HIROSHIMA, NAGASAKI E L’IMPOSTURA DEL SOGNO AMERICANO

HIROSHIMA, NAGASAKI E L’IMPOSTURA DEL SOGNO AMERICANO

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di Marcello Faletra

 

Nel suo Diario di Hiroshima il medico giapponese Michihiko Hachija, ricorda il 6 agosto del 1945, quando gli Stati Uniti sganciarono la prima bomba atomica, chiamata dai suoi custodi aviatori, Enola Gay. Ecco un brevissimo ma significativo passo del diario di Hachija: “ (...) i loro volti non esistevano più. Occhi, naso, bocca, tutto era stato mangiato dal fuoco, e pareva che le orecchie si fossero liquefatte; non si capiva più quale era il volto e quale la nuca. Ce n’era uno col viso irriconoscibile, senza labbra, si scorgevano i denti bianchi che gli spuntavano fuori; mi chiese un po d’acqua, ma non ne avevo. Ho congiunto le mani e ho pregato per lui.”

Per questo crimine eccezionale, impunito, tollerato, giustificato da tutte le cosiddette “democrazie” dell’Occidente, lo storico Daniel j.  Goldhagen ha scritto che “Harry Truman, trentatreesimo presidente degli Stati Uniti, era un assassino di massa”.

I giapponesi ormai erano sul punto di crollare e le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki non avevano alcuna ragione di essere utilizzate.

Avevano una funzione dimostrativa. Far vedere la potenza distruttrice degli yankee, recto-verso del topolino di Walt Disney, che nel frattempo colonizzava intere masse planetarie.

Oggi chi visita Hiroshima e ha la sensibiltà di visitare il Museo della Pace, che si trova nelle vicinanze del Ground Zero, noterà che è dedicato a Sadako Sasaki. Una bambina che nel 1945 al momento dello scoppio della bomba aveva solo due anni.  Sopravvissuta al cinismo nichilistico yankee, morirà qualche anno dopo di leucemia.

Sadako ha dato origine a molte iniziative artistiche, a monumenti, libri...la sua storia è emblematica, al punto che è diventata un’icona dello spartiacque tra modernità “progressista” e modernità nichilista. La bomba atomica sancisce per certi aspetti la fine del mito del progresso, a cui l’Occidente é ricorso per assoggettare interi popoli. D’altra parte i paladini dell’ideologia yankee, cioè i cosiddetti “neocons”, hanno eletto come presupposto politico ed economico universale l’idea che i paesi più ricchi debbano diventare sempre più ricchi poiché cosi i “paesi poveri” avranno una possibilità di diventare meno poveri. Un costrutto ideologico i cui esiti sono ben noti già a partire dalle due bombe atomiche, lanciate come avvertimento a chiunque rivendichi autonomia e libertà dall’imperialismo USA. Il messaggio lanciato dalle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki era evidente: i padroni della bomba atomica sono in potenza i padroni del mondo. La vittoria sul nazi-fascismo ha legittimato un rovesciamento di posizioni. Chi vince comanda, in qualsiasi modo.

A decidere è la forza. E l’assenza di ragione diventa la “ragion pratica” di questi filistei dell’economia della schiavitù. In questo scenario l’immagine della libertà subisce una deformazione spettacolare, come il fungo atomico che sale come un’apocalisse sopra il destino dell’umanità.

Ieri specchi e alcool servirono, tra altre cose, per assoggettare nel passato gli indiani nativi del continente americano. Dopo, di fronte a un nemico difficile da domare – i giapponesi - al termine della seconda guerra mondiale, che ha visto ben sessanta milioni di morti, di cui 29 solo russi, gli yankee hanno fatto ricorso all’arma definitiva, l’atomica. Che, però, come storicamente è stato dimostrato, non era necessaria.

Oggi siamo ai bordi del precipizio nucleare. La Nato, cioè gli Stati Uniti, con le sue mire imperialistiche, non si rassegna a mollare intere aree del pianeta, che ha assoggettato alle sue prerogative economiche, e che adesso le vede allontanarsi dal suo mantello double face – cioè da un lato entertainment e l’ontologia del consumismo come concezione della libertà, e dall’altro predazioni senza limiti come ricambio di queste presunte “libertà”. Ed è incredibile che la maggior parte dell’establishment mediatico fa finta di non sapere queste cose. Come il fatto che la maggior parte delle dittature del secondo dopoguerra sono state appoggiate, se non costruite direttamente, dalle amministrazioni yankee.

