La Boldrini vende la “casa” di famiglia.
Una villa del settecento, immersa nelle colline marchigiane, composta da dieci magnifiche sale con affreschi su pareti e soffitti, otto camere da letto, tre cucine, tre bagni, un’ampia cantina e un granaio. All’esterno, poi, un giardino privato di 8mila metri quadri che ospita un rigoglioso frutteto e una Chiesa commissionata da Papa Leone XI.
Insomma un’umilissima dimora, del valore di due milioni di euro.
Ora, lungi da me voler tacciare la Boldrini di marchiana ipocrisia come potrebbe facilmente fare qualche malalingua.
Ma vi confesso che sono rimasto un po’ basito nel notare - in una filantropa dal cuore d’oro come Laura Boldrini - questo venale, volgare, attaccamento ai soldi e alla proprietà privata. Per giunta proveniente da qualcosa di così deprecabile come la famiglia tradizionale.
Perché se c’è una cosa che ho imparato dall’appassionato e coerente impegno politico di Laura Boldrini è che i meno fortunati vengono sempre prima.
E allora, faccio una proposta alla compagna Laura. Anziché vendere la casa in cambio di un po’ di vil denaro, non sarebbe più nobile donarla o anche solo concederla in usufrutto gratuito?
Si darebbe un tetto più che dignitoso a decine fra le migliaia di migranti che vivono (e muoiono) da anni in baracche fatiscenti nelle campagne pugliesi e calabresi. O che affollano piccoli appartamenti nelle periferie cittadine.
E soprattutto si darebbe un sonoro schiaffo morale a tutti quei luridi razzisti italiani che, nonostante vivano da disoccupati in case popolari al quinto piano senza ascensore e abbiano persino il privilegio di mangiare tutti i giorni alla Caritas, proprio non sono capaci di un minimo di solidarietà.
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