di Francesco Santoianni
Sono, ormai migliaia gli attivisti (per le più svariate cause) che, come me, in questi giorni, da Facebook stanno trasmigrando su VK (la risposta russa a Facebook). Il motivo? Intanto, perché vogliono protestare contro una campagna maccartista che sta cancellando da Facebook pagine e gruppi di politici e organizzazioni. Oppure perché sono stati buttati fuori e non più riammessi perché non rispettano gli standard o addirittura “incitano all’odio”.
Si, ma questi “standard” sono stati imposti solo nell’ultimo anno, con gli utenti italiani arrivati a più di 30 milioni. Fosse stato Facebook un club privato che, da sempre, accettava solo soci selezionati, si potrebbe anche capire; ma buttare fuori, oggi, centinaia di migliaia o milioni di persone, le cui opinioni – qualunque sia il giudizio su di esse – non costituiscono reato (ma sono soltanto difformi dal Pensiero Unico, dettato oggi dai Savonarola di Zuckerberg) è inammissibile. E sarebbe il caso che qualcuno in Parlamento cominciasse ad occuparsi di questo.
Ma poi, cosa sarebbe questo “odio”? Come distinguerlo da frustrazione, esasperazione, rabbia, (più o meno giusta) indignazione…? Come meglio specificato in questo splendido articolo, la distinzione passa dalla interpretazione dell’osservatore. Sicché menzionarlo serve a procurare un allarme, a produrre nei destinatari una percezione di pericolo. Serve a «fare presto» in deroga alle cautele del diritto e assicurarsi così una serie di comfort dialettici. Perché l’attribuzione dell’odio squalifica il presunto odiatore al rango di persona irrazionale, e quindi rende superflua la comprensione dei suoi moventi (che in ogni caso sarebbero inesistenti, pretestuosi, patologici o dettati dall'ignoranza), e quindi lo esclude giustificatamente dal diritto di manifestare il proprio pensiero.
E tutto questo mentre sui social impazzano, liberamente, campagne di odio sapientemente organizzate. Ma sulle infamie di chi diffonde odio per suscitare nuove guerre ne abbiamo già parlato.
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