di Paolo Arigotti
Il segretario di stato (leggi, ministro degli Esteri) degli USA, Anthony Blinken, ha tenuto lo scorso 13 settembre un discorso alla John Hopkins School of Advanced International Studies[1], considerato uno dei “templi” della strategia a stelle e strisce, nel quale, pur ribadendo l’avversione dell’Amministrazione Biden nei confronti della Russia, ha confermato che la maggiore sfida alla leadership (o dominio, se preferite) politica, economica e militare degli States è rappresentata, specie nel lungo periodo, dalla Cina; tenuto conto del livello di “autonomia” del quale godono gli “alleati” di Washington (pensiamo solo a Giappone o Europa, Italia in primis) è ovvio che questo messaggio rappresenta una sorta di “direttiva” non ufficiale per tutte le “province” dell’impero.
In sostanza, il cambio di “colore” dell’Amministrazione statunitense non sembra aver inciso più di tanto sull’orientamento politico di Washington, che già al tempo di Donald Trump aveva individuato nella Repubblica popolare il principale avversario, forse l’unico in grado di tenere testa e/o contrastare, per lo meno nel lungo periodo, i disegni egemonici di Washington e scardinare quella sorta di unipolarismo scaturito dalla fine della guerra fredda.
La potenza americana deriva innanzitutto da quella militare. Le forze armate USA sono stanziate in circa 170 paesi sparsi per l’intero globo, e sono almeno 76 gli stati che ospitano le circa 642 basi presenti nei quattro angoli del mondo[2]; per la cronaca nella nostra penisola le basi NATO sono 120, cui se ne aggiungerebbe una ventina di non ufficiali[3]. Gli Stati Uniti surclassano nettamente il resto del pianeta anche per quanto concerne la spesa militare: nel 2022 il budget di Washington ha toccato gli 876 miliardi di dollari, cifra da sola equivalente a quella stanziata da undici tra le più grandi nazioni: Cina, Russia, India, Arabia Saudita, Gran Bretagna, Germania, Francia, Corea del sud, Giappone, Ucraina e Canada.
Per Mohammed Abunahel, esperto di questioni militari: "Gli Stati Uniti tentano di giustificare queste basi come necessarie per la sicurezza nazionale e la stabilità globale”, giustificazione sempre meno credibile, tenuto conto di una serie di impatti negativi, a cominciare dai costi, sempre più evidenti. Per Abunahel lo stesso numero delle basi non è noto, in quanto la fonte principale di dati e notizie, vale a dire i rapporti del Dipartimento federale della Difesa, non brillano certo per trasparenza e attendibilità. Come ricorda ancora lo studioso, la principale funzione di queste strutture sarebbe quella di “… dispiegare truppe, condurre operazioni militari e proiettare la potenza militare statunitense in regioni chiave in tutto il mondo o per immagazzinare armi nucleari”, il che sarebbe all’origine di molta dell’instabilità che affligge diverse parti del globo, tenuto conto che proprio grazie a tali dispiegamenti è stato possibile avviare e/o supportare una serie di operazioni militari[4].
Ricordiamo per incidens che assieme alla forza militare, l’altro elemento che tradizionalmente viene ritenuto chiave di volta per l’egemonia americana è stata la valuta, considerato che il dollaro ha finora rappresentato (e continuerà a farlo, almeno per il momento) lo strumento di regolazione di tutte le transazioni internazionali di un qualche rilievo; una prima e parziale scalfittura di tale primato viene individuata da diversi analisti nella prassi, recentemente invalsa, di regolare gli scambi con altre divise, a cominciare da quella cinese[5], mentre per ora sembra non decollare il progetto di una valuta comune dei BRICS[6].
Quanto detto finora non deve far pensare che l’egemonia americana e/o l’importanza geopolitica e strategica, anche in senso economico, di Washington debba per forza farsi coincidere con la fine della guerra fredda.
