E ti amo Mario: sulla miseria dell'antipolitca

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E ti amo Mario: sulla miseria dell'antipolitca

 

di Geminello Preterossi

 

1. E ti amo Mario

Sgombriamo il campo da un equivoco. Il problema non è la “persona” Draghi. Che ha fatto buone scuole, è stato allievo di Caffè, ama l’Opera ed è pure romanista. Qualità che apprezzo.  In politica, però, conta ciò che si rappresenta, le visioni di fondo e gli interessi che ci muovono, e i fatti, le scelte che si sono compiute. I “fatti” di Draghi sappiamo quali sono. Mi limito a un breve ripasso, ma non per amor di polemica, bensì perché si tratta di questioni fondamentali, rivelative di un approccio, di una visione appunto, oltre che dei precisi interessi che Mito-Mario ha sempre scelto di garantire, da quando è entrato nel grande gioco del potere. Ci ricordiamo tutti il ricatto antidemocratico alla Grecia di Tsipras, attraverso la chiusura della liquidità da parte della BCE, per indurla ad accettare il Memorandum imposto dalla Troika e punire la pretesa greca di resistervi, in nome peraltro della volontà popolare esplicitamente espressa. Così come la lettera Trichet-Draghi, che intimava al governo Berlusconi di seguire un preciso programma di “riforme” neoliberiste (ben poco compatibile, peraltro, con il nucleo fondativo, sociale e lavorista, della Costituzione del 1948, formalmente ancora vigente).  Anche in quel caso, seguì una pressione dall’alto sui titoli di Stato italiani, per far schizzare lo spread e indurre Berlusconi alle dimissioni: fu co-decisa da Draghi. La maggioranza di Berlusconi era in difficoltà, probabilmente sarebbe entrata in crisi lo stesso da lì a breve, ma l’esito naturale di una crisi politica sarebbero state le elezioni. Invece, con lo stato di emergenza finanziario, creato ad arte, anche in quel caso la politica fu commissariata, con il loden di Monti e le lacrime della Fornero. Forse con quella scelta di far fuori il governo legittimato dagli elettori (distante anni luce dalle mie preferenze) ebbero a che fare, tra l’altro, le giuste posizioni critiche assunte da Tremonti sulle banche tedesche e francesi pesantemente esposte con la Grecia (banche che erano le vere destinatarie del programma di “aiuti” predisposto dalla Troika), nonché il piano, o comunque l’opzione del governo italiano, di cui si vociferò in quei mesi, su una possibile uscita dell’Italia dall’euro? Ancora: non c’è bisogno di insistere troppo sulle privatizzazioni discutibili, sul Britannia, sulla svendita del patrimonio pubblico del Paese (da rileggere sul tema le memorie di Giuseppe Guarino), sulla pretesa elitista di stringere l’autonomia della politica democraticamente legittimata in una morsa che, a dispetto  degli interessi dei ceti popolari, doveva impedire politiche redistributive e sociali, la difesa del lavoro, il rilancio della domanda interna, nonché un previdente mantenimento   degli strumenti dell’economia mista. I fatti, dunque, confermano che Draghi è un rappresentante eminente del capitalismo finanziario. Abile, per carità, ma a favore di chi? Questi fatti quanto sono compatibili con le idee, gli insegnamenti di Federico Caffè? Anche rispetto all’euro, alla tesi secondo la quale Draghi l’avrebbe “salvato”, e con esso l’Italia,  si possono opporre due interrogativi (nello spirito proprio di Caffè, che aveva criticato lo SME, oltre alla tentazione costante di usare strumentalmente  i vincoli finanziari, rafforzandoli con l’ideologia del vincolo esterno, per giustificare politiche antipopolari): ma davvero si è trattato di un salvataggio dell’Italia, o non piuttosto degli interessi strategici della potenza egemone dell’eurozona, cioè la Germania, che ha tutto  i vantaggi a mantenere l’euro, e in esso l’Italia, per assicurarsi un vantaggio competitivo permanente sul fronte delle esportazioni? Il “whatever it takes”, il Quantitative Easing, pur significativi, hanno rappresentato una soluzione stabile, permanente delle asimmetrie dell’eurozona (che Draghi conosce bene, perché tra le righe le ha spesso ricordate nei sui discorsi), oppure un “comprare tempo”, cercando di stringere ancora di più l’Italia nella camicia di forza dei vincoli del Fiscal Compact e delle altre condizionalità legate alla sopravvivenza dell’euro?  Siamo sicuri che sia convenuto all’Italia? E non sarebbe stato più giusto un dibattito aperto sul tema, che coinvolgesse i cittadini, invece di farne un tabù? Del resto, com’è noto, l’ironia della storia contempla che il giovane Draghi abbia elaborato una tesi di laurea precisamente sulle monete senza Stato come l’euro, nella quale sosteneva (impeccabilmente) che una moneta comune in presenza di squilibri macroeconomici e senza una fiscalità accentrata, governata politicamente, non potesse essere un obbiettivo augurabile perché viziato da contraddizioni strutturali.

