Cosa sta accadendo in Israele (e le conseguenze per la questione palestinese)
Lo scontro all’interno di Israele pare che sia arrivato a un punto di svolta. Netanyahu sembra che abbia iniziato a cedere alle pressioni crescenti contro la sua riforma giudiziaria, che appaiono ormai insostenibili. Anche il presidente Herzog, che aveva già invitato a trovare un compromesso, è sceso in campo in maniera durissima, chiedendo di sospendere “immediatamente” la riforma.
Le ondate massive di manifestazioni, gli scioperi, che stanno praticamente paralizzando il Paese, la presa di posizione dei riservisti dell’esercito, che hanno dichiarato la loro indisponibilità al servizio se la riforma fosse varata, le pressioni Usa…
Il momento rivoluzionario israeliano e quello mediorientale
È forse troppo anche per il mago israeliano, che pure sta resistendo allo stremo, tanto da arrivare a licenziare il ministro della Difesa che aveva dichiarato la sua avversione alla riforma.
Anche perché il feroce scontro interno avviene mentre, intorno a Israele, in Medio oriente sta attraversando un momento rivoluzionario che ha dato vita a un processo distensivo nel quale vengono riallacciati gli antichi vincoli di fratellanza tra i Paesi arabi, divisi da anni di conflitti.
Un processo che manda in fumo decenni di attivismo israeliano per dividere i propri vicini, iniziativa politica che ha permesso a Tel Aviv di cavalcare e gestire le tante conflittualità del mondo arabo.
Un momento rivoluzionario che tanti in Israele percepiscono come una sfida nuova, se non come una minaccia, che il Paese non può permettersi di affrontare in una situazione tanto caotica.
Ed è forse questo il motivo per cui Netanyahu potrebbe cedere, perché tale processo disgregativo del Medio oriente ha avuto in “re Bibi” il primo motore immobile, grazie ai tanti anni in cui si è trovato a gestire la stanza dei bottoni e le leve del comando sia dell’esercito che dell’intelligence israeliani.
Certo, a Netanyahu resta la paura di finire in prigione, dato che tanti dei suoi antagonisti ritengono che debba essere quello il suo destino ultimo, anche per evitare che un giorno possa tornare in auge. Ma in un compromesso generale potrebbe eludere tale sorte avversa.
Così, nelle ultime ore si susseguono voci su una possibile pausa del varo della riforma e sulla possibilità che si aprano vie al compromesso. Ma sebbene Netanyahu sembra aver rispolverato il suo antico pragmatismo, deve vedersela con i suoi alleati di governo. Le forze estreme, indispensabili per la tenuta della coalizione, minacciano di abbandonarlo al suo destino.
Lo scontro all’arma bianca che si sta consumando nella politica e nella società israeliana viene connotato come una lotta per la libertà e la democrazia, sia dalle forze di governo, che accusano la magistratura di voler mette in atto un colpo di Stato giudiziario, e in maniera più credibile dalle opposizioni, che vedono nelle iniziative del governo e nella sua stessa connotazione estrema un pericolo per le libertà fondamentali dei cittadini.
La liberta, la dittatura e i palestinesi
Resta che ambedue gli schieramenti hanno un approccio analogo rispetto alla questione palestinese, benché modulato in maniera diversa, così che certe affermazioni libertarie degli oppositori, benché legittime e condivisibili, assumono significati bizzarri alle orecchie dei palestinesi.
Questo il commento della Landmann: “L’ex capo dei servizi di sicurezza di un paese che gestisce una dittatura militare nei territori occupati e che controlla con la forza un altro popolo da quasi sei decenni, predica contro la dittatura. Questo fatto testimonia l’affermazione che ‘il mondo è impazzito’ non meno del fatto che Itamar Ben-Gvir [leader di un partito estremo ndr] sia ministro della Sicurezza nazionale”.
“Il fatto che i generali che hanno gestito l’occupazione israeliana da generazioni siano in prima linea nelle proteste per salvare la democrazia e parlino come esperti in dittature deve avere un significato su cui vale la pena riflettere”.
Secondo la Landmann tale anelito alla libertà servirebbe a militari, politici e agenti dell’intelligence, che hanno partecipato in vario modo al regime dittatoriale imposto ai palestinesi, di ripulire la propria immagine e per difendersi dalle accuse mosse contro di essi dall’opinione pubblica dei Paesi occidentali e dai tribunali internazionali.
Non sappiamo se sia così, quel che è certa è la palese contraddizione che la cronista mette in luce. E, certo, si può legittimamente sperare che tale anelito alla libertà, se vincente, abbia conseguenze anche nel complesso ambito dei rapporti con i palestinesi. Ma è altrettanto legittimo dubitare che ciò avvenga. Vedremo.