Furono i primi anni Quaranta, in particolare l’ingresso nella Seconda guerra mondiale, a rappresentare una sorta di spartiacque nella storia americana e planetaria, visto che fino a quel momento – come vedremo – l’industria militare statunitense non aveva mai raggiunto un tale grado di sviluppo, e soprattutto una tale mole di investimenti, in termini umani e finanziari. Da quel momento in poi, al contrario, la spesa militare sarebbe stata vista sempre di più come un modo per "iniettare nuova forza nell'intera economia", con un’estensione della stessa dottrina successivamente al resto dell’“impero”, col pieno sostegno di Wall Street[7], che parlò di un keynesismo militare internazionale. Un pensiero che sarebbe divenuto quello ufficiale del Pentagono nei decenni a venire.
In effetti, come ricordava su Limes Federico Petroni: “Non si ricorda a sufficienza che la macchina produttiva impiegò circa due anni dopo Pearl Harbor per andare a regime. E si parlava di una società industriale, di operai, peraltro largamente sottoutilizzata a causa della Grande depressione. Niente a che vedere con l’America moderna.”[8]
Tuttavia, la crescita esponenziale e inarrestabile del complesso militare e industriale americano – inteso come quella commistione di interessi e affari tra grandi apparati produttivi, ambienti politici e forze armate, avviata a partire da quel momento – non fu avvertita da tutti come un’opportunità, specie di fronte al crescere dell’influenza politica di questo enorme centro di potere.
Esiste un documento, datato 1961, che ne offre una testimonianza importante, ed è al di sopra di ogni sospetto visto che si tratta del discorso di commiato pronunciato quell’anno in televisione dal presidente Dwight Eisenhower[9]. Colui che era stato comandante in capo delle forze alleate in Europa nel secondo conflitto mondiale, chiudeva i suoi otto anni alla Casa Bianca mettendo in guardia il suo popolo contro i pericoli di un crescente "complesso militare-industriale", esprimendo il suo favore per una linea ispirata alla pace e al disarmo, in ossequio col suo orientamento conservatore, incline al contenimento della spesa pubblica.
Riprendiamone alcuni dei passaggi più significativi per il nostro tema. Eisenhower pur riconoscendo che “l'America è oggi la nazione più forte, influente e più produttiva del mondo”, ricordava che “la leadership e il prestigio dell'America dipendono non solo dal nostro progresso materiale senza pari, dalla ricchezza e dalla forza militare, ma da come usiamo il nostro potere nell'interesse della pace mondiale e del miglioramento umano”. E ancora: “qualsiasi fallimento riconducibile all'arroganza, o alla nostra mancanza di comprensione, o alla disponibilità al sacrificio ci infliggerebbe un grave dolore, sia in patria che all'estero”, pur ammettendo che lo “stabilimento militare” fosse fondamentale per conservare la pace. Il presidente uscente, inoltre, ricordava che la necessità di dare vita a una “industria di armamenti permanente di vaste proporzioni” era scaturita dal fatto che fino all’ultimo conflitto mondiale gli Stati Uniti non ne possedevano una di tali dimensioni, col colossale investimento in termini di denaro e risorse umane che ne era derivato. Nonostante ciò, il presidente diceva di essere consapevole delle gravi implicazioni scaturite dal fatto che – e qui citiamo nuovamente – “nei consigli di governo, dobbiamo guardarci dall'acquisizione di un'influenza ingiustificata, cercata o meno, dal complesso militare-industriale.
Il potenziale per il disastroso aumento del potere fuori luogo esiste e persisterà. Non dobbiamo mai lasciare che il peso di questa combinazione metta in pericolo le nostre libertà o i processi democratici. Non dovremmo dare nulla per scontato. Solo una cittadinanza attenta e ben informata può obbligare a unire adeguatamente l'enorme apparato di difesa industriale e militare con i nostri metodi e obiettivi pacifici, in modo che la sicurezza e la libertà possano prosperare insieme”.
