Duterte e la strategia multipolare che agita Washington
Il 30 Maggio 2016 il parlamento di Manila ha nominato Rodrigo Roa Duterte 16esimo presidente delle Filippine grazie alla vittoria elettorale sul rivale Mar Roxas con oltre sette milioni di voti. Nato a Maasin 71 anni fa, Duterte ha una lunga carriera nell’amministrazione pubblica avendo servito da sindaco della città di Davoa per più di ventidue anni, con sette mandati. La cavalcata elettorale di Duterte, divenuta un vero e proprio trionfo, deve molto al sentimento anti-establishment sempre più diffuso tra la popolazione mondiale in maniera trasversale. L’estraneità di Duterte dalla classe politica dominante di Manila degli ultimi vent’anni anni ha garantito una vittoria inaspettata.
Un aspetto fondamentale, legato al successo che ha accompagnato il nuovo presidente, riguarda il programma elettorale. Quattro pilastri principali, semplici ed efficaci:
- Lotta allo spaccio di droga e alla micro-criminalità (una vera piaga sociale che sta divorando la nazione)
- Politica estera indipendente e vantaggiosa per Manila (non anteponendo gli interessi di Washington);
- Favorire le condizioni necessarie per una rapida e sostenibile ripresa economica
- Eradicazione dell’organizzazione terroristica Abu Sayyaf.
Dalla vittoria di Duterte si assiste ad una crescente tensione tra Manila e Washington. Prevedibilmente, i quattro punti contrastano apertamente con gli obiettivi strategici di Washington nella regione. Gli Stati Uniti vorrebbero contenere la crescente influenza Cinese ma senza i preziosi alleati tradizionali, Giappone e Filippine in particolare, il compito già difficile pare irrealizzabile. In tal senso non dovrebbe stupire più di tanto l'atteggiamento di Manila, ansioso di ripianare divergenze storiche e tensioni recenti con Pechino.
L’Economia come mezzo per una transizione Multipolare
Il primo passo verso una ristrutturazione economica del paese non può prescindere da una piena collaborazione con la Repubblica Popolare Cinese. In tal senso, ancor prima di essere eletto, Duterte proponeva di cessare i pattugliamenti congiunti con la US Navy nel mar cinese del Sud Est in cambio della costruzione di una ferrovia ad alta velocità nel paese. Per Pechino, la proposta Filippina rientra pienamente nell’ottica di una strategia win-win che i Cinesi promuovono costantemente con la loro azione diplomatica. Ridurre le frizioni regionali alimentate da un attore esterno (USA) al fine di aumentare la cooperazione industriale producendo prosperità economica. Il progetto di costruire ferrovie ad alta velocità sposa completamente questo piano d’azione e potrebbe rappresentare un nuovo assetto degli equilibri politici nella regione.
La piattaforma preposta, per attivare la richiesta di Manila è la banca d’investimenti denominati AIIB (Asian Infrastructure Investment Bank), recentemente entrata in funzione dopo anni di confronti tra paesi fondatori. La particolarità di questa organizzazione economica riguarda i meccanismi di approvazione degli investimenti. Una clausola ben specifica firmata da tutti gli aderenti impedisce strumentalizzazioni politiche dei progetti finanziati, elemento fondamentale per evitare intromissioni esterne, miranti ad inficiare il processo di sviluppo infrastrutturale Asiatico, perno centrale dell’AIIB.
Lo scoglio maggiore da superare resta la ratifica finale nel Senato di Manila in merito alla partecipazione delle Filippine all’AIIB. In termini specifici occorre un voto con maggioranza dei due terzi dei Senatori al fine di ottenere il via libera all’uso domestico degli accordi internazionali siglati dalla banca di investimenti infrastrutturali.
Il terrorismo come mezzo di pressione ed influenza.
Come è evidente, in termini (geo)politici e strategici, il famoso pivot di Obama crea più di un problema per Manila in ottica di una politica estera indipendente, vantaggiosa e basata sulla cooperazione con Pechino.