Draghi, allora, sarà un altro rispetto a quello che è stato finora? Siamo in presenza di un’effettiva svolta sociale e inclusiva del capitalismo? Di un’Europa che diviene politica, sociale, democratica? Non pare credibile. Soprattutto, ed è questo il nodo fondamentale, si pone una questione di legittimità democratica. Possiamo continuare con il commissariamento della democrazia? Qual è l’effettiva fonte di legittimazione di Draghi?  E se si deve ricorrere, ancora, a una sorta di stato di eccezione tecnocratico, siamo proprio sicuri che ci si stia avviando verso una trasformazione politica che perlomeno corregga le storture del “trentennio inglorioso”?

Draghi, con un triplo salto carpiato, può far finta di non essere mai stato neoliberista, di non avere mai contribuito a imporre l’austerità alla Grecia e all’Italia, di non avere sempre avuto come stella polare gli interessi del capitale finanziario. Del resto, cambiare idea è lecito, si dice (e l’ha ripetuto anche lui, di recente, citando giustamente Keynes). Ma che a gestire un’eventuale nuova fase siano chiamati i responsabili del disastro precedente fa venire molto dubbi. E viene il sospetto che il presunto cambiamento sia semplicemente un falso movimento, un’abile strategia comunicativa, funzionale al riassetto, complice la pandemia, del capitalismo neoliberale, che era già in crisi. Quando si tratterà di pagare i costi di tale riassetto, e suonerà la campanella che sancirà la fine della ricreazione, con la scusa del debito e una rinnovata strategia della tensione sullo spread, ne vedremo delle belle, in termini di nuova austerità, “riforme”, macelleria sociale, svalutazione del lavoro, impoverimento, disoccupazione. Tutto pur di evitare le ricette giuste, quelle di Keynes e Caffè, che invece mettevano al primo punto la “repressione finanziaria” per consentire di impostare politiche pubbliche di intervento nell’economia, non sotto ricatto dei mercati e perciò volte all’interesse dei lavoratori e dei ceti non abbienti. Alla luce di tutto quello che è accaduto in questi decenni, fino al coronamento di oggi, si comprende la ferma volontà di Caffè di sparire. Per non vedere. Soprattutto certi allievi.