Un simile discorso pronunciato da un uomo che la guerra l’aveva fatta e vista in prima persona, e che era stato alla guida della nazione in un periodo storico tanto delicato, non era certo cosa da poco.
Eppure, le ultime dichiarazioni ufficiali del presidente uscente sarebbero state a lungo accantonate e dimenticate e non solo perché, parlando in termini generali e culturali, la lobby delle armi resti una delle più forti in America (assieme a quella ebraica[10]), a cominciare dal settore “privato”[11] [12] [13]. Prova ne è il fatto che i consigli e le esortazioni di Eisenhower non sono state seguite dai suoi successori e dalle élite che reggono e indirizzano le sorti della maggiore potenza mondiale (e dei suoi accoliti). I numeri che abbiamo snocciolato all’inizio parlano da soli.
Al contrario, quell’enorme e potente complesso, cui si riferiva Eisenhower, ha assunto nel tempo sempre maggiore rilevanza, con tutte le implicazioni geopolitiche che ciò ha comportato, spesso al di fuori dei confini degli States.
Le industrie degli armamenti, come accennavamo, sono legate a doppio filo con la politica e le forze armate, in grado di esercitare enormi pressioni sui due maggiori partiti. Prova ne sia che i politici che si oppongono ai loro interessi non sono destinati a grandi fortune, più o meno come coloro che non sposino senza riserve le ragioni dello stato d’Israele. E questo senza voler per forza addentrarsi nel merito di oscuri disegni – per esempio il famoso regista Oliver Stone, in suo film, sostenne la tesi che il presidente John F. Kennedy fosse stato assassinato per volontà del complesso militare industriale a causa della sua contrarietà al conflitto in Vietnam – ma limitandoci a una semplice constatazione: chi tentasse negli Stati Uniti (e non solo) di opporsi ai maggiori finanziatori della sua carriera andrebbe incontro a un rapido e inesorabile “pensionamento anticipato”.
Gli intrecci tra politica e mondo della produzione delle armi non sono prerogativa esclusiva degli statunitensi. Il ministero dell’Economia e delle finanze italiano detiene circa un terzo del pacchetto azionario di Leonardo, e il nostro paese figura nella top ten degli esportatori mondiali di armi. Anche la Francia fa la sua parte, dato che Parigi possiede circa un quarto di Thales; stesso discorso vale per la Indra Sistemas, il 18,7 per cento della quale è della Sociedad Estatal de Participaciones Industriales, una controllata del ministero del Tesoro spagnolo.
Non si discosta la Russia, il cui conglomerato Almaz-Antey si trova in mani fidate per il Cremlino, figurando tra le prime venti industrie di produzione militare del mondo, e coprendo circa un quinto della manifattura russa, con un comparto che, per volume di esportazioni, è secondo solo agli Stati Uniti. In Cina, dove chiaramente l’industria militare è in mano pubblica, la produzione sembra per ora quasi esclusivamente orientata verso il mercato interno.
Resta, però, il fatto che nessuno di questi paesi (pure messi assieme) rappresenta da solo il 40 per cento della spesa militare mondiale, così come è significativo il dato – riferito al primo ventennio del XXI secolo – in base al quale il maggior rialzo in borsa è stato appannaggio delle industrie degli armamenti a stelle e strisce. Inoltre, nel settore della difesa USA un ruolo preponderante lo giocano i grandi fondi di investimento (come BlackRock, Vanguard, Fidelity Investments, Wellington Management e Capital Group), che comprano quote di asset strategici tanto americani, quanto europei (per esempio il 13,77% di Airbus e il 13,86% della rivale Boeing sono in mano loro). E poi, come nota sempre Federico Petroni: “È vero che le Forze armate hanno l’abitudine a gonfiare la pericolosità del nemico per ottenere più fondi”, ultimamente facendo leva anche su fattori come la carenza di terre rare, sulle quali la Cina, l’avversario strategico per eccellenza, detiene un indubbio primato (il 78 per cento dell’import arriva da Pechino).
