I dazi e il capitalismo deglobalizzato

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I dazi e il capitalismo deglobalizzato

 

di Giuseppe Giannini

La questione dazi sta scombussolando le economie globalizzate. In seguito alle diffuse proteste,  alle contromisure europee, ai crolli nelle Borse, ma soprattutto con riguardo agli effetti sia sui risparmiatori interni che sull'attività delle imprese, la misura è stata temporaneamente sospesa. D'altronde americani ed europei viaggiano insieme ed il vero nemico è la Cina. Non è un caso che nei suoi confronti i dazi sono pure aumentati. Tuttavia da una persona instabile come Trump è possibile aspettarsi di tutto.

Economia di mercato, protezionismo e lotta fra capitalismi. In verità, è già da tempo che sono venute a galla tutte le contraddizioni insite in un modello di sviluppo che, per sua stessa natura, crea diseguaglianze fra Stati, continenti, e cittadini. Il liberismo ha fatto si che, a partire dagli anni'90, fossero limitati se non eliminati i contropoteri pubblici e sovranazionali i quali, fissando una serie di regole, attenuavano lo strapotere della finanza e dell'economia.

I protagonisti in negativo delle nuove possibilità concesse agli investitori economici sono stati i governi dei vari Paesi che, in tutte le sedi, hanno deciso di elargire spazi di operatività - i Trattati, il diritto concorrente  -  prima preclusi agli agenti economici (le multinazionali, i giganti del web ) vincolati al rispetto di norme a tutela del lavoro, ambientali, ma anche impossibilitati a concentrare le ricchezze o a fare cartello. All'interno di questo gioco all'accaparramento appariva conseguenziale che i partiti di destra e conservatori  venissero a trovarsi in prima linea a sostegno del fare impresa sulla pelle dei lavoratori. Invece, coloro che hanno tradito la rappresentanza conflittuale e sociale del mondo del lavoro, ed insieme ad essa le politiche inclusive e sociali, i diritti civili, ambientali e delle masse dei migranti, costretti a spostarsi oltre continente, sono stati i partiti ed i sindacati con un passato di sinistra. Comprati dall'imperialismo economico, premiati nell'essere stati accondiscendenti, sono fra gli attori del mondo che sta sopra.

Il fatto che siano diventati parte integrante della classe dirigente elitaria ha determinato come reazione lo spostamento a destra della classe lavoratrice privata di interlocutori credibili. Il nazionalismo e gli identitarismi nascono dalle ceneri della democrazia associata. Ora, il disturbatore Trump è apparso a tanti privi di coscienza politica ed etica come il possibile salvatore di un mondo in rovina. Peccato che esso rappresenti solo se stesso. Dice di avere a cuore la supremazia americana, come se nell'ultimo secolo fosse stata messa in dubbio.

In realtà, da capitalista le cui fortune risiedono nell'illegalità, nello sfruttamento, e nell'attacco alle istituzioni  (come Berlusconi), è l'esempio eclatante della mutazione antropologica avvenuta nelle società. Paesi spesso governati da personaggi impresentabili, corrotti, incompetenti che, in più, per ignoranza ed interessi personali, sacrificano la collettività. La guerra commerciale tra aree del mondo risiede in primis in quella che i marxisti chiamano crisi ciclica del capitalismo.

Recentemente ci sono stati altri fattori che hanno dato un deciso contributo alla recessione delle economie, a partire dalla bolla finanziaria-immobiliare del 2008 (connaturata a tale modello di sviluppo), ma un aspetto è stato trascurato dalle amministrazioni americane. Mentre loro pensavano di poter vivere sugli allori, consentendo alle corporations di continuare a delocalizzare nel Sud del Mondo, eludendo il fisco, sottopagando i lavoratori, devastando l'ambiente, ecc., qualcuno è stato più lungimirante. Infatti, nell'ultimo ventennio, il predominio economico statunitene è stato messo in discussione dall'ingresso in pianta stabile sugli scenari internazionali della Cina. Nel mondo globalizzato che tanto piace(va) agli americani le economie sono profondamente interconnesse.

