Di seguito la terza parte dell'approfondimento sul Niger da parte di Eusebio Filopatro. E' altamente consigliata la lettura dei precedenti articoli dove viene contestualizzato il golpe nigerino nella sua storia e motivazioni. In questa terza e ultima parte si analizza, invece, il tramonto dell'Occidente.
PRIMA PARTE: Il Niger e il neocolonialismo europeo in Africa: sul futuro di un’illusione
SECONDA PARTE: Il Niger e il neocolonialismo europeo in Africa: sul futuro di un'illusione
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di Eusebio Filopatro
Parte terza: Il tramonto dell’Occidente
Ducunt volentem fata, nolentem trahunt
Precedentemente, ho richiamato i motivi del colpo di stato nigerino ricordando alcuni degli elementi più eclatanti dello sfruttamento neocoloniale. Ho poi spiegato le magre prospettive di un ipotetico assalto dell’ECOWAS e le capacità e potenzialità del governo golpista, soprattutto alla luce del contesto regionale e mondiale. Mi pare che le settimane intercorse dall’inizio della stesura non abbiano rovesciato la mia ricostruzione, anzi l’ambiguo colpo di stato in Gabon e l’inconsequenzialità delle minacce roboanti della Francia e dei suoi vassalli sembrano per ora confermarla.
In questo terzo contributo mi propongo un obiettivo affatto diverso, certamente più difficile, e più ambizioso: intendo avanzare delle considerazioni generali sul fato del neocolonialismo europeo. Si tratta evidentemente di un obiettivo molto più elusivo di una mera elencazione dei rapporti di forze nel contesto del Niger, e le tesi che esporrò sono corrispondentemente più generali ed aperte.
Nel mondo nel quale siamo nati, lo strapotere dell’occidente è un fatto. Vi sono innumerevoli sintomi: il più eclatante, tanto più in questi giorni, è il continuo apparire di masse di disperati ed avventurieri disposte ad affrontare traversate disumane nel miraggio del magro privilegio del suolo europeo. Alla lunga dominanza economica e politica di un ristretto consesso di potenze occidentali corrisponde un’esaltazione ideologica dei loro “valori”, così che quelle occidentali sarebbero le società di volta in volta più libere, uguali, pacifiche, tecnologicamente avanzate, solidali, efficienti, le meno corrotte ecc.
Ora, precisare i fatti riguardo alla reale influenza dell’occidente su scala mondiale richiederebbe una ricostruzione storica e geoeconomica impossibile qui e forse anche altrove, mentre per analizzare come le varie ideologie della superiorità occidentale contribuiscano alla prima e ne vengano reciprocamente rafforzate ci vorrebbe un’intera sociologia della conoscenza applicata allo scenario globale. Invece, più limitatamente, urge dire questo. In primo luogo, i fattori che hanno per secoli sostenuto il potere dell’occidente stanno da tempo venendo meno: progressivamente, nei decenni e nei secoli, e precipitosamente negli anni recenti. In secondo luogo, e conseguentemente, la fantasia dell’eccezionalismo occidentale, scollandosi progressivamente dalla realtà, sta involvendo sempre più da fattore motivante a paranoia disfunzionale, al punto da diventare un significativo fattore precipitante della stessa decadenza.
Che cosa spieghi le disparità di potere che traspaiono dalla storia mondiale è questione annosa e con buona probabilità irresolubile. Giusto per limitarsi ad anni recenti, Jared Diamond ha proposto un’interessante tesi fondata sul “determinismo geografico” che però include fattori tecnici e ideologici che sono reciprocamente legati.
Diciamo che il colonialismo europeo presuppone quantomeno due elementi.
