"Generazione Antidiplomatica" - Il futuro delle pensioni italiane al servizio delle bolle speculative

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"Generazione Antidiplomatica" - Il futuro delle pensioni italiane al servizio delle bolle speculative

Generazione AntiDiplomatica è lo spazio che l’AntiDiplomatico mette a disposizione di studenti e giovani lavoratori desiderosi di coltivare un pensiero critico che sappia andare oltre i dogmi che vengono imposti dalle classi dirigenti occidentali, colpendo soprattutto i giovani, privati della possibilità di immaginare un futuro differente da quello voluto da Washington e Bruxelles. Come costruirlo? Vogliamo sentire la vostra voce. In questo nuovo spazio vi chiediamo di far emergere attraverso i vostri contenuti la vostra visione del mondo, i vostri problemi, le vostre speranze, come vorreste che le cose funzionassero, quale società immaginate al posto dell’attuale, quali sono le vostre idee e le vostre riflessioni sulla storia politica internazionale e del nostro paese. Non vi chiediamo standard “elevati” o testi di particolare lunghezza: vi chiediamo solo di mettervi in gioco. L’AntiDiplomatico vi offre questa opportunità. Contribuite a questo spazio scrivendo quanto volete dei temi che vi stanno a cuore. Scriveteci a: generazioneantidiplomatica@gmail.com

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Articolo di Paolo Micheli, giovane lavoratore di Grosseto

Ricollegandoci al mio ultimo articolo (1), trattante il lavoro sottopagato e conseguente impossibilità di un futuro per i giovani e non, oggi voglio parlare di un argomento strettamente collegato, ovvero delle pensioni, prendendo spunto dalle trattazioni dei brillanti Gilberto Trombetta ed Alessandro Volpi. Desta preoccupazione (ed è un eufemismo a dir poco) il fatto che molti di noi “millennials” molto probabilmente non vedranno la pensione, o comunque questa sarà pari a una somma veramente da fame. già le pensioni attuali spesso bastano a malapena alla sopravvivenza, figuriamoci in che condizioni saranno le casse previdenziali tra qualche decennio considerando inflazione incontrollata, la totale mancanza (anzi repressione, a dire il vero) di politiche di tutela nei confronti della previdenza sociale e un tessuto produttivo interamente svenduto, spolpato e offerto alla finanza speculativa!

L’involuzione del sistema previdenziale in Italia è una storia travagliata che dura da oltre 30 anni. Tra le date simboliche di questo decadimento abbiamo il 1986, anno nel quale iniziò la svendita dell’IRI, il titanico complesso di industrie pesanti e strategiche, di complessi di ricerca, comunicazioni e servizi in mano allo Stato italiano, che, oltre a garantire posti di lavoro stabili e salari decenti (a dir poco) e conseguente domanda interna aggregata sicura, che è uno dei motori principali di un’economia sana e in sviluppo (ed i Cinesi non a caso se ne sono accorti da tempo, i Russi se ne stanno ricordando dopo 36 anni), forniva un indotto alle casse dello Stato che contribuiva alla costituzione dei fondi previdenziali destinati alle pensioni. Quindi c’era garanzia di salario nell’immediato, di mantenimento del potere d’acquisto grazie alle politiche monetarie e fiscali e la serenità di una pensione sicura in un’età non eccessivamente debilitata, a beneficio delle famiglie che potevano contare sul supporto nel quotidiano di “nonni “ ancora vigorosi, altro aspetto della vita che non va sottovalutato. 

Nonostante non fosse un sistema economico totalmente controllato dal settore pubblico, quello della “prima Repubblica” permetteva molta più stabilità e serenità di adesso. Le riforme iniziate tra fine Anni ‘70 e inizio Anni ‘80 portarono al disastro. Ci fu lo smantellamento e la svendita dell’IRI con la scusa che fosse un carrozzone divora-soldi, con lo spettro dell’austerità a fare capolino sul nostro futuro... “Spendete troppo…” “State vivendo al di sopra delle vostre possibilità…” “Dobbiamo “rivedere” (ossia tagliare) la spesa pubblica”...Diminuì il potere d’acquisto degli stipendi con la scusa della debolezza della  “Liretta”, con un’ulteriore riduzione ad ¼ il potere d’acquisto dei salari con l’adozione dell’euro a salari dimezzati (il vecchio milione e quattro divennero 700 euro, la metà) e prezzi raddoppiati (50mila lire divennero 50 euro, il doppio). Si precarizzarono i contratti togliendo tutti i vincoli sociali di tutela del salario e del contratto a favore del profitto, promuovendo conflitti orizzontali tra i lavoratori. E’ in questo contesto che stroncarono anche le pensioni. Tappa fondamentale fu il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, con la Riforma Dini del 1995. Vediamo ora la differenza tra il sistema retributivo e quello contributivo introdotto a seguito della riforma.

Il sistema retributivo per il calcolo della pensione si basa su tre elementi: 

1. anzianità contributiva, quindi gli anni di contributi versati; 
2. la retribuzione e/o il reddito; 
3. un’aliquota di rendimento, pari al 2% del reddito medio annuo. 

Per calcolare la pensione con il metodo contributivo, quindi, basta fare una semplice operazione: 2% di € 30.000 (ipotesi di reddito medio annuo) x 40 (ipotesi di anzianità contributiva) = € 24.000 Entrando più nel dettaglio, è necessario dire che il sistema di calcolo si divide in due modalità, definite quote: 

1. quota A: anzianità contributiva al 31-12-1992, media dei redditi degli ultimi 5 anni per i lavoratori dipendenti e degli ultimi 10 per i lavoratori autonomi; 
2. quota B: anzianità contributiva dal 1-1-1993, media dei redditi degli ultimi 10 anni per i lavoratori dipendenti e degli ultimi 15 per i lavoratori autonomi. In cosa consiste il metodo contributivo per la pensione Il metodo contributivo si basa, come suggerisce la parola, sui contributi versati dal lavoratore. 