D’altra parte, come interpretare il fatto che nel 1946 Daniel McGovern, un cineoperatore e fotografo, membro della Strategic Bombing Survey (organo creato da Franklin Delano Roosvelt nel 1944) le cui immagini, riprese a un anno dalle bombe atomiche, furono censurate per oltre Trent’anni? Occorreva nascondere gli esiti devastanti di Hiroshima e Nagasaki.

Inoltre, occorreva nascondere nella loro interezza le immagini di quelle bombe, al punto che fu  istituito un apposito organismo di controllo delle immagini, ignorato dai giapponesi, denominato Civil Censorships Detachment. Inutile dire le funzioni di questa censura preventiva. L’immagine dell’American way of life andava protetta da qualsiasi interferenza legata ai dati di fatto: lo sterminio di due città, popolate da civili inerti.

Nel 1965 il giornalista americano Richard Hofstadter osservava che i crimini di Stalin sono serviti per giustificare quelli degli americani.

“Siamo quelli che esistono ancora”, osservava Günther Anders nel 1961. Seguendo questa affermazione si può dire che la domanda centrale per l’umanità, ieri come oggi, non è “come dobbiamo vivere?” ma “vivremo ancora?”, in quanto questo nemico assoluto e globale – la bomba atomica, tattica o strategica che sia – è il nemico di tutta l’umanità, non di una parte di essa. In genere in una controversia ci sono i pro e i contro. Ma come il nazismo e il fascismo, che per i loro progetti di sterminio razziale non sono opinioni, ugualmente l’arma nucleare non è un argomento di controversia. Ed è la stessa minaccia fatta trapelare da Netanyahu nei confronti dei paesi arabi, nonostante il fatto che sia stato lui e la sua cricca di criminali a decidere il genocidio dei palestinesi e di progettare assassini effettuati in territori stranieri, come ha fatto recentemente con il rappresentante di Hamas.

In una lettera che Einstein scrisse a Freud nel 1932 si legge: “la sete di potere della classe dominante è in ogni stato contraria a qualsiasi limitazione della sovranità nazionale…penso soprattutto al piccolo ma deciso gruppo di coloro che, attivi in ogni stato e indifferenti di fronte a considerazioni e limitazioni sociali, vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione di armi, soltanto un’occasione per promuovere i loro interessi personali…”; e prosegue più avanti: “(…) la minoranza di quelli che di volta in volta sono al potere ha in mano prima di tutto la scuola e la stampa, e perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò le consente di organizzare e sviare i sentimenti delle masse rendendoli strumenti della propria politica”.  Nella sua risposta Freud mise in evidenza il fatto che la guerra è un processo di regressione primitiva dove a decidere delle soluzioni è la forza fisica dominata dall’istinto di morte. Le due posizioni meriterebbero un più ampio commento (ma è stato già fatto da altri). Ci limitiamo ad accennare ad alcune considerazioni che oggi ritornano di grande attualità. 

Einstein nelle sue osservazioni pone l’accento sugli interessi economici e imperialistici che stanno a monte delle guerre ma che sono ben occultati dagli apparati ideologici come la scuola e la stampa al servizio delle dittature il cui obiettivo principale era la nazionalizzazione delle masse.

Freud, com’è noto, diversamente da Einstein, scava nella psiche umana per rintracciarvi il nocciolo di una regressione ontologica. Sotto il nome generico di “istinto di morte”, legge l’impulso dell’uomo alla distruzione, a cui si opporrebbe il “principio del piacere”. Ma la regressione dell’io alla sua condizione istintuale ha un prezzo sociale alto: l’indebolimento delle facoltà critiche della psiche. La coscienza morale e la responsabilità personale sono annullate.

Per Freud si tratta di un impulso masochistico originario che identificò con l’istinto di morte. Certo, la metafisica di Feud non aggiunge molto alle letture geopolitche (o imperialiste) della guerra come quella avanzata da Einstein, ma sollecita la riflessione sull’ontogenesi della guerra. E’ in questo teatro dell’assurdo che il masochismo e il sadismo giocano un ruolo decisivo per Freud. 

Il potere mostrato nei confronti di un’altra persona (o di uno stato) implica la possibilità di dominarlo, trasformandosi in una specie di protettore magico: io ti domino perché so ciò che è meglio per te, e nel tuo stesso interesse seguirmi senza opposizione. Indendiamoci, la Nato – rappresentata mediaticamente come difensore dei “valori democratici” dell’occidente – in questo scenario si pone come la figura universale di una potenza incapace di concepire lo spettro dell’altro. E’ l’arroganza cieca di un viscerale imperialismo a cui fa da specchio il terrorismo di ritorno dei paesi bombardati e distrutti mediorientali (Iraq, Afghanistan, Libia, Siria…la lista è lunga).

