di Federico Pieraccini
La cronaca legata agli eventi del 23 Maggio nella città Mindanao nelle filippine, la prima ad essere caduta nelle mani di daesh in Asia, traccia paralleli inquietanti con le modalità operative di daesh in Siria, Iraq e Libia. La presenza di circa 500 operativi dormienti nella città di Mindanao ha permesso un assalto coordinato sulla stazione di polizia e sul carcere della città, allargando le reclute in termini numerici e prendendo controllo di numerose armi da fuoco. In un susseguirsi di notizie difficilmente verificabili, daesh ha preso controllo della città e istituito diversi checkpoint. Un mix operativo di tattiche ispirate all’inizio dell’aggressione alla Siria nel 2011 e le modalità con cui nel 2014, daesh si è rapidamente espansa in Siria dall’Iraq.
Il Governo Filippino e le forze armate del paese contano numerosi morti e feriti e nonostante buona parte della città di Mindanao sia tornata sotto controllo di Manila, i problemi restano con continuo uso di armi pesanti come aerei ed elicotteri oltre a numerose truppe di terra. Il dramma del paese asiatico è proseguito con un attentato a Manila che ha mandato in panico la nazione, obbligando le autorità a far trapelare poche informazioni in un clima che sembra virare al peggio.
Come si sia potuti arrivare a questa situazione, quando solo 12 mesi fa Duterte parlava di una rinascita delle Filippine in termini economici e sociali, è importante chiarirlo per comprendere cosa stia accadendo. Dodici mesi fa l’autore scriveva un articolo in cui spiegava in dettaglio gli obiettivi strategici di Duterte, le motivazioni dietro il suo tentativo di interagire maggiormente con Mosca e Pechino e il fallimento della politica americana, in particolare di Obama, con il presidente Filippino. Naturalmente accennavo anche alle probabili conseguenze di tale atteggiamento, palesemente in contrasto con i diktat di Washington.
Duterte al contrario di molti politici, da presidente, ha mantenuto la parola data agli elettori e ha messo in pratica importanti cambiamenti rispetto ai suoi predecessori. Più che rompere un legame storico con Washington, Duterte ha preferito allargare i propri orizzonti iniziando un dialogo serio e proficuo con la Repubblica Popolare Cinese e in tono minore con la Federazione Russa. La disputa inerenti le Isole Spratly, nonostante continui a dividere politicamente Manila e Pechino, rimane una questione da risolvere diplomaticamente e come hanno ribadito Duterte che Xi Jinping, progressi in tal senso avanzano.
Non esattamente in linea con i propositi guerrafondai dell’apparato militare-industriale-spionistico di Washington: le isole Spratly vengono considerate da analisti e strateghi americani come uno dei possibili punti di scontro frontale tra Cina e Stati Uniti, a patto che l’alleato americano di turno, in questo caso le Filippine, acconsenta ad essere il proverbiale vaso di coccio tra due vasi di ferro.
Duterte comprende in maniera lucida l’obiettivo degli Stati Uniti in questo contesto, in particolare in quello Asiatico. L’uso di ogni alleato come munizione contro la Cina in un tentativo disperato di contenere l’espansione politica, militare ed economica di Pechino in Asia. Il presidente Filippino ha mostrato chiaramente le proprie intenzioni di non sacrificare gli interessi del suo paese per beneficiare nazioni straniere.
Duterte rappresenta un pericolo reale per gli interessi dell'establishment americana in Asia. In questi ultimi dodici mesi ha applicato alla lettera ciò che aveva promesso con un escalation nella guerra alle organizzazioni terroristiche nel paese, lotta contro il narcotraffico e nuove strade diplomatiche con al centro Pechino e persino Mosca, come visto dal recente incontro tra Putin e Duterte.
I segnali dello scontro con Washington erano già chiari ai tempi di Obama. Ci sono tre fasi, ben contraddistinte, in questo percorso che ha portato Manila ad uno scontro frontale con Washington. Inizialmente furono le parole ostili di Duterte contro Obama e le risposte imbarazzate del dipartimento di stato Americano. Poi le operazioni contro cellule terroristiche e narcotrafficanti e le proteste delle associazioni internazionali sui diritti umani, oltre a svariati governi tra cui UE e USA. In pochi mesi, tramite le consolidate tecniche di manipolazione e distorsione mediatica, Duterte passava da essere un Presidente arrogante e un po’ fuori dalle righe ad un sanguinario assassino, come definito da alcuni media americani.