2. Governo tecnico? 

Sul tema, si apre una questione politica e istituzionale, che va ben al di là della figura di Draghi.  I governi cosiddetti “tecnici” hanno una lunga storia. In realtà, dietro questa espressione ambigua si cela un’ampia tipologia di governi. In generale, si potrebbe dire che “tecnico” sta per “non politico”. Ma è proprio così? Sono possibili governi non politici, in un contesto democratico-rappresentativo? In realtà, nella misura in cui tutti i governi debbono avere la fiducia del Parlamento, sono tutti in qualche modo politici. Il problema è: politici in che senso? Di quale “politica” si sta parlando? Nel caso del governo Draghi, di una politica che neutralizza la politica (partitica, cioè espressiva delle “parti” nelle quali si articola la società e che si proiettano, attraverso la rappresentanza parlamentare, nello Stato). Governo tecnico, quindi, è il risultato di una crisi della politica che non riesce a trarre dal proprio interno le soluzioni. In sostanza, con il governo tecnico si cerca una soluzione non politico-partitica, a cui le forze parlamentari accettano di dare fiducia, facendo in qualche modo un passo indietro. Ma di per sé la “tecnica” non ha la possibilità di proporsi come soluzione. Occorre che qualcuno, un’istituzione in grado di farlo, la proponga e sostenga in prima istanza, in qualche modo sfidando il Parlamento (o sollecitandolo fortemente), mettendo in gioco il proprio prestigio e il proprio ruolo.  Occorre, in sostanza, un’istituzione dotata di un plusvalore terzo, di una rappresentatività simbolica generale, che possa spendere questa riserva di senso politico, di auctoritas, per favorire uno sbocco positivo che altrimenti le forze politiche, da sole, non sarebbero in grado di determinare, paralizzate dai propri veti. Si tratta insomma di una forzatura, che serve a imporre una soluzione. Più è drammatizzata la crisi, più pesa il nome del prescelto come deus ex machina, maggiore sarà la probabilità del successo. In sostanza, il Parlamento è messo alle strette e non può dire no. Stiamo parlando, dunque, di un governo del Presidente. In qualche modo, ogni governo tecnico, istituzionale o di garanzia, è un governo del Presidente. Nel caso dell’incarico a Mario Draghi, il Presidente della Repubblica ha quindi scelto di percorrere la strada di un “governo del Presidente”: un esecutivo “di alto profilo”, che dovrebbe affrontare un’emergenza altrimenti non risolvibile.

 

 

Fin qui, siamo nel solco di una storia istituzionale inscritta nel primato della statualità, come forma politica originaria   dell’unità della nazione, che deve prevalere sulle parti e gli interessi frazionali perché incarna il supremo interesse, la salus rei publicae. Siamo cioè nel pieno della dottrina dello Stato moderno (non assoluto, ma costituzionale).   Questo potere d’impulso del Presidente della Repubblica, in quanto garante dell’unità nazionale e della Costituzione, proviene da Weimar e, per certi aspetti, è un resto (urbanizzato, secolarizzato) della prerogativa monarchico-costituzionale. Naturalmente, con la monarchia era una prerogativa connessa alla sovrapposizione tra legittimità dinastica e continuità dello Stato, e perciò aveva in se stessa la propria fonte di legittimazione. Nel caso delle Repubbliche, la legittimazione politica di ultima istanza proviene invece dal popolo, perché la sovranità ad esso appartiene. Nel caso di Repubbliche presidenziali, o semipresidenziali, la funzione politica del Capo dello Stato è evidente. Nel caso di Repubbliche parlamentari, soprattutto se il sistema politico opera in modo efficiente, quella funzione si riduce al minimo, è notarile e quasi onorifica (si pensi all’irrilevanza politica del Presidente della Repubblica tedesco). In Italia non è così, perché il ruolo che il Presidente della Repubblica svolge è “a fisarmonica”: si allarga e restringe a seconda della funzionalità e della forza del sistema dei partiti. Quando si apre una crisi complessa, se i partiti sono deboli e divisi, e la situazione appare come emergenziale perché esistono problemi di ordine economico e sociale non ordinari (terrorismo, gravi turbolenze economico-finanziarie, emergenza sanitaria ecc.), il ruolo del Presidente è inevitabilmente destinato a crescere in modo notevole. Intendiamoci, ciò è possibile perché in generale la funzione del Quirinale nel nostro assetto è rilevante, soprattutto nella gestione delle crisi di governo, e perché dei poteri propri il Capo dello Stato italiano li ha (compartecipando a tutti e tre i poteri, ed equilibrandoli). Ciò accade anche se non è eletto dal popolo e non svolge una funzione di indirizzo politico in senso proprio, ma di custodia dell’indirizzo fondamentale depositato in Costituzione e di garanzia dell’unità nazionale. Il problema è che quanto più cresce il suo attivismo, tanto più aumenterà la discrezionalità ermeneutica del suo operato: la custodia di quell’indirizzo costituzionale fondamentale diventerà, inevitabilmente, un’interpretazione politica di esso, e quindi un indirizzo politico vero e proprio, seppur in senso istituzionale.  Insomma il Presidente, svolgendo una funzione di alta politica costituzionale, finisce per imprimere un indirizzo politico generale, almeno relativamente alla risoluzione delle crisi “difficili” (che però sono gli snodi decisivi della vita della nazione). Questa funzione di impulso, moral suasion, esternazione e determinazione di punti di equilibrio politici è cresciuta nei decenni, in particolare dai primi anni Novanta (segnati da Tangentopoli, dalla crisi finanziaria del ’92 e dall’offensiva stragista della mafia), cioè da quando il sistema politico della cosiddetta Prima Repubblica è stato terremotato.  Ma c’è da dire che la rilevanza crescente del ruolo del Presidente era già emersa con Pertini, punto di riferimento morale grazie alle sue ferme prese di posizione sullo scandalo P2 e sulle inefficienze nei soccorsi durante il terremoto dell’Irpinia, ma anche con la scelta di conferire l’incarico di formare governi a esponenti “laici”, cioè non democristiani. E poi, in ben altro senso, con le “picconate” di Cossiga.  Va inoltre ricordato che anche l’esperienza dei governi di unità nazionale non è una novità, avendo segnato il periodo del terrorismo e della crisi economica della seconda metà degli anni Settanta in Italia; ma in quel caso era la politica a promuoverli, non il Presidente della Repubblica.