Un primo fattore è dato dall’ipertrofismo demografico delle regioni “occidentali” del mondo. Nonostante l’Europa ricopra solo il 2% della superficie del globo (6.8% se si considerano solo le terre emerse), la sua popolazione (300 milioni) rappresentava poco meno di un quinto di quella mondiale (1,6 miliardi) nel 1900 (vale la pena di notare che la popolazione delle americhe, in parte già discendente dei coloni europei, era allora di altri 130 milioni, e che altri coloni vivevano sparsi per il mondo). Per un termine di paragone, l’Africa, tre volte più estesa dell’Europa (6% della superficie globale, 20% delle terre emerse) contava allora 140 milioni di abitanti: meno della metà del Vecchio Continente.
Un secondo fattore è dato dallo sviluppo tecnologico. Quale che sia il motivo – le teorie razziste non meritano evidentemente alcuna considerazione, anche perché i popoli protagonisti hanno spesso origini asiatiche o africane, o sono state culturalmente fertilizzati da continui contatti esterni – a partire dal genio greco attraverso Roma, poi soprattutto col Rinascimento e la Rivoluzione scientifica che pose le premesse per quelle industriali, le capacità tecniche e scientifiche dell’Occidente sono state in diversi momenti e per secoli all’avanguardia del mondo.
Ho parlato di due elementi perché l’aspetto demografico e tecnico è relativamente misurabile e obiettivo. Sarebbe probabilmente opportuno ampliare e complicare il discorso facendo riferimento a un terzo importante fattore, quello ideologico, che Diamond tratta, ad esempio, quando analizza i successi militari dei conquistadores. Per Diamond, l’esistenza di una religione unitaria e di pratiche di interiorizzazione – preghiera di precetto ec. – era necessaria per il coordinamento dei sudditi e perché i soldati si sacrificassero – nelle crociate, nella reconquista, ma anche nel jihad – aspettandosi di ricevere un compenso eterno. Si potrebbe ipotizzare che l’arricchimento personale – nelle guerre imperiali – o i valori repubblicani – nelle guerre difensive – svolgessero un’analoga funzione motivante negli imperi del mondo antico: l’ateniese, il romano ec. In un certo senso, gli imperi dell’Europa moderna, con la loro sintesi di cristianesimo e di ideali di libertà ed eguaglianza, quando non proprio di democrazia, riprendevano e rilanciavano queste stesse ideologie unendole alla grande invenzione romantica, l’idea di nazione. Il primo esercito di massa formato in occidente dai tempi di Roma – l’esercito francese rivoluzionario, come poi la Grande Armée – ricapitolava in sé alcuni di questi elementi, e non casualmente riuscì a riunificare, sia pure brevemente, un’area paragonabile a quella dell’antico impero romano.
Ripeto, si tratta di questioni storicamente troppo profonde e complesse per darne una presentazione minimamente soddisfacente, ma anche così schematicamente presentate invitano una domanda: può il neoliberismo occidentale, con tutte le sue ineguaglianze e i suoi scontenti - come li definiva Joseph Stiglitz in un libro influente – se non proprio i suoi “vinti” – come li chiamava Marcello Veneziani, può questa ideologia leggera ed evanescente, con i sui correlati di iperpluralismo sociologico ed estrema polarizzazione ideologica, può questo fantasma tanto sfuggente da risultare difficile persino da definire od enunciare motivare qualcuno a sacrificare la vita in una guerra di conquista (o persino di difesa)? Sarà forse (anche) per questo che le guerre imperiali più recenti sono combattute quasi tutte per procura, mobilitando carne da cannone che non appartiene, perlomeno non integralmente, all’Occidente liberale? Mi pongo questa domanda leggendo Edward Luttwak che sul Wall Street Journal invita la Polonia ad addestrare più soldati anziché richiedere armamenti sofisticati.