L’operazione di demolizione delle Filippine è entrata nel vivo con la terza fase, iniziata poche settimane fa con l’infiltrazione di Daesh nel paese da Indonesia e Malesia e l'alleanza con gruppi terroristici locali. Sembra che Washington abbia perso ogni speranza con Duterte e abbia preferito procedere alla creazione del caos permanente nel paese, come già visto in Medio Oriente, Nord Africa e in Afghanistan con nazioni ostili agli interessi Americani.
Duterte si trova in una situazione di pericolo con pressioni interne elevatissime con voci di un golpe imminente da parte del Liberal party sostenuto da alcuni oligarchi locali guidati da Loida Lewis. Il contemporaneo caos interno che vive il paese sembra essere la somma delle dinamiche dei mesi recenti e di molteplici forze in gioco.
È ancora presto per capire quale potrebbe essere l’esito finale di questo doppio confronto. In prima istanza, Duterte deve resistere alle pressioni domestiche dei suoi oppositori interni. Così facendo potrà concentrarsi sul pericolo terroristico e delimitarlo. Oggi giorni le vittoria in Siria ed Iraq delle coalizioni opposte a daesh e al qaeda hanno costretto numerosi operativi ed asset terroristici ad essere ricollocati in altre zone del globo e l’Asia sembra essere diventato il prossimo obiettivo. E’ essenziale che le forze di sicurezza filippine isolino i terroristi e reagiscono velocemente a future minacce. In Siria ed in Iraq la lentezza iniziale a reagire agli assalti terroristici permise ai takfiri di ottenere vantaggi iniziali sui quali vennero difese difficili da eradicare.
Negli ultimi mesi, numerosi voci si sono susseguite in merito ad operazioni di salvataggio ed evacuazioni improvvise di terroristi da Siria ed Iraq. Difficile sapere esattamente dove siano finiti, ma il flusso di denaro che alimenta questa rete proviene principalmente dall’Arabia Saudita. In uno schema già visto in Afghanistan mediante il Pakistan, i terroristi finanziati da Riyad sarebbero arrivati nelle filippine da Malesia e Indonesia, due nazioni con sacche di simpatizzanti wahabiti e takfiri.
Con limitato stupore, da notare che l’inizio delle operazioni di daesh nelle filippine, è coinciso con la visita di John McCain in Australia. Curioso che quando daesh lancia una nuova operazione, il senatore si trovi sempre in località prossime, che siano Turchia per la Siria o l’Australia per le Filippine. Duterte avrà bisogno in una seconda fase di tutti gli alleati possibili nella regione, gli animi più neri di Washington sembrano aver deciso che nel caso in cui Duterte dovesse prevalere sugli oppositori interni, le filippine subiranno un’escalation delle tensioni con uno scenario sempre più simile a quelli medio orientali. Dal punto di vista di Washington, se non possono controllare il paese, tanto vale distruggerlo lasciandolo bruciare nel caos.
Sarà essenziale per Pechino contribuire, se Duterte sarà scaltro abbastanza per chiedere aiuto, alla messa in sicurezza del paese e alla risoluzione del pericolo terroristico. Lo stato profondo americano vede l’opportunità di trasportare in Asia i semi del caos mediorientale. L’obiettivo è duplice, da un lato evitare lo sviluppo economico e politico legato al ruolo di Pechino nella regione, dall’altro giustificare la propria presenza militare nella regione fingendo di combattere il terrorismo. Trump poche ore fa ha già ribadito come gli Stati Uniti stiano “monitorando la situazione a Manila”.
L’accordo tra Sauditi, Israeliani e Americani, come riferito nel mio ultimo articolo, sta producendo i suoi primi effetti con quello che sembrerebbe un lento inizio di trasferimento di alcuni asset terroristici dal Medio Oriente, in particolare Siria ed Iraq, nel sud est asiatico ma persino nelle repubbliche dell’asia centrale. Trump e il ‘deep state’ hanno un interesse in comune: raggiungere i propri obiettivi strategici. Per Trump si tratta di dare l’immagine ai suoi elettori di un presidente che abbia mantenuto la parola data sconfiggendo i terroristi in Medio Oriente. Per il deep state si tratta di riorientare i propri sforzi sul contenimento della Cina, con ogni mezzo. Il terrorismo è uno dei tool a disposizione ed in questo contesto un accordo per evacuare molti terroristi da Siria ed Iraq (dove Iran-Russia-Siria e Iraq stanno devastando i takfiri) per collocarli in Asia otterrebbe il beneplacito di tutti.
Sembra che questo patto perverso sia alla base di molti problemi che oggi le filippine si trovano ad affrontare. Mentre la situazione si evolve, osservare i movimenti diplomatici tra Pechino e Manila sarà di fondamentale importanza per comprendere che strada vorrà intraprendere Duterte per salvare il suo paese dal caos.
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