Fulvio Grimaldi - Congo, l’Africa prende il largo

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Fulvio Grimaldi - Congo, l’Africa prende il largo

 

di Fulvio Grimaldi

Africa, chi viene e chi va. Chi va sono soprattutto, in prima persona, i francesi con, in seconda battuta, gli statunitensi. Chi viene sono essenzialmente gli stessi che se ne vanno, se ne devono andare, cacciati, ma che provano a tornare sotto mentite spoglie. È il caso di fuori i francesi! dal Sahel, dall’Atlantico del Senegal al Mar Rosso dell’Eritrea, passando per Mali, Niger, Burkina Faso, Guinea, Chad e, ha da venì, Repubblica Centroafricana, che ha cominciato a chiedere agli Usa se non fosse il caso di ritirare i propri militari. Altri che arrivano, ma prima non c’erano, sono i russi e cinesi. Di questi ci sarà altra occasione per dire.

Nel giro di tre anni, dal 2020 della rivoluzione anticoloniale in Mali, l’intera fascia subsahariana ha cambiato fisionomia. Se qualcuno, frantumando la Libia, linciando Gheddafi, insediando a Tripoli una brigata di criminali alla Osama Al Masri, pensava di aver posto fine alla spinta del continente verso, se non l’unità, l’autodeterminazione e l’affrancamento dal neocolonialismo nelle sue varie forme, il Sahel gli ha dato modo di ricredersi.

In Senegal per via elettorale, con neo presidente Diomaye Faye e premier Ousmane Sonko a sostituzione di Maky Sall, uomo di Parigi; in Mali, Niger e Burkina Faso dove Assimi Goita, Abdurahman Tchani e Ibrahim Traorè, rispettivamente, portano al potere una giunta militare che corona una rivolta popolare contro i francesi, termina il dominio coloniale del Franco francese e il presidio militare di Parigi, USA e altri NATO.

Saltando il Sudan, con le due formazioni militari, Esercito e Forse di Supporto Rapido e i rispettivi riferimenti etnici (ed esterni, di non agevole identificazione), che da due anni si contendono sanguinosamente il controllo del più vasto paese africano, all’estremo est del continente, l’Eritrea si mantiene da trentanni caposaldo antimperialista. Paga con pesanti sanzioni USA e UE e ricorrenti campagne di diffamazione (“l’autocrate” Isaias Afeworki, che guidò la trentennale lotta di liberazione dall’Etiopia sostenuta dagli USA e poi dall’URSS), la sua autodeterminazione e i disinvolti rapporti internazionali tra sauditi e cinesi. Sua massima colpa: trovarsi a presidiare lo stretto di Bab el Mandeb, all’imbocco del Mar Rosso, da dove passa il 40% del traffico mondiale.

Sugli equilibri così modificati a svantaggio dei tentativi di ricupero coloniale del continente più ricco di risorse fondamentali per le tecnocrazie, è intervenuto uno storico pilastro della strategia proxy, per procura al fiduciario locale, del colonialismo occidentale, nella fattispecie franco-belga-statunitense.

E siamo alla tragedia del Congo, paese più potenzialmente ricco dell’Africa, paese decimato dalla più cinica e feroce monarchia coloniale d’Europa, quella di Leopoldo del Belgio, paese dalla sua nascita per l’indipendenza ha pagato uno scotto terribile, a partire  dall’assassinio dei suoi liberatori (Lumumba)  e dal saccheggio sistematico delle sue risorse.

Saccheggio poi rallentato, fermato, attraverso un’equa – per la prima volta -  collaborazione con la Cina nelle sfruttamento minerario, ma predazione subito da ripristinare nella sua proterva illimitatezza da parte dei soliti noti.

A ciò è servita una delle più grandi menzogne che abbiano annebbiato il rapporto dell’umanità con la realtà. Della portata, che so, di Pearl Harbour, dell’11 settembre per terrorizzare il mondo con la “guerra al terrorismo”, di Sebrenica per sradicare la Serbia dai Balcani, delle armi di distruzione di massa di Saddam, dii sauditi o afghani che avrebbero buttato giù le Torri Gemelle, o, addirittura, della croce di Cristo ritrovata da Elena, madre di Costantino, e distribuita a trucioli come reliquie.

Primi anni ’90. Il mondo, atterrito, in tutti i suoi organi mediatici, politici, religiosi, diplomatici, denuncia il genocidio del Ruanda (il primo, dopo armeni ed ebrei, dimenticando  i sassoni pagani, tolti di mezzo da Carlo Magno): ben 1 milione di Tutsi, minoranza colta e ricca, padroni delle terre, trucidati dagli Hutu, maggioranza dei piccoli, sporchi e cattivi. Lo afferma Human Rights Watch, quella di Gheddafi che distribuiva Viagra ai suoi soldati perché gli riuscisse meglio stuprare donne libiche. Lo giurano Usa, francesi e belgi. L’Europa annuisce. Lo sanziona il Tribunale dell’Aja, messo su e pagato dagli americani, al pari di quello che doveva trasferire la colpa della distruzione della Jugoslavia ai serbi. E imprigionare e far tacere e uccidere Slobodan Milosevic.