Ancora Petroni scrive che: “Dagli anni Novanta in poi, si è assistito a un forte consolidamento: le società principali sono passate da 51 a 5 (Raytheon, Lockheed Martin, General Dynamics, Boeing e Northrop Grumman). Nel 2020, queste ultime si sono spartitetra loro il 36% di tutti i contratti con il Pentagono, una crescita del 71% rispetto al 2015.” Ergo esiste una situazione di oligopolio, che però non è in grado di soddisfare le esigenze del Pentagono, specie di fronte alla prospettiva di conflitti prolungati e con avversari di un certo rilievo (con un chiaro riferimento alla Cina).
Ora, sempre trascurando scenari poco trasparenti, è di tutta evidenza che l’insieme di queste dinamiche ed elementi possa giustificare più di una riserva sulla funzionalità del mercato e sugli interessi realmente perseguiti da quei pochi attori che possiedono potere e influenze tali da imporre serie ipoteche su qualunque scelta politica ispirata alla pace e al disarmo che, almeno a parole, molti successori di Eisenhower hanno dichiarato di perseguire.
E resta ancora un elemento da considerare, che è di storia e attualità allo stesso tempo. Le guerre portano da sempre morte e devastazione, e su questo non possono esistere dubbi di sorta, ma producono anche altri effetti, sia quando scoppiano (alimentando la produzione bellica), che quando finiscono (con la fase della ricostruzione e della ripresa).
Tanto la prima, che la seconda fase, difatti, contribuiscono a dare uno slancio all’economia di un paese, paradossalmente sia che parliamo delle nazioni vincitrici, che di quelle sconfitte.
Una prova lampante di questa affermazione viene dalla Seconda guerra mondiale, che da un lato consentì lo sviluppo economico e industriale collegato alla fase bellica – facendo uscire definitivamente dalla crisi del ’29 gli Stati Uniti (ma lo stesso discorso si potrebbe fare per la Germania, almeno nella fase preparatoria e nei primi anni del conflitto); dall’altro, con la sua conclusione, la guerra gettò le basi per la ricostruzione e la ripresa economica, che fu appannaggio degli USA, ma anche degli europei, compresi gli sconfitti (pensiamo nuovamente alla Germania). Inoltre, l’industria bellica può essere foriera di innovazioni importanti, pensiamo solo alla nascita di Internet, oltre alla presunta longa manus del complesso militare industriale e dell’intelligence americana dietro la nascita di Google[14].
Si badi bene che non abbiamo con questo la benché minima intenzione di fare un elogio della guerra, che porta solo morte e distruzione, spesso ai danni dei più fragili e indifesi; la stessa tesi circa un presunto aumento dell’occupazione collegato alla vicenda bellica si rivela per lo più contingente: al contrario, chiuse le ostilità, si può creare una forte disoccupazione che investe i reduci e gli occupati nei settori collegati allo sforzo bellico, senza considerare morti e invalidi permanenti.
L’unico significato che vorremmo imprimere alle affermazioni che precedono è quello di evidenziare come l’evento bellico possa suscitare gli interessi e gli “appetiti” di coloro – parliamo chiaramente di un’esigua minoranza – che vi intravvedono un’importante opportunità per accrescere potere e guadagno (a spese di chi, poco importa).