Quasi dieci anni dopo lo scambio di lettere tra Freud e Einstein, durante il suo esilio finlandese, Brecht raccoglieva una serie di foto propagandistiche del regime nazi-fascista accompagnati da versi ispirati all’antologia palatina (epigrammi), ma diversamente da questi animati da un tono disincantato, e dove l’individuo si trova di fronte a un doppio nemico, uno interno e uno esterno. In altre parole: ciò che stanno facendo di noi e ciò che già hanno fatto di noi.  L’estraneità della guerra agli interessi delle classi popolari è il filo conduttore di questa raccolta a cui diede il titolo didattico l’abbiccì della guerra. E nelle note al suo dramma la contenibile ascesa di Arturo Ui, scritto durante la seconda guerra mondiale, Brecht osserva: “nello stato moderno le classi dominanti in genere si servono per le loro imprese di uomini assai mediocri…il furfante in piccolo”; se oggi ci guardiamo intorno possiamo avere le immagini di questi uomini mediocri che giocano alla catastrofe mondiale. E’ cambiato qualcosa dopo oltre ottant’anni?  

Anatole France (citato da Simone Weil), afferma: “si crede di morire per la patria e si muore per gli industriali”.  L’ipocrisia dell’interesse comune con questa genia di “furfanti in piccolo”, come li definiva Brecht, passa sotto le mani degli interessi dell’industria delle armi. Ieri come oggi si profila un medesimo scenario: i popoli non hanno nulla da guadagnare da queste guerre. Sventolare ideali di democrazia occultando che in queste cosiddette “democrazie” la schiavitù è la forma più diffusa di condizione del lavoro, è pura impostura.

Simone Weil nel 1937 a tal proposito osservava: “l’interesse nazionale non può definirsi attraverso l’interesse delle grandi imprese industriali, commerciali o bancarie di un paese, poiché questo interesse comune non esiste”.

I signori dell’apocalisse – i cosiddetti “decisori” – dovrebbero decidere per tutti. Ma qui si apre un problema scottante: in che misura questi “decisori” sono rappresentativi della maggioranza dei popoli in questione?

Di fronte a questa ambigua parola il filosofo della tecnica Gunther Anders nel 1961 scriveva: “l’uso di questi termini è addirittura la prova della loro incompetenza morale: poiché in tal modo essi mostrano di credere che la loro posizione dia loro il monopolio e la competenza per decidere del «to be or not to be» dell’umanità; e di considerare l’apocalissi come un «ramo specifico»…se la parola democrazia ha un senso, è proprio quello che abbiamo il diritto e il dovere di partecipare alle decisioni che concernono la «res pubblica», che vanno, cioè, al di là della nostra competenza professionale e non ci riguardano come professionisti, ma come cittadini o come uomini…rinunciando a «immischiarci», mancheremmo anche al nostro dovere democratico”.

Ora, la possibilità di una guerra atomica è aumentata pericolosamente negli ultimi mesi.

D’altra parte, la mancanza di uno sguardo che si affacci sul mondo con un’ampia prospettiva fa cadere questo sguardo entro i limiti di un orizzonte che coincide con l’egemonia di interessi economici e militari sovra-nazionali. Mentre questo stesso orizzonte almeno dovrebbe coincidere con quello della nostra responsabilità entro la quale dovremmo sapere che potremmo colpire, ma anche essere colpiti. Che l’idea di pace possa essere un termine sospettato e perseguitato è il segno di una cultura politica imbecille e paranoica, che vede intorno a sé solo forze demoniache.

E non è da trascurare il fatto che dopo la seconda guerra mondiale siamo diventati incapaci di pensare politicamente la catastrofe nucleare globale, se non tramite le fiction, a cui abbiamo delegato questo compito, liberandoci di ogni responsabilità verso il presente e il futuro. In altre parole: se la minaccia e la paura deformano, la fantasia – paradossalmente – è realistica. Questa minaccia, oggi, non viene dallo spazio, ma dall’industria delle armi, da lobby affaristiche, da politici imbecilli senza scrupoli, da un esercito di giornalisti assoldati al dettato della guerra come principio di realtà, e per i quali il coraggio di aver paura di una catastrofe nucleare è da scartare a priori.

Paradossalmente, l’arcano della realtà riposa solo nelle fiction sulla fine del mondo, facendo dell’immaginazione un organo della verità.

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