Euro, la profezia di Lucio Caracciolo è realtà
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Molti hanno sentito parlare del libricino del 1997 dell’attuale segretario del PD Enrico Letta profeticamente intitolato “Euro sì. Morire per Maastricht” – una sintesi perfetta del programma del centrosinistra italiano degli ultimi vent’anni. Non tutti sanno, però, che quel libro ha un “gemello”, pubblicato in contemporanea nella stessa collana Laterza, che invece argomentava la tesi opposta e che infatti era intitolato “Euro no. Non morire per Maastricht”, scritto da Lucio Caracciolo, al tempo già direttore della rivista “Limes” da lui stesso fondata.
Si tratta di un testo anch’esso profetico, con la differenza rilevante di non considerare la morte dell’Italia un fatto da celebrare, a differenza di Letta. A conferma che tutto quello che è avvenuto era perfettamente prevedibile ed infatti era stato previsto. Che non tutti nel nostro paese erano obnubilati dall'ideologia europeista. E che esisteva un'alternativa. Vi riporto alcuni passaggi illuminanti del testo di Caracciolo:
«Oggi [la moneta unica] minaccia di diventare un mezzo per costituire l’area del marco tedesco in una Piccola Grande Europa, centrata su Germania e Francia (“Framania”).
Nella storia universale, finora, sono state le entità politiche a determinare la moneta e non viceversa. Dopo aver sfidato il tempo, l’ortodossia maastrichtiana si esercita contro l’esperienza storica. Poiché gli Stati nazionali non si suicidano spontaneamente per dar luogo all’Europa, sarà l’economia, anzi la moneta a scardinarli dall’interno. Siccome gli europei non sentono urgere nei loro cuori quel bisogno d’Europa che dovrebbe spingerli ad evertere l’ordine degli Stati in nome dell’unità del continente, sarà opportuno rovesciare il percorso: non lo Stato conia la moneta, la moneta conia lo Stato. Di passaggio si noterà che in tal modo viene brillantemente accantonato un fastidioso accessorio – il consenso democratico. Se il cittadino non capisce che per il suo bene è meglio lasciare lo Stato nazionale eterogeneo per fondersi nella comunità dei continentali, i pedagoghi europeisti escogiteranno un percorso alternativo che lo condurrà lì dove deve arrivare senza quasi che se ne accorga.
Monnet insegna: andare, sempre andare, dove non importa. Il mezzo è il fine. Condizione necessaria e sufficiente per rispettare tale regola è di garantirsi dal successo. Le tappe del processo europeista hanno da essere imperfette. Occorre assicurarsi che l’idea non funzioni troppo bene. Il parziale fallimento fornirà la spinta necessaria per compiere un altro balzo in avanti, sempre provvisorio – una nevrosi da horror plenitudinis. L’Europa per catastrofi, dunque.
Puntano su un mezzo fallimento [dell’euro] – cioè su un mezzo successo – come condizione di un ulteriore slancio imperfetto, possibilmente politico-istituzionale, in direzione della sempre imprecisata Europa. Per salvare l’euro dalla catastrofe completa, ci verrà allora spiegato, dovremo fare un ulteriore salto di qualità verso l’integrazione europea.
All’applicazione del darwinismo sociale [dell’euro], operata dall'alto, potrebbe sommarsi, dal basso, un’altra spinta disgregante: la cosiddetta Europa delle regioni. In mezzo alla tenaglia gli Stati nazionali eterogenei, cioè lo spazio geopolitico su cui si è finora incardinata la democrazia liberale. Gli Stati si troverebbero cosi ad essere doppiamente delegittimati dall’Europa comunitaria e dalle regioni. Il rischio è di restare fra due sedie: senza più Stati, senza ancora Europa, in un caos geopolitico molto eccitante per gli apprendisti stregoni.
A cinque anni dalla firma del Trattato di Maastricht, il bilancio della grande avventura è negativo. La disoccupazione aumenta, la crescita economica ristagna, lo Stato sociale è dovunque in crisi. Non è con la deflazione e la recessione che si popolarizza l’Europa. Il tenore di vita è diminuito, la legittimazione degli Stati, a cominciare dal nostro, è messa in questione senza che si intravveda l’alba di una nuova sovranità europea.