Spesso si è paragonato il caso italiano a quello della Repubblica di Weimar (per fortuna, non negli esiti): in quest’ultima, il Presidente era però eletto dal popolo e aveva poteri emergenziali, codificati nell’art. 48 della Costituzione. I governi di affari, emergenziali, privi di maggioranza parlamentare, poggiavano di fatto sul suo sostegno esclusivo.  Nel nostro sistema, ed è un bene, nulla di tutto ciò è possibile. Ma è innegabile che il peso dei poteri presidenziali sia significativamente cresciuto (con Scalfaro e Napolitano, in particolare): tanto che ci si è spinti a ipotizzare una sorta di semipresidenzialismo di fatto, frutto di una torsione che la transizione infinita, senza sbocchi veramente stabili, del sistema politico post-Tangentopoli e la crisi economico-finanziaria avrebbero determinato, oltre che del modo in cui tali personalità hanno interpretato il loro ruolo presidenziale. Ci si è anche chiesti, perciò, se non fosse il caso di prendere atto di tale evoluzione e metterla in forma, prevedendo un’elezione diretta. A mio avviso sarebbe un azzardo, ma la questione di fondo esiste.  Il Presidente Mattarella è un convinto parlamentarista, e tuttavia alcuni suoi interventi hanno confermato un significativo ruolo di intervento e indirizzo nei momenti di crisi: pensiamo al rifiuto di sciogliere le Camere opposto a Renzi dopo la sua sconfitta nel referendum costituzionale (almeno secondo alcuni retroscena), al veto su Savona durante la formazione del primo esecutivo Conte, allo gestione della crisi del medesimo governo,  infine (e soprattutto) all’esclusione delle elezioni oggi e all’incarico a Draghi. 

 

 