Tenuto conto che ci hanno tormentato (e si apprestano a farlo ancora) con l’equilibrio dei conti pubblici, ricorrendo a parametri più o meno convincenti, occorre tener conto anche i riflessi del settore militare sui bilanci statali. Cominciamo appunto dalla prima economia del pianeta: il debito pubblico americano a inizio millennio ammontava a circa 3.500 miliardi di dollari (più o meno il 35 per cento del PIL), mentre nel 2022 sfiorava i 24mila miliardi di dollari, raggiungendo il 95 per cento del prodotto interno lordo. Questa crescita esponenziale, all’origine della recentissima crisi politica sul bilancio federale, può essere ricondotta, in larghissima parte, proprio all’aumento altrettanto vertiginoso della spesa per la difesa. E ricordiamo che, per non farci mancare niente, i nostri maggiori “alleati” avanzano ora la pretesa che pure gli europei imbocchino lo stesso percorso, chiedendo che il budget per la difesa arrivi al 2 per cento del PIL dei singoli stati (e già si parla del 3[15]).
L’Italia attualmente è all’1,46, ed è stato calcolato che per arrivare al famoso 2 servirebbero più di 40 miliardi di euro, con un aumento di circa undici (lasciamo a voi ogni considerazione; per la cronaca i tagli alla sanità pubblica nel secondo decennio del secolo sono stati stimati in 37 miliardi). Diceva Henry Kissinger che: “Essere un nemico degli Stati Uniti è pericoloso, ma essere un amico è fatale”, e come dargli torto…
E lo stesso discorso vale anche per il Regno Unito, considerato il maggiore alleato continentale di Washington[16]: scriveva il giornalista britannico Andrew Cockburn che: “Se comprendiamo che il complesso industriale militare esiste esclusivamente per sostenersi e crescere, diventa più facile dare un senso alla corruzione, alla cattiva gestione e alla guerra”[17].
E a chi volesse tirare in ballo, per giustificare questo trend nei conti pubblici, la crisi economica di inizio secolo e la pandemia risponde l’americano Watson Institute della Brown University, che ha stimato in 8mila miliardi di dollari il costo delle guerre; parliamo di oltre la metà del debito accumulato da inizio secolo, mentre i restanti 7mila miliardi sarebbero riconducibili ai disavanzi di bilancio provocati dalla crisi finanziaria del 2008 e dal Covid-19[18]. Se la matematica non è un’opinione, cos’ha contribuito di più alla crescita del debito? E se gli europei seguissero l’esempio americano, che fine farebbero?
Per farla breve, non solo la fine della guerra fredda non ha contribuito a contenere l’espansione dell’industria degli armamenti, ma si è assistito a una sua crescita ancora maggiore, con tutte le conseguenze che abbiamo visto.
Ci si potrebbe chiedere se esistano, in America come altrove, dei parlamentari che si oppongano a questa tendenza. La risposta per gli USA ce la fornisce l’ufficio studi del Congresso[19]: “la spesa per la Difesa incide sui distretti di tutti i membri del Congresso, attraverso le attività, tra le altre, di pagamento di salari o pensioni per militari ed ex militari, gli effetti economici e ambientali delle basi militari o la fabbricazione di sistemi o parti d’arma. Solo un deputato molto coraggioso potrebbe votare oggi contro la lobby dell’industria militare, e il coraggio non è certo una caratteristica del Congresso.”
Evidentemente la stessa opinione pubblica non viene tenuta in grande considerazione nei paesi democratici. Gli ultimi sondaggi (riferiti al conflitto in Ucraina) riportano che la maggioranza dei cittadini statunitensi vorrebbe un minore coinvolgimento del loro paese, e chissà cos’altro direbbero se molti di loro approfondissero meglio certi fatti.
Magari una risposta alla ritrosia nel prestare attenzione ai desideri dei cittadini ci potrebbe venire dalla guerra in Afghanistan, una delle tante batoste prese dall’America. In quel contesto, se un vincitore ci fosse stato, sarebbe da individuare nel famoso complesso industriale militare, visto che è stato calcolato che in cerca venti anni di guerra nel paese asiatico cinque tra le cinque maggiori aziende statunitensi produttrici di armi - Lockheed Martin, Raytheon, General Dynamics, Boeing e Northrop Grunman – si sarebbero assicurate proventi per circa due trilioni di dollari (ricordiamo che un trilione equivale a un miliardo di miliardi, fate voi i conti)[20].
