"Lubo", vittima della storia

di Leonardo Persia


Non è il brutto film che si dice. Lubo prosegue coerentemente il discorso di Giorgio Diritti sugli uomini in fuga dalla Norma, cioè dalla Storia, quello “scandalo che dura da diecimila anni”, come recitava la copertina del romanzo ormai classico di Elsa Morante (1974). L’eroe eponimo è ancora una volta l’essere che le regole - dello stato, della società, della civiltà - perseguitano e sospingono altrove, ai margini geografici o psicologici, verso altre pelli e differenti identità. Il pastore francese de Il vento fa il suo giro (2005) finiva nella Valle Maira (Cuneo), al riparo dalla centrale nucleare impostagli a casa sua. La piccola Martina de L’uomo che verrà (2009) era beffeggiata dai coetanei perché muta e, inseguita dai nazisti, scampava alla strage di Marzabotto. In fuga dal dolore e dal fallimento, Augusta di Un giorno dovrai andare (2013) ricominciava la vita in Amazzonia, in mezzo ai poveri, tra la natura. Volevo nascondermi (2020) rifugiava il pittore Antonio Ligabue all’interno delle proprie visioni. Nell’animalità, nell’arte, nella diversità.

Diverso pure il protagonista del nuovo film. È uno jenish, cioè un gitano appartente alla terza maggiore popolazione nomade europea dopo quella dei rom e dei sinti, forse persino più scandalosa delle altre. Poiché serpe coltivata nel proprio civilizzato seno, essendo le sue origini germaniche, bianche. Weiße Zigeuner (zingaro bianco) viene appunto denominato, con disprezzo, l’uomo jenish. Qui è un artista girovago, di cittadinanza svizzera, costretto a imbracciare le armi al confine austriaco. Siamo nel 1939, si teme un attacco hitleriano. Intanto, all’ombra democratica del Paese, una prestigiosa fondazione umanitaria, approfittando della sua assenza, gli toglie la prole. Alla reazione della moglie, i gendarmi incaricati aprono il fuoco, uccidendola. In un attimo, lo sventurato si ritrova senza famiglia e costretto in un ruolo non suo. Fugge dal fronte, s’impossessa dell’identità di un contrabbandiere austriaco, che ammazza in maniera cruenta, vestendo il cadavere con la sua divisa e facendo passare l’altro per sé: per questo lo decapita e gli distrugge i connotati. Inizia quindi la sua odissea alla ricerca dei figli.

Il personaggio è immaginario, ma immesso in un contesto storico reale. L’opera “Pro Juventute”, attiva nel governo svizzero dal 1912, sviluppò, dal 1926 al 1973, il progetto “Kinder der Landstrasse” (Bambini di strada), volto all’allontanamento forzato dei bimbi dai genitori “deviati”. Tra essi, in particolare, gli jenish. Ben duemila di loro vennero rapiti. I piccoli venivano spediti in orfanotrofi, poi affidati a terzi non proprio scelti con cura. Poteva trattarsi di schiavisti dickensiani o pedofili incalliti, l’importante che fossero di “pura razza” bianca. Lo scopo era eugenetico: si voleva estirpare, non solo culturalmente, la vergogna nomade locale, disperdendone la discendenza o costringendo i malcapitati a ricoveri psichiatrici e sterilizzazioni forzate.

L’istituzione, il cui primo presidente e co-fondatore, Ulrich Willie junior, aveva simpatie hitleriane, è tuttora esistente. D’altronde, la civiltà bianca resta sempre la stessa: non è in corso la pulizia etnica a Gaza? Non si discute nei nostri talk-show se sia lecito sterminare bambini e civili in nome di una supposta pace a venire? Solo lo sciagurato progetto sui bambini di strada fu interrotto, a seguito di una serie di articoli che risvegliarono l’opinione pubblica. Più tardi, si scoprì che il primo responsabile (dal ’27 al ’57) della branca dedita ai bimbi in età scolare, il professore Alfred Siegfried, altro simpatizzante nazista, era stato rimosso dall’insegnamento per un caso di pedofilia. Dello stesso reato si macchiò, nel 1963, il suo successore Peter Döbel.