Tralasciamo però l’ideologia e ritorniamo ai fattori obiettivamente misurabili. Quali che siano i motivi, è fin troppo evidente che lo straripamento demografico occidentale è non solo arrestato, ma invertito. La popolazione africana supera ormai quella europea di più di mezzo miliardo di abitanti. Secondo le proiezioni, entro pochi anni e decenni il Continente Nero ospiterà il doppio e poi il triplo degli abitanti del Vecchio Continente. Del resto, ad oggi, l’Europa è “vecchia” anche letteralmente, con un 19% di abitanti ultrasessantenni. Seguono Nord America (17%) e Oceania (13%), mentre in Asia e Sud America solo il 9% ha più di 60 anni e addirittura in Africa si scende al 4%. Ovviamente ciò dipende in buona parte dall’aspettativa di vita, ma questo non mitiga i problemi e ridimensionamenti radicali che ne seguiranno.
Non è altrettanto evidente che l’occidente stia perdendo il suo primato anche sul piano tecnico-scientifico, ma ci sono quantomeno buone ragioni per dubitarne. Recentemente, Giulio Tremonti ha parlato in proposito di una “sfida che i BRICS non possono vincere”, argomentando sostanzialmente che “non c’è scienza laddove non c’è libertà”. In realtà, i metodi della scienza sperimentale non sono affatto appannaggio esclusivo delle cosiddette “democrazie”, anche se l’assunto per cui l’occidente deterrebbe il monopolio della democrazia stessa meriterebbe un altro lungo excursus critico. Concentrandosi sul solo sviluppo scientifico, già lo stesso Tremonti si è visto costretto a introdurre nel suo discorso importanti concessioni, ad esempio ammettendo che in India c’è “un certo grado” di libertà. Un’ironia di portata storica ha voluto che la tesi di Tremonti fosse enunciata nello stesso giorno in cui la missione indiana Chandrayaan-3 atterrava sulla luna. Sembra naturale pensare che le stesse qualifiche sul “certo grado di libertà” valgano almeno per Brasile e Sud Africa. Quanto a Cina e Russia, vale la pena notare che la prima sta combattendo una battaglia aperta per la propria autosufficienza tecnologica e che diploma ogni hanno 8 volte più laureati STEM (cioè in scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) degli Stati Uniti, mentre la Russia dispone tuttora di alcune armi la cui tecnologia è fuori portata per gli occidentali (per dirne una, gli USA hanno ripetutamente fallito il lancio di missili ipersonici).
Al venir meno di due fattori portanti del predominio occidentale – quello demografico e quello tecnico-scientifico – ed ai cenni che ho introdotto sulla frammentazione ideologica dell’occidente, aggiungerei altre considerazioni generali, di tipo economico e politico-sociale.
A livello economico, è noto che il colonialismo implica una subordinazione dei paesi sottomessi ai dominatori. Nei suoi esempi classici, si tratta di una pura estrazione di risorse, come nel caso del cotone dall’India alla Gran Bretagna, o dell’uranio dal Niger alla Francia. Tuttavia, negli ultimi decenni il neocolonialismo occidentale si è spinto oltre. In un impeto di hubris, i paesi più avanzati hanno smantellato il proprio impianto agricolo e industriale per volgersi senza voltarsi indietro alla finanziarizzazione dell’economia ed alla tecnologia virtuale, oltre ai più tradizionali servizi. Per questo la Cina è ora chiamata “la manifatturiera del mondo” (the world’s factory), e da quando la sua crescita è stata percepita come una minaccia si cerca di riprodurre lo stesso modello con l’India (senza troppo preoccuparsi di un esito potenzialmente identico). Quanti abbracciano questi “progressi” farebbero bene a studiare la dialettica servo-padrone di Hegel. È infatti il “servo” che detiene il vero potere in quanto il “padrone” si rende vulnerabile. La pandemia è stata una spettacolare rivelazione di questa dinamica, laddove ci si è scoperti dipendenti non solo per materie prime e dispositivi medici ma anche per semilavorati e manodopera, ed ora con la guerra “scopriamo” la dipendenza energetica ed il costo dei fertilizzanti e del grano.
