velo di menzogna che alimenta la propaganda delle nostre “oligarchie liberali” (1). E’ ciò che accade quando la contropartita per l’espressione del dissenso diventa la professione di fede, per cui bisogna dire che Putin è un assassino criminale, che siamo usciti dall’emergenza Covid grazie ai vaccini (detto brutalmente, ne siamo usciti prima, solo perché Putin ha invaso l’Ucraina) o che l’auto elettrica e le politiche green ci salveranno dal cambiamento climatico (mentre si potrà continuare ad arrivare in transatlantico a Piazza San Marco).
Sempre più spesso la professione di fede diventa un requisito essenziale per la sopravvivenza mediatica. Ma essa porta acqua al mulino della controparte perché anche se sarà consentito dire che nell’affrontare un problema vi sono stati errori macroscopici, nell’impianto complessivo del discorso ciò suonerà come conferma dell’estrema difficoltà del momento e quindi della validità tanto della risposta quanto della narrazione emergenziale. A ben vedere la professione di fede è l’ultima manifestazione religiosa di una società decadente senza più religione e morale condivisa, dove si discute analiticamente sul nulla mentre gli argomenti che dovrebbero esser trattati in punta di piedi (vd. la querelle sul suicidio assistito) si affrontano con stivali sporchi di fango.
Il fatto essenziale su cui riflettere è quello per cui, dopo che la “verità è [stata] ridotta a un momento nel movimento del falso” (Agamben), la logica è sottoposta ad uno stupro pressoché quotidiano. Oramai è una costante, facilmente osservabile in quelle manifestazioni orripilanti di disonestà intellettuale che (con rare eccezioni) sono costituite dai talk; quando il dissidente avanza un argomento logico, potenzialmente in grado di risvegliare il pubblico assopito, il conduttore si trasforma in un buttafuori. Ecco allora che la parola tornerà agli esperti, ovvero agli “Auguri” dei nostri giorni, quelli che tutto sanno dirci su un avvenimento passato ma che puntualmente falliscono ogni previsione riguardante il futuro.
Fino a qualche tempo fa di fronte alla gravità di un problema anche il più sprovveduto si sarebbe chiesto perché prestare ascolto a chi fino ad allora le aveva sbagliate tutte. La logica l’avrebbe spuntata rispetto alla mistificazione dei fatti e prima o poi i giovani si sarebbero fatti sentire. Poi qualcuno ha riesumato la favola del pifferaio magico ed è arrivata Greta Thunberg. Dopo aver già percorso un po' di strada l’unico consiglio che mi sento di dare ai giovani è allora tautologico: restate giovani! Di fronte al fallimento delle follie neoliberiste (crescita continua del PIL ed altre amenità) opponetevi allo Zeitgeist odierno e i venti di guerra che ne conseguono attraverso l’uso della logica, un’arma potente, oggi forse l’unica che abbiamo.
(1) Prendo tale definizione da Emmanuel Todd