[Un qualsiasi shock esterno] renderebbe quasi impossibile il rispetto dei parametri di convergenza e agirebbe come un destabilizzatore sociale in un continente segnato dalla disoccupazione. Come già in Francia nel dicembre 1995, poi in Germania e ormai in tutti i paesi dell’Unione, Maastricht verrebbe identificato con la mancanza di lavoro, l’insopportabile pressione fiscale, l’impoverimento.
L’Italia è un paese a statuto istituzionale debole. Il grado di legittimazione dello Stato è da noi molto inferiore rispetto a Francia, Gran Bretagna, Germania. I cittadini hanno scarsa fiducia in chi li governa. Ciò che è più interessante, chi li governa ha scarsa fiducia nei cittadini. Nel suo apparente slancio di educazione di una cittadinanza ribelle alle regole, quel che resta della nostra classe dirigente usa perciò l’Europa come surrogato della propria carenza di autorità. Chi non obbedisce all’Italia obbedirà all'Europa. È la tesi del “vincolo esterno”, l’articolo 1 della Costituzione non scritta di questo paese. In nome dell’Europa è possibile imporre comportamenti e sacrifici anche durissimi, ai quali il popolo italiano si ribellerebbe se a proporli fossero le autorità nazionali. La storia di questo dopoguerra dimostra che il vincolo esterno funziona. Almeno finora.
[Particolarmente] pericolosa la ricaduta politico-istituzionale. Se il popolo è bue, dunque va eterodiretto dall'Europa, a che serve l’Italia? Il vincolo esterno mina la legittimità e l’autorità della repubblica. Se la sede delle decisioni politiche ed economiche è in un altrove spesso imprecisato e sempre incontrollabile – la Bundesbank, la Commissione, qualche norma o istanza comunitaria – non si capisce, alla lunga, quale sia la funzione di un governo, di un parlamento nazionale. In questione è l’incardinamento territoriale della democrazia, la sua stessa utilità per la nostra vita associata. Se la politica si riduce ai parametri, a che serve la politica? A governarci basterà una ben addestrata corporazione di contabili, ragionieri, ufficiali di scrittura. Scelti per merito o per sorteggio.
Non intendo affatto negare la legittimità [dell’euro]. È un’idea […] perfettamente argomentabile […] da tedeschi e francesi, in quanto “nucleo del nucleo”, come pure da belgi, austriaci, lussemburghesi o olandesi, le “periferie del nucleo”. […]. Molto meno intellegibile – se non per vie psicoanalitiche – la ragione per cui i satelliti dovrebbero rallegrarsi per la nascita del nucleo. Perché mai gli italiani e gli altri esclusi dovrebbero compiacersi di essere emarginati? Peggio, perché collaboriamo al nostro declassamento? Perché invece di difendere i nostri interessi nazionali lasciamo che siano altri a stabilirli? Paghiamo lo scotto di un europeismo di maniera. Per decenni l’Europa è stata mitizzata, senza discuterne costi e benefici, vantaggi e svantaggi.
Il nostro interesse nazionale – termine fino a ieri tabù, oggi addirittura inflazionato, il che in fin dei conti è lo stesso – è stato spacciato per coincidente con un presunto interesse europeo. Ma l’interesse europeo non è dato, almeno fintanto che non esiste un soggetto chiamato Europa. È per ora solo la somma algebrica degli interessi delle nazioni che ne fanno parte. Le quali hanno ciascuna un proprio punto di vista sull’Europa. Sanno, o immaginano di sapere, che cosa farne. Noi no. Invece, facciamo finta di sapere che cosa sia l’interesse dell'Europa, quasi fosse un elemento presente in natura. Dalla geopolitica all’ontologia. Se intorno a un tavolo ciascuno parla per sé mentre uno solo pensa di parlare per tutti, costui viene preso per arrogante, disonesto o semplicemente matto. Vogliamo dire «noi» prima di dire «io». A costo di renderci sospetti o ridicoli. È quanto è capitato per troppo tempo agli italiani seduti al tavolo dell’Europa. Fare politica senza avere un proprio punto di vista significa essere eterodiretti. Se non so che cosa voglio, saranno gli altri a deciderlo per me».
Sipario.