Il destino dell'Europa nella nuova guerra fredda
Pubblichiamo l'intervento di Francesco Maringiò tenuto al convegno organizzato dall'international manifesto Group, il convegno può essere visto qui
Nel 1946, dall’ambasciata americana a Mosca, George Kennan scrisse al dipartimento di Stato un telegramma speciale, passato alla storia con il nome di “Long Telegram”. La teoria in esso espressa ispirò la politica del “containment” di Truman nel ’47 e del seminario strategico segreto (il Solarium Exercise) dell’estate del 1953 voluto dal Presidente Eisenhower. Il seguito di quelle scelte è parte della storia: nascita dell’Alleanza Atlantica (NATO), guerra fredda, corsa al riarmo atomico, conflitti regionali in Asia e Africa.
In realtà, come dimostrano i documenti declassificati dagli archivi britannici e statunitensi, già durante gli ultimi anni della guerra, gli Stati Uniti lavoravano per rendere permanente la loro presenza nel continente europeo (almeno nella sua parte occidentale) e contribuire a rafforzare un processo di integrazione continentale che rappresentasse da un lato una controffensiva del capitale europeo al protagonismo del movimento operaio e dei movimenti di liberazione partigiani e, dall’altro, fosse parte integrante di un blocco di dominio euro-atlantico. Con la sconfitta dell’Urss tale processo troverà un ulteriore fase di allargamento, con la guerra di aggressione alla Jugoslavia e l’ingresso (prima nella Nato e poi nell’UE) di paesi dell’est, alleati di ferro degli Stati Uniti e tra i protagonisti di una isteria anti russa ed anticomunista. Alcuni studiosi di geopolitica in Italia, definiscono infatti l’Unione europea come l’Impero europeo dell’America (IEA).
Nel tentativo di ripetere la storia è apparso un altro telegramma, reso noto da Atlantic Council, il think tank di Washington attivo sostenitore del primato americano e dell’Alleanza atlantica. Il titolo è “The Longer Telegram” (longer, perché è lungo più del doppio di quello di Kennan) che nel definire la Cina un nemico strategico in espansione, precisa cosa debbano fare gli Stati Uniti per affrontare questa minaccia e per convincere la Cina - queste le loro parole- che è nel suo interesse continuare ad operare all'interno dell'ordine internazionale liberale guidato dagli Stati Uniti. Anche in questo caso, ci sono dei precedenti che illustrano la strategicità di questo approccio americano: il pivot to Asia del 2011 e la strategia di sicurezza nazionale degli stati uniti d’America varata nel 2017, in cui si annuncia una competizione strategica con la Cina, definita “potenza revisionista”. Secondo gli studiosi cinesi, la strategia Usa non potrà più essere quella del “containment”, ma bisogna usare il concetto di “confinement. Dato che la Repubblica Popolare è la seconda più grande economia del mondo e un'influente potenza commerciale mondiale, applicare ad essa la strategia di "contenimento" stile Guerra Fredda non funzionerà. L'obiettivo principale degli Stati Uniti è quindi quello di impedire alla Cina di risalire la catena del valore globale per diventare una potenza manifatturiera avanzata.
Tuttavia assistiamo anche alle classiche operazioni di “containment”: il primo summit globale presieduto Joe Biden è quello del QUAD, il Quadrilatero che riunisce Usa, Giappone, Australia ed India in una chiara strategia anti-cinese e, negli stessi giorni, il segretario generale della Nato ricorda che la “minaccia cinese” è al centro della nuova dottrina Nato, che Stoltenberg esorta a elaborare, allargando la sfera strategica dell'Alleanza atlantica verso l'Estremo Oriente.
Eppure il mondo è profondamente cambiato rispetto ai tempi della guerra fredda. Già più di un decennio fa, Giovanni Arrighi descriveva il mondo contemporaneo come attraversato da un caos sistemico che accompagna le transizioni egemoniche, in particolare la transizione dall’egemonia americana a qualcosa d’altro, con la Cina che si candida a prendere il posto degli Stati Uniti. Oggi siamo di fronte ad una svolta figlia della crisi economica e finanziaria del 2008, che ha eroso le fondamenta dell’egemonia americana, con la Cina che nel 2010 ha superato il Giappone, divenendo la seconda economia del pianeta e conquistando le vette dell’innovazione tecnologia. La crisi pandemica ha amplificato questa tendenza e la Cina è diventato il paese che ha superato gli Stati Uniti nel valore degli scambi commerciali con l’Unione europea, nell’anno nel quale è stato annunciato l’accordo sugli investimenti UE-Cina, che gli USA stanno scrutinando con grande attenzione.