A questo punto, sarebbe legittimo concludere che molti dei teatri conflittuali consumatisi o in corso di svolgimento nell’ultimo quarto di secolo hanno ben poco a che vedere con i vari slogan, diversi dei quali rivelatisi “farlocchi” (pensiamo a una certa provetta) che ci sono stati propinati, dall’esportazione della democrazia in poi.
Una serie di interessi colossali, a cominciare da quelli del famoso complesso militare industriale, condizionano le scelte politiche, andando all’occorrenza contro la volontà popolare, che più che “indirizzata”[21] dovrebbe essere meglio informata, spesso aggirando anche il mantra dei “conti in ordine”. L’onnipotente lobby militare industriale della quale parlava circa sessant’anni fa Eisenhower ha un peso molto rilevante, anche perché pur interessando in prima battuta gli Stati Uniti, finisce per condizionare il resto del mondo, a cominciare dai suoi satelliti.
Non a caso, la primavera scorsa il Parlamento europeo ha dato parere favorevole alla proposta della Commissione (il cosiddetto Act in Support of Ammunition Production), che contempla uno stanziamento di 500 milioni di euro per aumentare la capacità produttiva europea di munizioni e missili, a fronte del depauperamento delle riserve dovuto agli aiuti all’Ucraina; misure cui si aggiungono quelle varate dai singoli governi[22].
Come riportava qualche mese fa l’Antidiplomatico[23]: “nel cuore della UE, accanto ai palazzi della Commissione a Bruxelles, si trova la sede dell’Aerospace and Defence Industries Association of Europe (ASD). È l’associazione di categoria che riunisce 3 mila imprese del settore di 17 diversi paesi, e indirizza le decisioni di tutta la UE. Dell’ASD fanno parte anche sigle nazionali, tra cui l’italiana AIAD, la federazione del comparto militare appartenente a Confindustria e di cui era a capo Guido Crosetto prima della nomina a ministro della Difesa.”
In conclusione, vorremmo chiarire una cosa, riferendoci specificamente all’Italia (uno dei famosi “satelliti”). Constatare l’esistenza di certe dinamiche di potere, all’interno delle quali il nostro paese è stabilmente inserito, non significa affatto affrancare la nostra classe dirigente da ogni la responsabilità politica: sarebbe un alibi fin troppo comodo.
Molti “mali” sono imputabili a un ceto dirigente non sempre all’altezza del suo compito, ma anche a un elettorato che preferisce la lamentela, i piccoli favori e/o l’astensione all’impegno attivo e concreto.
Il che non toglie che il problema dell’influenza di questi famosi complessi esiste e deve essere attenzionato come merita. Anche perché qui c’è in gioco il nostro futuro. E, forse, quello del mondo intero.
C’era chi affermava che la guerra fosse la continuazione della politica con altri mezzi: si potrebbe replicare che esistono mezzi alternativi, e assai più efficaci, il problema è che probabilmente non solo altrettanto redditizi.