Come spesso accade, a questa trasformazione economica corrisponde una trasformazione ideologica, per cui la scomparsa o quantomeno la frammentazione della classe lavoratrice e operaia, come anche la sua svalutazione nelle gerarchie del prestigio e del riconoscimento sociale, hanno trasformato l’immaginario e il pensiero collettivi dell’Occidente. Questioni vitali e molto materiali come mobilità ed argini sono pertanto distorte nelle narrazioni semireligiose dell’apocalisse climatica, che hanno peraltro il vantaggio di assolvere da ogni responsabilità e di celare la fragilità concreta del sistema.
C’è poi un ultimo fattore che è difficile descrivere con parole più generose di un generalizzato declino della classe dirigente occidentale. Senza farne ovviamente un discorso personale, l’osservazione banale per cui “non abbiamo più i politici di una volta” fa il paio con il confronto impietoso con le capacità dei leader non occidentali e spesso anche del sud del mondo. Al di là di quanto si pensi sulla sparata di Josep Borrell per cui la Russia sarebbe “una stazione di servizio con le atomiche”, sarebbe anche in tal caso indiscutibile la coerenza con la carriera di Vladimir Putin come agente segreto nel servizio estero, la sua laurea in economia ed il dottorato con tesi su “Risorse minerali e di materie prime e la strategia di sviluppo dell’economia russa”. Bisogna pure ammettere che si potrebbe sostenere lo stesso riguardo al rapporto tra la formazione di Gioria Meloni – alberghiero, curvatura lingue straniere – e il suo programma politico.
I modelli principali di selezione delle élites includono l’aristocratismo e la meritocrazia. Nel modello aristocratico il rampollo di una grande famiglia può anche nascere senza speciali virtù, ma viene sottoposto a una rigorosa ed esigente educazione per la quale, salvo nei casi più disperati, acquisice qualcuna delle virtù di governo: noblesse oblige. I cenni biografici disponibili su Mohammed bin Zayed Al Nahyan o sui reali inglesi offrono esempi più o meno riusciti di questa formazione.
Troviamo le forme più evidenti del modello meritocratico nelle culture orientali. Delle “mamme drago” (ky?iku mama, in Giappone) o “mamme tigre” (come quella descritta dalla sino-americana Amy Chua) spingono i figli ad eccellere con spietato rigore sin dalla più tenera infanzia. Questi affrontano prove via via più selettive finché giungono ai vertici dell’educazione e della professione, e da qui si affacciano al mondo dell’amministrazione o della politica. Naturalmente il cursus meritocratico può essere anche più pratico che teorico: l’autorità può essere formata nella militanza e sul campo anziché sui libri o tra gli esami. La sostanza però resta la stessa: non si arriva a ruoli apicali senza che competenze ben definite siano state ripetutamente testate e comprovate da un sistema quanto possibile obiettivo, se non proprio da una spietata e, al limite, anche pericolosa competizione.
Non voglio propinare storielle ai miei quattro lettori: in ogni luogo e tempo la selezione delle élites è in parte decisa dalla precettazione politica, da interessi privati o di consorterie, da favoritismi personali, dalla corruzione, dalla fortuna e dal caso eccetera eccetera. Resta che una società deve arginare questi fenomeni come patologici o eccezionali, e non può permettersi di normalizzarli, salvo volgersi all’autosabotaggio.
Ho invece l’impressione - ma ovviamente si tratta di un fenomeno difficile da misurare empiricamente – che i meccanismi selettivi siano saltati, o stiano divenendo sempre più platealmente inefficienti. Sotto il pretesto della “democrazia”, il (tele?)voto sui leader è diventato sempre più un’esplosione sentimentale e mediatica, una specie di casting collettivo di personaggi che spesso non si capisce bene come siano emersi alle luci della ribalta. In questo senso, documentari come Videocracy di Erik Gandini, che sembravano stigmatizzare delle devianze, sembrano invece avere anticipato un paradigma. Se i produttori televisivi hanno assunto un ruolo importante, come esemplificato da Berlusconi e da Trump, il protagonista della politica occidentale, da Reagan a Schwarzenegger fino a Zelensky, è diventato l’attore. Stando a una recente intervista a Franco Cardini, anche il “personaggio” Giorgia Meloni con tutte le sue “svolte” e insondabili sovrapposizioni di maschere sarebe riconducibile a questo ruolo. Gianni Alemanno, che la conosce anche meglio, ritiene che a spiegare la sua parabola sia la sua interpretazione del ruolo dell’underdog con coinvolgente passione.