Riguardo a tali fatti, il cinema non ha taciuto. Al Festival di Locarno fu presentato Kinder der Landerstrasse (1992) di Urs Egger, co-produzione svizzera-tedesca-austriaca. Nebbia in Agosto (2016) del tedesco Kai Wessel fu premiato al Giffoni. A Venezia, si vide Dove cadono le ombre (2018) della nostra, compianta Valentina Pedicini. Adesso c’è Lubo, ispirato al bel romanzo d’esordio di Mario Cavatore, Il seminatore (2004). Diritti, con Fredo Valla e Tania Pedroni, ne riscrive l’intreccio, i personaggi, le atmosfere e i tempi, senza tradirne lo spirito e citando indirettamente alcuni passaggi, reinventandone in qualche modo la struttura composita. Di un libro di 150 pagine fa un film di tre ore.

Gli è stata rimproverata la minuziosità della prima parte, dilatata a dismisura, che devia bruscamente in una sezione troppo ellittica, per poi riannodare, in un modo ritenuto frettoloso, i vari elementi a conclusione. In realtà, Lubo è volutamente uno e trino: si svolge in tre differenti anni (1939, 1951, 1959) che mostrano, rispettivamente, un protagonista prima costretto in un abito non suo (quello del militare), dopo nei panni contraffatti di una nuova identità (un ricco mercante) e infine è sé stesso. Apre quindi con l’eroe eponimo, un formidabile Franz Rogowski straniato e straniante, in una piazza del mercato nel Canton dei Grigioni (Svizzera Orientale) mentre si esibisce travestito da orso. Dalla pelle dell’orso, l’uomo esce fuori truccato da donna; per ultimo, lo vediamo nelle sue vere sembianze. Si noti che nei Grigioni si parlano tre lingue (tedesco, italiano, romancio) e il film è in tedesco, in italiano e nella lingua del popolo jenisch.

Il regista rispetta la struttura del libro, anch’esso tripartito e “disperso” come il seme a cui si allude nel titolo. Si passa da La semina, a I frutti, fino a Il raccolto: titoli delle tre parti, che portano il lettore a sospendere la comprensione proprio come accade con il film. La prima ha un narratore; la seconda dà voce diaristica a Hans, il figlio rapito di Lubo; la terza è divisa in due lunghe lettere, del commissario Motti e del giovane Hugo, uno dei “frutti” del folle disegno del protagonista. Lubo, in contrapposizione al criminale progetto governativo, intende infatti inseminare quante più donne svizzere possibili. Sulle avventure erotiche il film non insiste troppo e nemmeno il libro, che descrive l’aumento esponenziale delle nascite nella confederazione svizzera in appena dieci righe a conclusione della prima parte.

Lubo ce l’ha con i gagé, i non zingari, quelli che lo hanno rovinato. “Gente che non sa né ridere né piangere, ipocriti senza onore e vigliacchi, sono, sembrano delle larve, e poi pretendono di insegnare agli altri come bisogna vivere”. Allo stesso tempo, il suo è un atto riparativo, d’amore. Vuole ripopolare dove il governo pretende recidere. Quando, nel film, la vedova Elsa (Noémi Besedes) sedotta da Lubo, sostenitrice di “Pro Juventute”, si dichiara a favore della pulizia etnica hitleriana (pur ammettendo di conoscere bravi ebrei) e di ogni misura che tolga di mezzo la gente “sporca e criminale”, l’uomo risponde che “la migliore educazione è amare”.

Certo, Lubo ha ucciso, con premeditazione, un altro uomo, il mercante Bruno Reiter (Joel Basman), custode di enormi ricchezze ebraiche, di cui l’omicida s’impossessa. Al commissario Motti (Christophe Sermet), che glielo rinfaccia, si giustifica dicendo che “eravamo in guerra”. Nel libro, si tratta di un percorso “obbligato dall’enormità del mondo in cammino”, un destino tracciato da una colpa originaria. Lubo vede in Bruno il gagiò responsabile dei suoi mali. Invece Giorgio Diritti suggerisce una logica alla Monsieur Verdoux (1947), il capolavoro di Chaplin, dove i delitti del protagonista appaiono ben poca cosa rispetto alle vittime di guerra e dello stato (a)sociale. Della Storia come organizzazione criminale.

In ogni caso, vige, in entrambi i testi, una certa consapevolezza della duplicità umana. Cavatore cita Alexis Carrel, francese a capo di una fondazione eugenetica durante il governo Vichy. In una nota, fa menzione di una sua dichiarazione: “La vita non consiste nel capire, ma nell’amare”, lo stesso concetto espresso da Lubo. Perché il regista ce lo presenta come orso? Il romanzo chiude con il commissario Motti che, davanti a foto di bimbi nudi, ha un’involontaria erezione, vergognandosene oltremodo. “Noi siamo come orsi ammaestrati, in secoli di addestramento abbiamo imparato a convivere, a rispettare le convenzioni, ma la bestia è rimasta, nel profondo”.