Il punto teorico che a me pare importante sottolineare, perché gravido di conseguenze politiche, è questo: a Weimar, ma in qualche modo anche durante la cosiddetta Prima Repubblica, si poteva ancora invocare il plusvalore politico dello Stato e dell’unità nazionale, a fronte di gravi emergenze politiche come il terrorismo, l’estrema conflittualità politica, la crisi sociale. Oggi è surreale, perché si evoca qualcosa che in realtà è stato svilito e liquidato nel trentennio neoliberista, e lo si fa in nome di forze e obbiettivi che negano quel plusvalore politico della statualità: ovvero in nome del vincolo esterno, dei mercati finanziari (il cui voto peserebbe più di quello dei cittadini), di istanze di potere che certo democratiche non sono. Siamo di fronte a fantasmi dello Stato politico, del potere terzo efficace, dell’unità nazionale, evocati per garantire che la politica, e in particolare la partecipazione democratica, non interferiscano in alcun modo con il processo di integrale funzionalizzazione dello Stato ai processi di spoliticizzazione post-nazionale, finanziaria e mercatista (in Europa, ordoliberale). Uno stato di eccezione tecnocratico, post-politico, che serve non a ricostituire l’autonomia della politica democratica, ricostruendo lo spazio di un sano conflitto politico rappresentativo dei differenti interessi sociali, e rafforzando la coesione della comunità intorno ai propri interessi generali, pubblici, ma al contrario a subordinare definitivamente le scelte della collettività a interessi estranei a quello nazionale, e legati alla finanza privata.  L’appello all’emergenza e all’unità è quindi un modo per affidare a commissari di poteri esterni, non legittimati democraticamente (la Troika), cioè a élites privatistiche, oligarchiche e antidemocratiche, quelle scelte. Imponendo ai partiti, condannati a cantare e portare la croce (cioè a raccogliere il consenso sul piano nazionale, senza poter decidere nulla di diverso dai diktat dei mercati e dell’UE), di sostenere le politiche del “pilota automatico”. Il fatto che il consenso scemi non può sorprendere, ed è infine diventato un problema: da ciò gli strepiti contro populisti e sovranisti (termine quest’ultimo privo di consistenza scientifica), al di là della loro reale intenzione e capacità di imporre una svolta politica credibile. La dialettica basso contro alto, popolo contro oligarchie, è una conseguenza logica del processo di espropriazione della sovranità democratica.  Può essere che sia destinata a fallire, che i suoi esiti siano ambigui o inefficaci. Ma è certo che finché permane questo campo di tensione dialettica, si cercherà di arginarlo in ogni modo attraverso l’uso politico-comunicativo dell’emergenza, per disciplinare i riottosi.  Un’impostazione obbiettivamente eversiva dei valori democratici.

 

3. Miseria dell’apolitica

Salvini, convertito insieme ad Alberto Bagnai e Claudio Borghi sulla via di Draghi, grazie al battistrada Giorgetti (il Gianni Letta della Lega), dice che prima o poi si tornerà a votare. Si, forse (potrebbe sempre esserci un’altra “emergenza imprevista” in agguato, alla bisogna; ormai non possiamo sorprenderci più di nulla). Ma più poi che prima. Cioè il rischio è che si torni a votare quando sarà inutile. Quando tutte le scelte che contano saranno state fatte. Quando gli adagi di Schäuble e di Draghi stesso (le elezioni non contano, tanto c’è il pilota automatico) saranno stati blindati. E le elezioni saranno solo quel rito inutile, che serve a dare l’opportunità a qualche politicante di bassa lega di giocare alla lotteria che mette in palio dei seggi e a illudere i cittadini di avere qualche voce in capitolo.  Non c’è da sorprendersi se così la fiducia nelle istituzioni crolla. Sarebbe più serio abolire le elezioni, sancendo la fine dell’epoca cominciata con le Rivoluzioni settecentesche. Si sforzino, le cosiddette élites, di trovare un nome, e un discorso di legittimazione coerente, per giustificare in maniera esplicita, senza scuse emergenziali, la liquidazione della democrazia costituzionale. Soprattutto, propongano un nuovo modello, invece di deformare sempre di più quello ereditato dai Costituenti. Ma non lo possono fare: perché la loro mancanza di dignità e coraggio politico (quello che fa lottare apertamente, non manovrare dietro le quinte) è proporzionale al cinismo. La narrazione liberal, perbenista, pseudo-progressista, che è la copertura ideologica del globalismo finanziario, impedisce di dire la verità e soprattutto di trarne le conseguenze. A Occidente come a Oriente, tranne rare eccezioni, nella migliore delle ipotesi vigono democrature, democrazie protette, autocrazie elettive. Con la differenza che a Occidente le forzature sono prodotte del combinato disposto tecnocrazie-finanza-media mainstream, con l’asservimento di istituzioni e politici in teoria autonomi, ma in realtà funzionali. A Oriente si manifestano nella forma di un nuovo autoritarismo tecnologico, cioè di un potere inamovibile e insindacabile, anti-pluralista, basato sulla pervasività del controllo. Convergeranno?