Non solo per quanto concerne gli approvvigionamenti, le forniture, l'ultizzo di mano d'opera, i mercati. Anche e soprattutto per quanto riguarda le infrastrutture e i debiti. Ed il gigante cinese ha comprato interi settori dismessi dal pubblico, sostitutito brand nazionali, accollandosi anche dell'esposizione debitoria di tanti Paesi poveri. Nei quali ha investito miliardi per creare tutto quel complesso infrastrutturale essenziale alla ripresa. Soprattutto nell'ambito delle nuove tecnologie: il green, le auto elettriche, la rete veloce, l'intelligenza artificiale. In quella digitalizzazione nella quale siamo immersi, e che necessità di competenze e materie prime, è davanti a tutti, ed insieme agli alleati BRICS rappresenta il vero competitor degli americani.

Quando sentiamo i premier europei dire di voler difendere gli interessi delle imprese continentali e forse anche dei consumatori, in pratica di cosa parlano? A quale tipologia di aziendalismo afferiscono? Tanto le manovre economiche degli esecutivi nei singoli Paesi quanto le decisioni sovranazionali hanno un impatto diverso sulle piccole e grandi imprese e così anche sulle tasche dei cittadini. L'impresa locale, che agisce sul territorio, coloro che autoproducono e distribuiscono nell'economia di prossimità, sono stati già duramente attaccatti da decenni di derogolamentazione. Ai quali aggiungere gli interessi delle multinazionali, le politiche sui brevetti, la grande distribuzione organizzata (pensiamo alle eterogenee proteste degli agricoltori).

L'impresa di medie dimensioni, che magari utilizza un brand per stare sul mercato della competizione, risente della concorrenza sleale dei grossi centri commerciali e della vendita on line. Il tanto vantato made in Italy non è più il settore manifatturiero o l'artigianato, ma è quello del lusso dei grandi marchi o dell'export enogastronomico, che molto prima delle policrisi avevano già spostato i propri affari (sedi fiscali ed attività produttive) in posti più "attrattivi" per quanto riguarda il pagamento delle tasse.

Quindi il problema dei dazi è relativo, nel senso che amplificherà situazioni pregresse, dove a rimetterci saranno, ancora una volta, maggiormente le piccole attività produttive ed i lavoratori a basso reddito. L'abbiamo constatato a causa di decenni di politiche neoliberiste, ultimamente con gli effetti diseguali dovuti ai bonus covid, e poi l'impennata dei prezzi e le speculazioni conseguenti alle guerre in corso. Infatti, l'aumento dei costi energetici e dei beni del paniere grava pesantemente sui redditi da lavoro dipendente e le pensioni. L'impatto inflazionistico non è stato compensato dal potere d'acquisto fermo da trent'anni a causa del blocco salariale e dei mancati rinnovi contrattuali. Nelle guerre economiche c'è chi si arrichisce, e sono i soliti noti: i grandi fondi di investimento, la grade impresa, i faccendieri.

Rimane, dunque, uno scontro all'interno del mondo capitalistico, tra chi reclama maggiore autonomia in senso sovranista come Trump e chi, l'Unione Europea ed i singoli Stati, ha fatto del  neoliberismo tecnocratico l'arma a sostegno della globalizzazione dei disastri. Il primo è spinto da ragioni elettorali, dovendo accontentare l'industria tradizionale americana, sapendo benissimo che invece, una parte consistente di chi lo ha sostenuto -  i miliardari, la Silicon Valley, i colossi della Big Tech, le aziende quotate in Borsa -  saranno le prime a patire in caso di dazi, travolgendo anche gli altri settori.

I secondi, tranne rare eccezioni, come la Spagna che ha già predisposto 14 miliardi di aiuti per le imprese immediatamente e direttamente colpite, di cui la metà utilizzando i fondi del Recovery Plan, pensano bene di continuare come prima, sottoscrivendo gli 800 miliardi per la guerra ma non per le politiche sociali e la vera riconversione dei sistemi produttivi. L'altra faccia del bellicismo dell'Occidente.

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