Non è andata così. Ma le inchieste condotte da giuristi internazionali di altissima rinomanza, anche statunitensi e canadesi, che mai si sono potute contraddire e smentire, non hanno avuto spazio né politico, né mediatico. E se oggi l’invasione dei terroristi delle Brigate 23 Marzo, vale a dire dell’esercito ufficiale, ma mascherato, di Kigali e dell’autocrate ruandese Paul Kagame, presidente dal 2000, può pretendere che l’assalto al Nord Kivu, la presa di Goma, le stragi di congolesi e, ora, la marcia su Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo, siano motivati dalla necessità di proteggere la comunità tutsi che dal Ruanda si estende al Congo orientale, la memoria coltivata del  “genocidio” ce lo deve far credere.

Allora, cosa accadde?

Prima si poteva contenere l’espansionismo dei tutsi ruandesi nel nordest del Congo poichè, una volta eliminati i protagonisti, in quello che si chiamava Zaire, della resistenza e della liberazione (ricordate la partecipazione del Che Guevara), reggitori dell’enorme paese, del suo petrolio, del suo uranio, oro, argento e rame, come Kasavubu, Kabila padre, Mobutu, assicuravano la rapina di quelle risorse da parte delle multinazionali occidentali.

Con Felix Tshisekedi, presidente del 2019, e le nuove tecnologie dipendenti da enormi riserve di nuovi minerali, come coltan, litio, rame, pure quelli presenti in enormi quantità nel Nordest del Congo, i referenti esterni sono cambiati. Accanto a multinazionali occidentali, si erano rilevate preziose e più eque le imprese cinesi e gli accordi con queste avevano un carattere meno predatorio di quello imposto dai poteri ereditati dal dominio belga. Era venuto il tempo di intervenire.

Ed è l’invasione delle milizie “23 marzo”, storicamente impegnate nella destabilizzazione del potere statale nel Nord Kivu popolato da membri dell’etnia dominante in Ruanda, ma stavolta intervenute con forze e mezzi senza precedenti che, nel giro di pochi giorni, hanno portato alla conquista di Goma, con il solito corredo di migliaia di morti ammazzati, e all’avvio della marcia sulla capitale Kinshasa. Obiettivo dei mandanti: rimuovere un governo che aveva deragliato dagli obiettivi assegnati al paese fin dall’indipendenza.

Nel 1959, all’indomani dell’indipendenza, il Ruanda aveva conosciuto un’emancipazione anche sociale. La rivoluzione anticoloniale a carattere socialista aveva eliminato il regime di monarchia assoluta, fondato su feudalesimo e servitù della gleba, della minoranza tutsi, soddisfatta della funzione proconsolare affidatagli dagli ex-padroni. Seguirono decenni di convivenza e partecipazione della maggioranza contadina hutu con l’ex-aristocrazia hutu, entrambi impegnati in amministrazione, economia ed esercito.

Tutto questo entrò in crisi quando, all’inizio dei ’90, una cospicua componente dell’etnia tutsi, privata del potere assoluto e rifugiatasi nel vicino Uganda, denominatosi Fronte Patriottico del Ruanda (FPR), invase il paese, puntando al ristabilimento del vecchio ordine dominio. Fu l’inizio di un massacro indiscriminato di cui fecero le spese entrambe le comunità. In quell’occasione prevalse l’esercito ruandese. Ma le incursioni si ripeterono nel corso degli anni a intervalli quasi regolari. Ovviamente l’eliminazione di un governo che intendeva garantire allo Stato le proprie risorse e intratteneva ottime relazioni con gli Stati del socialismo reale era un obiettivo per cui il Fronte Patriottico Ruandese era soltanto il mandatario. Forze speciali statunitensi, francesi e belghe operavano a fianco e in supporto del FPR.

La resa dei conti, preparata da una serie di incursioni con relativi massacri di hutu e tutsi “collaborazionisti”, si verificò nel 1994 e culminò con quello che, da genocidio degli hutu per mano del FPR, addestrato, armato e accompagnato da “consiglieri” occidentali, in primis americani, divenne e rimase, a forza di complicità mediatiche, il “genocidio dei tutsi”.

Oggi, con il pretesto della salvezza della minoranza etnica tutsi in Congo, della stessa matrice di quello del 1994, si punta a occupare le aree della Repubblica del Congo sulle quali le multinazionali occidentali avevano imperversato, a forza di sfruttamento spietato anche del lavoro minorile, dai giorni dell’indipendenza e dalle quali erano stati in parte sfrattate da partner più congeniali agli interessi del paese. Per assicurarsi un esito definitivo e duraturo, mandanti e mandatari puntano ora su Kinshasa. Perché limitarsi al Kivu?

La popolazione della capitale congolese che, a seguito dell’invasione ruandese, ha aggredito e incendiato le ambasciate di Francia, Stati Uniti e Belgio, sapeva cosa stava facendo. E perché.

 

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