FONTI
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www.thirdworldtraveler.com/Chomsky/PentagonSystem_Chom.html
it.alphahistory.com/guerra-fredda/dwight-eisenhowers-discorso-d%27addio-1961/
www.huffingtonpost.it/blog/2023/07/11/news/politica_americana_e_lobby_delle_armi-12643193/
Com’è nata la cultura delle armi negli USA (e perché non scomparirà) – Canale YouTube Nova Lectio (link: www.youtube.com/watch?v=VpFIdyfBHqA&t=5s)
www.avvenire.it/opinioni/pagine/perch-negli-usa-cos-difficile-introdurre-dei-limiti-per-le-armi
www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2023/04/19/la-strategia-usa-del-xxi-secolo-e-la-guerra-incentrata-sulla-rete/7134725/
storiaglocale.com/il-complesso-militare-industriale-degli-usa/
www.genteeterritorio.it/il-complesso-militare-industriale-dietro-le-guerre/
istitutoliberale.it/tag/complesso-militare-industriale/
www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2023/05/24/la-lobby-di-guerrae-gli-usa-in-ostaggio/7171027/
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www.limesonline.com/il-complesso-militare-industriale-usa-e-il-brexit/93153
formiche.net/2023/06/difesa-europa-industria/
[1] www.ilriformista.it/lepocale-discorso-del-segretario-di-stato-usa-antony-blinken-insieme-costruiremo-un-nuovo-ordine-mondiale-382050/
[2] www.geopop.it/dove-si-trovano-e-quante-sono-le-basi-militari-americane-e-i-soldati-usa-nel-mondo
[3] www.rainews.it/articoli/2022/06/le-basi-americane-della-nato-in-italia-da-sigonella-a-vicenza-2fdd797a-3941-43a9-afcd-ba5597eab4e1.html
[4] worldbeyondwar.org/it/unveiling-the-shadows-uncovering-the-realities-of-u-s-overseas-military-bases-in-2023/
[5] www.editorialedomani.it/politica/mondo/xi-rafforza-gli-scambi-energetici-con-i-paesi-arabi-ma-in-cambio-chiede-yuan-eao8kti5
[6] www.ilsole24ore.com/art/i-brics-crescono-e-cercano-via-la-valuta-comune-ma-sono-ancora-lontano-AFGYgce?refresh_ce=1
[7] www.thirdworldtraveler.com/Chomsky/PentagonSystem_Chom.html
[8] www.limesonline.com/rubrica/fiamme-americane-usa-cina-munizioni-industria-difesa-indo-pacifico-ucraina
[9] it.alphahistory.com/guerra-fredda/dwight-eisenhowers-discorso-d%27addio-1961/
[10] www.lantidiplomatico.it/dettnews-la_lobby_israeliana_e_gli_stati_uniti_damerica/49440_51292/
[11] www.huffingtonpost.it/blog/2023/07/11/news/politica_americana_e_lobby_delle_armi-12643193/
[12] www.youtube.com/watch?v=VpFIdyfBHqA&t=2s (Nova Lectio) “Com’è nata la CULTURA DELLE ARMI negli USA (e perché non scomparirà)”
[13] www.avvenire.it/opinioni/pagine/perch-negli-usa-cos-difficile-introdurre-dei-limiti-per-le-armi
[14] www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2023/04/19/la-strategia-usa-del-xxi-secolo-e-la-guerra-incentrata-sulla-rete/7134725/
[15] formiche.net/2023/06/estonia-baltici-nato-kolga/
[16] www.limesonline.com/il-complesso-militare-industriale-usa-e-il-brexit/93153
[17] www.lantidiplomatico.it/dettnews-in_afghanistan_il_vero_vincitore__il_complesso_militareindustriale_usa/5871_42800/
[18] www.antimafiaduemila.com/home/terzo-millennio/231-guerre/95675-la-lobby-di-guerra-e-gli-usa-in-ostaggio.html; watson.brown.edu/costsofwar/
[19] www.antimafiaduemila.com/home/terzo-millennio/231-guerre/95675-la-lobby-di-guerra-e-gli-usa-in-ostaggio.html
[20] www.lantidiplomatico.it/dettnews-in_afghanistan_il_vero_vincitore__il_complesso_militareindustriale_usa/5871_42800/
[21] Per il ruolo del Pentagono nel finanziamento di una serie di pellicole si legga: www.lindipendente.online/2022/02/19/hollywood-e-il-pentagono-il-complesso-militare-culturale-della-supremazia-usa/#:~:text=La%20risposta%20%C3%A8%3A%20il%20Pentagono
[22] formiche.net/2023/06/difesa-europa-industria/
[23] www.lantidiplomatico.it/dettnews-complesso_militare_industriale_ecco_chi_beneficer_del_riarmo_europeo/11_49974/
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