In svariati contesti uno degli strumenti più inflazionati e utilizzati dagli Stati Uniti, per minacciare e destabilizzare nazioni strategicamente significative come le Filippine, riguarda l’uso del terrorismo. Dagli anni ‘80 ad oggi, l’islamismo radicale è passato da località confinate in aree ben specifiche, ad ogni angolo del pianeta, Filippine incluse. Si potrebbe affermare, senza timori di essere smentiti, che l’espansione del terrorismo islamico sia coinciso con le crescenti aspirazioni egemoniche globale di Washington. L’esempio dell’organizzazione Abu Sayyaf è pertinente e chiarificatrice.
Radicata nel sud delle Filippine, è una formazione islamista fondata da membri Afghani dei Freedom Fighters (talebani) di Reaganiana memoria e addestrati successivamente da Al Qaeda negli anni 2000. Operano da più di un ventennio e mirano all'indipendenza territoriale da Manila, tipico e rinomato espediente americano per mettere pressione a governi stranieri.
Duterte manda a monte i piani Americani.
Duterte ha annunciato un imminente sforzo anti-terrorismo diretto verso l’islamismo militante di Abu Sayyaf. Le particolarità della soluzione adottata dal nuovo presidente hanno mandato su tutte le furie Washington: le truppe americane saranno costrette ad abbandonare temporaneamente le loro basi militare nel sud del paese. Quando e come rientreranno sarà anch’esso parte di una negoziazione che dovrebbe ridefinire la collaborazione strategica tra Washington e Manila.
In un recente incontro a New York tra il ministro degli esteri Filippino e il Center for Strategic & International Studies (CSIS), Perfecto Yasay Jr ha spiegato che vi è un grosso rischio nel riuscire a garantire protezione e sicurezza per le truppe USA durante le operazioni militari. Naturalmente è solo una scusa diplomatica, il vero motivo è ben più profondo e legato in maniera intrinseca alla strategia americana di usare il terrorismo per propri fini geostrategici. Manila è consapevole che lo sforzo contro Abu Sayyaf avverrebbe in maniera più efficace senza la presenza ingombrante degli Stati Uniti. In altre parole Duterte non si fida di Washington ed è consapevole che i terroristi beneficerebbero dalla presenza americana.
Una rivoluzione inarrestabile.
In pochi mesi le Filippine sono passate da storica avanguardia di Washington nel Pacifico (cinque basi USA), ad uno dei paesi più ansiosi di ricucire i rapporti con Pechino. L’ennesimo tassello nella trasformazione che lentamente sta rimodellando gli scenari globali: dal dominio unipolare degli Stati Uniti ad un contesto pienamente multipolare ove interessi regionali non vengono sopravanzati dalla necessità di imporre un’egemonia globale. Dalle parole e dalle promesse di Duterte, si apprende chiaramente come le filippine non abbiano intenzione di rompere con Washington gravitando nel campo dei paesi contrapposti apertamente agli Stati Uniti. C’è invece una dichiarata volontà di ricucire i rapporto con la Repubblica Popolare Cinese, fulcro imprescindibile per la ripresa economica della nazione.
Se Washington deciderà di non accettare la svolta multipolare di Manila, finirà per alienarsi completamente uno dei pilastri della strategia americana in Asia. E’ una sequenza che sempre più spesso vediamo ripetersi con conseguenze nefaste per gli Stati Uniti. Duterte ha già ampliamente fatto capire che la priorità numero uno riguarda la sovranità assoluta delle Filippine e i propri interessi nazionali, due nozioni che gli Stati Uniti tendono a rifiutare. Gli effetti di uno scontro frontale finiranno inevitabilmente per peggiorare le relazioni tra le due nazioni con conseguenze nefaste per la strategia americana in Asia rafforzando e avvicinando Manila e Pechino.