Di questa bestialità, Diritti è stato sempre consapevole. I primitivi occitani non accolgono bene lo straniero francese. Martina non viene discriminata soltanto dalle SS. E tuttavia esiste un’animalità positiva: lo stato di natura al quale fa ritorno Augusta, la condizione di libertà di Ligabue. Allo stesso modo, “la legge al di sopra di tutto”, di cui parla Cavatore, quella che ci impedisce di tornare “a vivere come orsi selvaggi”, si rende quasi sempre ottusa, criminale. Si mette al servizio di “un pazzo”, come Lubo definisce giustamente Hitler. Oppure pone barriere esclusivamente mentali. Lubo è un sotto-uomo da zingaro (di cui però lo stato si serve), un maschio seducente nelle vesti di ricco commerciante. E, da innamorato, nella parte conclusiva, quella in cui è più sé stesso, non può che essere scoperto e arrestato. Impossibile essere autentici.

All’amata Margherita (Valentina Bellè) impediscono la visita in carcere, in quanto né moglie né parente, benché madre di un figlio di lui. L’affetto è, per lo stato, solo una questione burocratica, come sapeva bene Flaubert, che in una lettera del 1845 scriveva di un’adultera bistrattata dalla società: “Ho avuto pietà per la bassezza di tutte quelle persone scatenate contro quella povera donna, solo perché aveva aperto le gambe ad un cazzo diverso da quello designato dal Signor Sindaco”. Quella donna era Louise Pradier, consorte di artista, che ispirerà allo scrittore francese il personaggio di Madame Bovary. Nel quale, com’è noto, lui stesso, eslege convinto, non poteva che identificarsi. Forse anche Giorgio Diritti affermerebbe che “Lubo c’est moi!”, al pari degli altri suoi personaggi oppressi.

Ecco allora che tutto viene osservato in un doppio aspetto. Il tono è contemplativo, minuzioso, dilatato, esplicito ma pure rapido, indiretto, lacunoso. Sempre partendo dal punto di vista del personaggio, il film è alternativamente arioso, claustrofobico, corale, individuale. L’autore dilata quanto il romanzo restringe, omette laddove la scrittura estende. L’aria aperta, tanto amata dal protagonista, assume un aspetto cupo se lo obbligano a indossare la divisa militare. Neve, montagne, laghi diventano notturni, impervi e minacciosi. Lubo è in prigione all’aperto. Lo è ancora da benestante, in vesti non sue. Quella civilizzazione risulta austera, lugubre e assassina. Le sue luci appaiono opache, artificiali. Dov’è la libertà? Nell’amore. Ma il figlio ritrovato odia il padre, lo ostacola con ostinata cattiveria.

In prigione, quella vera, Lubo finisce per suonare la fisarmonica senza emettere suono: momento emblematico di libertà negata e libertà ritrovata. Nel cortile, altri carcerati danzano in circolo, e la macchina da presa li riprende dall’alto, in una plongée vertiginosa. Anche Scorsese innalza il proprio punto di vista sugli indiani Osage a conclusione di Killers of the Flower Moon, opera anch’essa accusata di lunghezza, ripetitività, prolissità, manchevolezze, ritmo poco avvincente, climax latitante. Come se l’unica ragione di un film fosse lo spettacolo. E non ne avessimo abbastanza di finzione e spettacolarizzazione, dentro e fuori dal cinema.

Quell’immagine conclusiva innalza il punto di vista, sottraendolo ai canoni terrestri, alla Legge. Spezza l’a-tu-per-tu con lo spettatore, conducendolo in un altrove chiarificatore che consente di vedere da un’altra, alta prospettiva. Usciamo da noi e rientriamo in noi. Siamo uguali a Lubo, uguali gli Osage. Riusciamo ad osservarci come se lo sguardo non fosse più il nostro, come se a guardarci fosse il Potere, la Storia, riflettendoci nel nostro non essere, privati della libertà. Quello sguardo falsamente oggettivo e neppure soggettivo, spinto in un altrove delocalizzato, ci semina, ci abbandona.

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