Ai fini del calcolo della pensione è necessario: 

1. individuare la retribuzione annua dei dipendenti e il reddito annuo degli autonomi; 
2. calcolare i contributi di ogni anno sulla base dell’aliquota vigente; 
3. determinare il montante individuale: si tratta della somma dei contributi annui versati rivalutati secondo i parametri ISTAT; 
4. applicare il coefficiente di trasformazione, che varia a seconda dell’età del lavoratore. 

La riforma delle pensioni approvata dal governo Dini nel 1995 rappresentò un importante spartiacque per il sistema previdenziale italiano. Fino a quel momento, infatti, la pensione veniva calcolata con il metodo retributivo, ovvero prendendo come riferimento l’importo della retribuzione del lavoratore nella parte finale della sua vita lavorativa – e altri elementi a cui abbiamo accennato prima. Si trattava, all’epoca, di un metodo molto vantaggioso per i lavoratori, perché tendenzialmente il salario tende ad aumentare nel corso degli anni, raggiungendo una somma più alta rispetto a quella iniziale. In questo modo, anche se per buona parte della loro vita lavorativa avevano percepito uno stipendio medio, uno scatto di anzianità o una promozione negli ultimi anni di lavoro garantiva loro una pensione più elevata, cosa che incideva positivamente anche nel cosiddetto “welfare familiare", garantendo quindi un supporto indiretto ai figli e alle loro famiglie. 

Con la Riforma Dini si avviò un processo di passaggio dal metodo retributivo a quello contributivo. Prima di tutto sii introdusse un sistema misto, così strutturato:  per i lavoratori con almeno 18 anni di contributi al 31-12-1995, si continuava ad applicare il metodo retributivo; per i lavoratori con meno di 18 anni di contributi si applicava un criterio misto: retributivo fino al 1995 e contributivo per gli anni successivi; per i nuovi assunti dal primo gennaio 1996, si applicava invece il solo criterio contributivo. Un’altra grande svolta della riforma Dini è stata la “divisione” della previdenza italiana in due pilastri: il primo pilastro, rappresentato dalla previdenza obbligatoria;  il secondo pilastro, rappresentato dalla previdenza complementare, come il Fondo Pensione Multiservizi previsto dal CCNL Multiservizi. La Riforma Dini generò, di fatto, un trattamento iniquo nei confronti dei lavoratori, che a parità di contributi versati si vedevano assegnate indennità di pensione differenti. 

Questo sistema rimase in vigore fino all’approvazione della Riforma Fornero del 2011, con la quale vi fu il passaggio definitivo dal metodo retributivo a quello contributivo. Infatti, con l’approvazione della riforma da parte del Governo Monti, si estese il calcolo contributivo anche a chi era stato “graziato” dalla Riforma Dini, ovvero a tutti quelli che, al 31 dicembre 1995, avevano almeno 18 anni di anzianità di lavoro. A partire dal 1° gennaio 2012 il metodo contributivo è diventato l’unico metodo di calcolo per la prestazione pensionistica.

E se i contributi dipendono dal salario ed i salari sono sempre più miseri, ma perché non dare un’altra legnata favorendo forme contrattuali precarie dove non vige l’obbligo contributivo effettivo come stage, apprendistati e forme varie di socio-lavoratore o anche particellizzazione dei lavoratori con l’incentivo ad aprire le partite IVA?! Basta rendere invivibile il lavoro dipendente e totalmente alla mercé dei padroni, come fossimo ingranaggi intercambiabili e non persone! 

Ed eccoci arrivati ai giorni nostri. Ora l’ultima trovata della “nostra” classe dirigente è il prelievo forzoso del 25% del TFR (Trattamento di Fine Rapporto, la vecchia Liquidazione) da mettere nei fondi integrativi previdenziali PRIVATI, come proposto dalla Lega! In poche parole lo Stato, che si vorrebbe “non più in grado” di garantire l’erogazione delle pensioni, obbligherà i lavoratori a devolvere i propri soldi al grande gioco d’azzardo della finanza per nutrire le bolle dei fondi speculativi legati alla solita triade maledetta: Vanguard, Blackrock e State Street.

E se la borsa va male? E se le azioni dei fondi decadono? E se i fondi si fagocitano reciprocamente e devono prelevare liquidità per riequilibrare i bilanci?! Semplice: i soldi spariscono e te non becchi nulla di una pensione che ti servirebbe nella fase più vulnerabile della vita, ma tanto sei ormai un catorcio improduttivo e una rimessa, quindi puoi anche schiattare per loro, non garantendo più alcun profitto. Se ciò non bastasse, data la nota demenza che affligge le dirigenze occidentali, con la guerra alla Russia si vuole portare la spesa militare al 5% del PIL, tagliando i soldi a partire indovinate da cosa? Bravi! Le pensioni, i servizi, la sanità e l'istruzione (i trasporti oramai sono privati de facto) che così subiranno la definitiva privatizzazione e l’ingresso, profondo e definitivo, nell’incubo del modello anglosassone, a debito dei privati e senza tutela alcuna, dove vige la legge del più forte ed il ricatto esistenziale. 


(1) https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-generazione_antidiplomatica__volete_farvi_una_famiglia_in_italia/56812_57546/




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