di Paola Di Lullo
Burj El Barajneh, Chatila, Nahr El Bared, Ein El Helwe, Al Jalil Balbak.
Sono 5 dei 12 campi profughi ufficiali che ospitano 400.000 palestinesi in Libano. Burj El Barajneh, Chatila e Mar Elias, si trovano all'interno di Beirut. Nel 1948, dopo la Nakba, i campi profughi in Libano erano 18, ma 6 sono stati distrutti da attacchi israeliani e dal governo libanese. Quasi tutti i profughi che vi risiedevano sono stati uccisi.
Forse non tutti sanno o, per lo meno io non lo sapevo, che all'ingresso dei campi profughi palestinesi in Libano ci sono i checkpoint. Mi assale il disgusto, la rabbia. Tornano prepotenti i ricordi dell'ultimo viaggio in Palestina. Checkpoint. Gli ufficiali libanesi controllano scrupolosamente tutte le persone che entrano, palestinesi ed internazionali. Non c'è che dire, quanto a sicurezza, questo tipo di sicurezza, sono efficienti.
Lo abbiamo sperimentato a Rachideya, dove abbiamo assistito ad uno spettacolo musicale dei bambini del campo. Prima di concederci l'ingresso, nonostante avessimo il permesso del governo ed avessimo inviato copia dei nostri passaporti, ci hanno fatti attendere più di un'ora.
Nonostante la sporcizia, nei campi non vengono fatte disinfestazioni per evitare almeno le malattie che possono insorgere nelle precarie condizioni igieniche in cui vivono i profughi.
Nessun palestinese che abbia acquistato una casa prima del 2002 (da quell'anno non hanno più il diritto alla proprietà) può lasciarla ai proprio figli, i quali ereditano solo l'usufrutto. In assenza di figli, la casa diventa di proprietà del governo libanese.
Non solo. Il governo libanese chiede 100.000 lire libanesi ( 66 $ ) al mese, a persona, come tassa di soggiorno, e per le case bisogna pagare un affitto che l'UNRWA copre solo in parte e solo per i profughi palestinesi siriani. Per il resto, bisogna ricorrere a dei prestiti.
Eh già, l'UNRWA. L' United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente), istituita nel 1948 dall' Assemblea generale delle Nazioni Unite ai sensi della risoluzione 302 (IV), con un mandato temporaneo di circa 5 anni, ad oggi, è quasi completamente assente. Attualmente, sostiene circa il 12% delle famiglie palestinesi in Libano, con 100 $ a famiglia per la casa e 27 $ per persona al mese.
Il suo ruolo preponderante sarebbe quello di trovare lavoro per tutti i profughi palestinesi, di offrire supporto sanitario, scolastico ed economico (per il cibo, per esempio). Nei primi anni è stata efficiente, oggi non fornisce più nemmeno i 10 kg di farina per persona al mese che distribuiva inizialmente, insieme a 500 gr. di margarina ed una tavoletta di sapone. Sì, una.
Ed ha ridotto il numero dei lavoratori palestinesi nelle proprie strutture.
Il suo compito oggi? Spiare le famiglie palestinesi e segnalare quelle che non devono più ricevere gli aiuti. Già, ma di quali aiuti stiamo parlando?
Nelle scuole dell'UNRWA sono stipati 50 studenti per classe, con evidente difficoltà per gli insegnanti. Spesso si fanno i doppi turni, mattina e pomeriggio, per garantire l'istruzione a tutti i ragazzi, dalla scuola primaria fino alla secondaria. Non esistono però laboratori scientifici né scuole professionali.
Esiste una proposta americana, supportata da Israele, naturalmente, perché l'UNRWA venga sostituita dall'UNCHR, United Nations High Commissioner for Refugees, (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati). Proposta che, se accettata, sancirebbe l'equiparazione dei profughi palestinesi a tutti gli alti profughi, aggirando la Risoluzione ONU 194.*
La povertà ha aumentato il disagio delle famiglie, soprattutto dei giovani. Molti di loro bevono, si drogano, sono diventati violenti. Sono aumentati i furti e non sono rari gli scontri nei campi. Ma le famiglie, lasciate sole, non riescono a far fronte a tutte le necessità dei loro figli. Spesso i giovani palestinesi si recano nelle ambasciate di altri paesi, arabi soprattutto, chiedendo di poter lasciare il Libano.
Eppure, nei vari incontri politici, l'accento è stato spesso posto proprio sui giovani, sulla loro formazione e sul loro ruolo nella società civile, il cui tessuto, distrutto dalle guerre, va ricostruito affinché la stessa possa partecipare e contribuire attivamente all'attività politica, sociale, culturale ed economica. Come raggiungere questo obiettivo, però, non è ancora chiaro.
Il governo libanese dichiara che i palestinesi devono vivere in maniera decorosa e sostiene di supportarli ed ospitarli finché non rientreranno in patria. Ma non si cura di come vivono da ormai 70 anni né si ritiene responsabile della situazione, la cui colpa attribuisce alla inadempienza della comunità internazionale, nello specifico dell'ONU e dell'UNRWA. Si può ben capire che questo gioco di scaricabarile, lungi dal migliorare la situazione, la sta esacerbando sempre più.