 

 

Il governo precedente aveva molti limiti, e soprattutto dall’estate scorsa il suo motore ha cominciato a imballarsi pesantemente. Ho la sensazione che con Draghi assisteremo a un nuovo uso politico-comunicativo della “pandemia”. Prima è servita a seminare terrore e chiudere tutto (al di là delle reali esigenze e della razionalità), adesso sarà l’occasione per aprire se non tutto molto e santificare Draghi come il nuovo “re taumaturgo”, che ha guarito la scrofola. Personalmente ne sarò felice, come credo tanti che non ne potevano più, ma resta il dato politico di un cambio strumentale di narrazione, che giustifica molti cattivi pensieri su quanto è accaduto nell’ultimo anno.

Il Movimento 5 stelle, una forza che ha raccolto la protesta anti-establishment, evidentemente per sterilizzarla, può governare con tutti: Lega, PD, persino Forza Italia. E può addirittura sostenere uno dei massimi esponenti delle élites tecnocratiche e finanziarie, da loro combattute a parole. Andando avanti così, dei 5 stelle resterà ben poco. Il Pd è un partito governista a prescindere: non ha una propria identità, una visione, che non sia la “responsabilità” di stare sempre dalla parte del sistema; considerando il partito di cui, seppur molto indirettamente, sarebbe erede, e di cui si celebra il centenario, non si sa se ridere o piangere. Anche La Lega, alla fin fine, probabilmente per tatticismo strumentale e comodità, o per il richiamo della foresta dei padroncini del Nord e della Confindustria, risponde all’appello. Twittare l’articolo 1 della Costituzione serve solo a fare un po’ di propaganda. Gli anatemi reciproci tra Sinistra e Lega, 5 stelle e Forza Italia, mostrano qui, definitivamente, la loro grottesca superficialità e inconsistenza. PD e 5 stelle, se ancora potranno agganciarsi alla boa Conte, tra un anno e mezzo o due, riusciranno forse a prendere insieme i voti che una volta prendevano da soli, quando erano al massimo del consenso. Dipenderà da molti fattori, ma è facile immaginare che una prateria si aprirà per chi saprà rappresentare un’opposizione coerente. Per evitare tale delegittimazione generale della politica, sarebbe stato necessario tenere il punto dell’imprescindibilità della sovranità democratica. La via maestra erano le elezioni. Com’è accaduto e accade in altri Paesi. Se si trattava di guadagnare qualche mese, si poteva dar vita a un governo super partes, di garanzia, di durata limitata, per accelerare la campagna vaccinale, presentare il Recovery Plan (peraltro sopravvalutato nella sua portata) e condurre alle elezioni alla fine della primavera o dopo l’estate.

Paragone e Meloni non saranno della partita Draghi. Per fortuna, perché un governo senza opposizione non è mai un bene per la democrazia. E poi, sia detto con ironia, sarebbe stato un po’ troppo ritrovarsi, come Fionda, a rappresentare l’unica opposizione. Si vedrà se saranno loro a capitalizzare la voglia di cambiamento e, soprattutto, di recupero della sovranità democratica. Certamente, occorrerebbe altro.  Ma quello che si può fare per ora è solo un lavoro culturale e critico di lunga lena: la Fionda serve a questo. Sperando che quelle istanze decisive, che esprimono il senso profondo della legittimità moderna, della sua promessa democratica, non siano fiaccate per sempre. Significherebbe che il riassetto del capitalismo in chiave digitale (e antisociale), occasionato dal coronavirus, si è mangiato interamente la politica come sfera dell’autodeterminazione e dell’eteronomia progettuale rispetto all’immanenza dell’economico. Una sorta di complessiva transizione epocale, di segno antropologico, civile e culturale, all’insegna dell’antipolitica ammantata di epistocrazia. In questo senso, il governo Draghi potrebbe essere visto come una pedina di un disegno più ampio: il governo della saturazione dello spazio pubblico, della negazione del conflitto in quanto tale. Ma ne siamo certi: non praevalebunt.

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