Ovviamente, gli stessi media che producono certe carriere le presentano come fulgidi esempi di “democrazia”, ma questa narrazione suscita alcune perplessità. Anzitutto, non è chiaro come e perché questo o quel personaggio arrivi a comparire a reti unificate davanti ai telespettatori che sceglieranno poi se votarlo. In secondo luogo, in una politica di schermi tanto superficiali ed evanescenti non si sa bene come potrebbe darsi una scelta reale. Chi vota Meloni, vota la Meloni antifrancese che nel 2019 offriva un palcoscenico a Fotsing Mbeku per criticare il franco CFA? Oppure la Meloni filofrancese che il 20 giugno scorso tra un abbraccio e l’altro dichiarava davanti a Macron “C'è sintonia di vedute, per esempio sul tema dell'autonomia strategica, delle catene di approvvigionamento, sul tema del rapporto con l'Africa” (corsivo mio)?
Nei bagliori pirotecnici di questa casa degli specchi mediatica, non solo svanisce ogni profondità nella valutazione delle competenze e delle figure dei leader, ma si disperde anche ogni tentativo di scelta coerente da parte dell’elettorato.
Un fenomeno simile si verifica nell’ambito degli “esperti”. Ho trovato interessante leggere analisi per cui il golpe nigerino non sarebbe in alcun modo una reazione all’inefficienza neocoloniale francese, anzi: i francesi sarebbero nella regione per tutelare la democrazia e sopporterebbero questa missione come un peso del quale sarebbero ben lieti di liberarsi se solo fosse possibile. In linea di principio, tutte le ipotesi meritano di essere considerate e si può anche sostenere che una potenza coloniale agisca come una compagine di missionari francescani. Alla prova dei fatti, tuttavia, resterebbe in questo caso da spiegare perché i francesi finalmente sollevati dalla costosa missione pacificatrice, anziché alzare i tacchi, si ostinino a rimanere sfidando la volontà dei quattro quinti della popolazione locale.
Più generalmente, il mondo dell’analisi e della ricerca si ritrova strangolato da dinamiche politiche. Gli esperti sono selezionati, formati ed utilizzati in riferimento alle esigenze dell’ideologia e della propaganda. Così, per restare al nostro esempio, un think tank che indagasse le disfunzioni del colonialismo europeo in Niger riceverebbe molti meno fondi di un organismo che studiasse la “cooperazione” e il “sostegno alla democrazia” dell’Europa nel medesimo contesto. Il risultato è il moltiplicarsi delle cosiddette “camere dell’eco”, dove narrazioni politically correct e convenienti si rinforzano di continuo a prescindere da ogni critica o realtà esterna. Gli stessi decisori che hanno selezionato gli esperti “giusti” sulla base dell’agenda si rivolgeranno a questi per delle consulenze magari più radicali ma sempre nella stessa direzione.