- Burj El Barajneh, un chilometro quadrato, in cui vivono 43.000 persone, di cui 23.000 palestinesi, 16.000 siriani, 2.000 siriani profughi dal 2011 e 2.000 persone di altre etnie.
- Chatila, meno di un chilometro quadrato, in cui vivono 20.000 persone, di cui solo 8.000 palestinesi.
-Nahr El Bared, distrutto completamente 10 anni fa dall'esercito libanese, a causa dell'infiltrazione di un gruppo di terroristi jihadisti di Fateh el Islam, si disse. Molti palestinesi furono evacuati, altri uccisi.
In realtà, il campo, uno dei più ricchi del Libano, si trova sul crocevia Beirut-Damasco. Non solo. Il suo tessuto sociale era lo stesso dell'Alta Galilea, stessi usi e costumi. Distruggerlo significava distruggere la Memoria, cancellare il riconoscimento del diritto al ritorno, sancito dalla Risoluzione ONU 194. Se non ci sono campi, non ci sono profughi, ergo non c'è nessuno cui si sta negando il diritto a rientrare nella propria terra. È questo il reale motivo per cui israeliani e libanesi distruggono i campi.
Il campo è stato parzialmente ricostruito, dal 2009, grazie agli aiuti internazionali. La sua superficie è di 2/3 di un chilometro quadrato e vi vivono 40.000 persone.
Le case ricostruite sono 2.645, ne servono ancora 2.129, ma per 1.577 non ci sono fondi. Inoltre, il 65% degli edifici del campo ha bisogno di interventi di riparazione. L'ANP ha fornito i fondi per la costruzione di 600 unità abitative. Altri paesi donatori sono stati l'Italia con 5.000.000 di euro, e la Grecia con 600.000 euro.
C'è anche bisogno di ricostruire le infrastrutture, fogne, condutture per l'acqua, strade. Servono almeno 3 pozzi per garantire al campo acqua potabile. In compenso, nella parte ricostruita, hanno diminuito la superficie calpestabile degli immobili ed allargato le strade. No, non perché vivano meglio, ma perché possano entrarvi i carri armati libanesi.
Né l'UNRWA né il governo libanese ritengono di doversi prendere carico della ricostruzione del campo. Nessuno ha risarcito i palestinesi, anche stavolta.
-Ein El Helwe, un chilometro quadrato, in cui vivono 80.000 palestinesi. È uno dei più grandi dei paesi arabi ed è a rischio distruzione, come Nahr El Bared. Distruggerlo, come nel precedente caso, significherebbe cancellare il suo significato simbolico, il diritto al ritorno. Significherebbe chiudere la questione palestinese.
D'altra parte, non mancano precedenti. Il campo di Nabatya è stato distrutto durante l'invasione israeliana del 1982. Tel al Zaatar, nel 1976, dalla destra libanese, che favorisce il progetto israeliano.
Yarmouk, in Siria, fu a sua volta invaso da un gruppo di jihadisti che spinsero i palestinesi fuori dal campo, per poi distruggerlo.
- Al Jalil Balbak, mezzo chilometro quadrato di superficie, in cui vivono oltre 10.000 persone, per la maggior parte palestinesi. Dal 2011, vi sono anche circa 2.500 palestinesi siriani ( 500 famiglie ). In un primo momento, le famiglie siriane erano 2.000 e, per mancanza di alloggi, molte sono state messe nel cimitero. Lascio alla vostra immaginazione il compito di capire quale trauma, soprattutto i bambini, abbiano vissuto. Ancora oggi si può trovare qualche famiglia di palestinesi siriani nel cimitero.
Gli aiuti, in questo campo, provengono prevalentemente dai Comitati Popolari e dalla CRI.
In tutti e 12 i campi profughi palestinesi in Libano è presente la Beit Atfal Assomoud, il cui presidente, Kassem Aina, è stata nostra insostituibile guida per tutto il tempo della missione. L'Associazione, tra mille difficoltà, prova a supportare concretamente i palestinesi più bisognosi. Il che sembra un eufemismo, vista la situazione in cui vivono tutti e 400.000.
Chi mi ha letta fin qui, potrebbe pensare che i palestinesi della diaspora affrontino un problema umanitario. Ed infatti, USA, UE ed ONU si lavano la coscienza inviando soldi, prevalentemente in Palestina. In realtà, il problema è politico e la soluzione non può che essere politica. I palestinesi devono poter tornare nelle loro case, nella loro terra, la Palestina. Questo diritto non è negoziabile né confondibile con l'emergenza umanitaria.
Senza giustizia non può esserci pace, mai.
* La risoluzione 194 dell'Assemblea Generale dell'ONU è stata approvata l'11 dicembre 1948, e si compone di 15 articoli, tra cui:
Articolo 7: protezione e il libero accesso ai Luoghi Santi
Articolo 8: la smilitarizzazione e il controllo delle Nazioni Unite su Gerusalemme
Articolo 9: il libero accesso a Gerusalemme
Articolo 11: chiede il ritorno dei profughi
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