I "vendipatria" e la morte dell'Europa

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I "vendipatria" e la morte dell'Europa

 

Gli Stati Uniti d’America considerano l’America Latina come il proprio giardino di casa, un loro possedimento da gestire come meglio credono. Per dare concretezza a ciò gli USA attuano una serie di misure coercitive di natura politica, culturale, economica e militare; queste tuttavia, per quanto invasive possano essere, talvolta non bastano ad affermare il dominio statunitense e pertanto si deve ricorrere ad agenti in loco. Non solo statunitensi che nei paesi latinoamericani lavorano per gli USA, ma persone locali al comando di Washington.

Questi sono individui che di norma rivestono ruoli chiave nella società: politici, funzionari pubblici, militari, giornalisti, imprenditori, etc. L’elemento che li accomuna è quello di agire per conto e/o negli interessi degli USA piuttosto che del proprio Paese. Questi agiscono per puro interesse economico (sono prezzolati dagli USA), anche se talvolta non mancano spinte di natura ideologica, religiosa, culturale, etc. In America Latina per indicare questi soggetti si adopera il neologismo “vendepatria”: cioè delle persone che vendono la propria patria, l’unione di due parole che descrivono in maniera efficace e sintetica un fenomeno ampio e variegato.

Alla luce del mutato contesto internazionale, ritengo necessario e urgente diffondere la conoscenza e l’uso di questo termine anche nel dibattito politico italiano, ovviamente nella traduzione di “vendipatria”.

Lo scenario inedito che ci troviamo ad affrontare in questa fase non è la guerra imperialista, a quella noi occidentali siamo avvezzi, bensì le conseguenze di questa. Successivamente alla Seconda Guerra Mondiale (con una particolare accelerazione dopo la dissoluzione dell’URSS) abbiamo partecipato a numerose guerre scatenate dagli USA, ma in tutte abbiamo ottenuto un vantaggio di tipo economico o geo-strategico. Questa volta invece i nostri governanti (supportati da funzionari pubblici, giornalisti, galoppini vari, etc) ci stanno trascinando in una guerra per noi inedita: una guerra in cui a prescindere da chi la vinca, noi perderemo comunque.

Siamo di fronte ad uno scontro epocale tra Stati Uniti e Russia e questo (sia se sarà militare, sia se sarà politico-economico) si combatterà sul suolo europeo portando morte e distruzione. In qualsiasi scenario possibile, per noi non si ravvisa alcun vantaggio materiale dalla guerra, vedremo aumentare la ricattabilità e la dipendenza per l’approvvigionamento energetico e per quello alimentare, ma anche sul piano industriale ci saranno pesanti conseguenze. In definitiva, la nostra economia verrà duramente colpita.

L’Europa non ne trarrà alcun giovamento, tuttavia i vendipatria ne otterranno un grande vantaggio personale. Siamo cioè nelle mani di una cricca che ci porterà alla rovina in cambio di un meschino tornaconto per loro stessi.

Si badi bene che non sto ancora facendo riferimento al piano etico o morale, su cui la condanna è ferma e piena tanto per le guerre in cui abbiamo ottenuto dei vantaggi, quanto in questa in cui ci andremo inevitabilmente a perdere. Ancora più netto il giudizio sul piano ideologico, dato che i paesi occidentali (ancora una volta) si sono posizionati dal lato sbagliato della storia, arrivando a sostenere i nazisti.

Gli USA sono una bestia morente, incapace di andare avanti se non a discapito di altri paesi, finora siamo stati alleati delle loro guerre di rapina, ora stiamo diventando i rapinati. Gli USA vogliono spolparsi quel che resta dell’Europa, deindustrializzarla, aumentarne la subalternità e la dipendenza al fine di rinviare la propria capitolazione. Per farlo ricevono l’aiuto e i servigi dei vendipatria nostrani. La scelta sul da farsi è semplice: fermarli e riprendere in mano il nostro futuro, è l’opzione giusta e conveniente.

Alberto Fazolo

Alberto Fazolo

Alberto Fazolo. Laureato in Economia, esperto di Terzo Settore e sviluppo locale. Giornalista. Inizia l'attività giornalistica testimoniando la crisi del Kosovo e la dissoluzione della Jugoslavia. Ha trascorso due anni in Donbass, profondo conoscitore delle vicende ucraine. Attivo nei movimenti di solidarietà internazionalista, soprattutto in contrasto con le operazioni di "Regime change".

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