In questo contesto, non può pertanto stupire che non solo Carlo Bonomi e Dario Fabbri aspirino a posizioni prominenti nel mondo accademico e scientifico senza dimostrare nemmeno una laurea, ma addirittura non incorrano nel minimo imbarazzo di fronte all’accusa di essersene ripetutamente inventata una. Come nemmeno stupisce che Luigi Di Maio, il cui più celebre “risultato” in politica estera è stata la distruzione delle relazioni con la potenza regionale degli Emirati Arabi Uniti, sia ora rappresentante speciale dell’UE per la regione del Golfo. In quest’ultimo caso è particolarmente significativo che Di Maio sia stato prescelto non solo in sprezzo alle critiche dell’opinione interna, ma addirittura ignorando la pubblica incredulità di Mohammed Baharoon, direttore del Centro di ricerca sulle politiche pubbliche di Dubai, che ha letto la mossa come l’espressione di “un profondo senso dell’umorismo europeo”. Anche Cinzia Bianco, ben più competente di Di Maio, che ha definito la scelta una dimostrazione della mancanza di serietà da parte dell’Unione Europea, è rimasta completamente inascoltata. Come a dire che né gli esperti -reali- e neppure i partners rilevano, ma solo dinamiche imperscrutabili che a questo punto è difficile non ricondurre alla fedeltà politica o personale. La lettera piena di santimonia che Enrico Mentana ha inviato al professor Riccardo Puglisi in risposta all’inchiesta sulla laurea di Dario Fabbri rivendica questo “criterio” con esemplare trasparenza: non è il merito che conferisce la nomina, ma la nomina che costituisce il merito. La predilezione da parte dell’autorità e l’accesso alla stanza dei bottoni conferiscono e contengono in se stesse la propria autolegittimazione autoreferenziale.
Nel contesto di questa eliminazione di ogni criterio esterno e validazione empirica, diviene ovvio che non è più la realtà, ma la narrazione, che conta. È stato difatti rivelatore leggere, in questi mesi, non tanto la preoccupazione per il fallimento della controffensiva ucraina e per le decine di migliaia di vittime inutili, quanto quella per la perdita di controllo della “narrazione”, come la metteva la NBC il 4/08/23. Perché sono le “narrazioni”, che contano: quelle che importano al tipo di leader e di esperti sinora descritti, e che si possono vendere al pubblico quale si cerca di plasmare. Da qui lo spinning di storie, tra il fantascientifico e il favolistico, che intessono i reportage ma anche la “politica estera”, occidentale in generale e in anche italiana:
• che l’Ucraina, ripetutamente battuta dai separatisti filorussi, possa ora sconfiggere in un confronto diretto la Derzhava;
• che la Cina e la Russia, con la loro forza economica e militare ed i confini con 14 paesi, possano essere “isolate assieme”;
• che una “Via del Cotone” a partire dell’India possa costituire un’alternativa alla Via della Seta, pur includendo numerosi paesi che aderiscono alla seconda e sono in ottimi rapporti con la Cina;
• che l’Europa possa e voglia “distribuire” e “gestire” la migrazione di massa dall’Africa (si stima che nel 2020 l’insicurezza alimentare abbia colpito il 60% del Continente Nero: 800 milioni di persone)
• che gli Stati Uniti piagati da crisi economiche e demografiche quasi al pari degli alleati europei, nonché da una polarizzazione politica ai limiti del conflitto civile, siano il “cavallo vincente” sul quale puntare tutto, e rimangano in grado di plasmare la politica internazionale nonostante leader emiratini, sauditi, e cinesi abbiano persino declinato chiamate dalla loro presidenza;
• che un viaggio e un pacchetto di cooperazione possa alterare o addirittura determinare la politica estera di lungo periodo di paesi come l’Algeria, la Tunisia, e magari anche della Cina;
• che l’Italia possa uscire dalla Via della Seta e al contempo mantenere o addirittura aumentare l’interscambio con la Cina;
• che un po’ di “sacrifici” e molta devota obbedienza possano offrire all’Italia un’influenza nei consessi europei ed atlantici.
Al contrario, uno sguardo alla realtà del mondo contemporaneo suggerirebbe l’instaurazione di relazioni nuove e paritarie con i paesi al di fuori dall’Occidente, e di cogliere la congiuntura eccezionalmente favorevole agli interessi e alle aspirazioni sovrane del popolo italiano. Soprattutto, per la volontà di potenza occidentale è ora di ascoltare il sommesso invito pronunciato da Biden nel contesto simbolicamente pregnante del Vietnam: “Non so voi, ma io andrei a dormire”.
Anche perché, a livello collettivo, nessuna addetta stampa potrà calare il sipario e spegnere il microfono sullo spettacolo della fine.
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