In questo mio intervento, voglio far riferimento a due aspetti del contesto europeo, in questa dinamica da guerra fredda: il rapporto degli Usa con la Germania ed il contesto italiano, con il recente cambio di governo. La strategia Usa in Europa cambia negli anni di Obama, quando emerge la paura degli apparati americani che la Germania stia diventando troppo potente sul piano economico e che sfrutti le istituzioni comunitarie per i propri fini. Vengono guardate con sospetto le relazioni di questo paese con la Cina, ma soprattutto la speciale relazione con la Russia, suggellata dal progetto del North Stream che collega direttamente i due paesi, scavalcando la “cortina di ferro” dei paesi russo-fobici e più fio-atlantici del continente europeo. Questa strategia diventa negli anni di Trump ancora più evidente. Il rapporto tra la Germania e la Russia spaventa anche alla luce di un altro aspetto: una parte degli apparati americani e dell’élite europee, spinge per una maggiore apertura alla Russia, in chiave anticinese, al fine di scardinare il patto sino-russo e la cooperazione euro-asiatica tra questi due grandi paesi. Ma l’apertura alla Russia, se dovesse portare ad una maggiore cooperazione con l’asse franco-renano e conosciuti i rapporti speciali di amicizia di Mosca con l’Italia, per non parlare della Serbia o della Grecia, creerebbe uno sbilanciamento di rapporti in favore di una cooperazione euro-asiatica, che a Washington temono enormemente. E poi c’è il rapporto di Berlino con Pechino, che l’alleanza atlantica cerca di incrinare sia colpendo la manifattura tedesca con il progetto di “rivoluzione green.
Il contesto italiano è altrettanto interessante: al cambio della presidenza americana, si è avuto un cambio del governo italiano, a dimostrazione del fatto che siamo un paese a sovranità limitata, almeno dalla seconda guerra mondiale. Al precedente governo pezzi di apparato americano imputano di essere stato troppo disponibile nei confronti dell’amministrazione Trump e troppo disinvolto nella costruzione delle relazioni con la Cina al punto da esser stato il primo ed unico paese del G7 ad aver sottoscritto il Memorandum sulla Belt and Road Initiative. L’attuale Presidente del Consiglio, ex presidente della Banca Centrale Europea, garantisce il vincolo di solidarietà atlantica da almeno tre punti di vista. Il primo è la cooperazione con la Germania e la Francia nel processo di consolidamento dell’Eurozona, al fine di contrastare i movimenti di protesta popolari che negli ultimi anni hanno messo in discussione l’appartenenza all’Ue. La tenuta dell’Ue è una pedina fondamentale degli Usa nella strategia di confronto strategico con la Russia e la Cina. Dall’altro lato, la storica vicinanza del Presidente Draghi alla parte più importante degli apparati americani, garantisce gli Usa che l’Italia contrasterà la Germania nel suo tentativo di trasformare la sua egemonia economica in fattore strategico. Infine, ma non per importanza, può diventare un fattore di bilanciamento alla politica estera dell’attuale Pontefice, che nella sua visione rovescia l’impostazione gerarchica che vorrebbe l’Occidente (e la cooperazione euro-americana) al centro del mondo, manifestando una chiara intenzione al dialogo con la Cina.
Un progetto per l'Europa, capace di tutelare e rispettare la sovranità di ciascun paese e diventare un continente che lavora per la pace e le cooperazione internazionale, può prendere corpo se si concretizzano due precondizioni: 1) la fuoriuscita dall'atlantismo attraverso un processo di accumulazione di forze che imponga nuovi ed avanzati equilibri tra capitale e lavoro in Europa e 2), quella che Samir Amin definiva la «costruzione di una nuova alleanza politica e strategica fra Parigi-Berlino-Mosca, prolungato, se possibile, fino a Pechino e Delhi» , ossia una strategia di cooperazione euro-asiatica per il 21°secolo, ed abbandonando quindi in Europa posizioni russofobe e, soprattutto, la tracotante pretesa di voler imporre, in ogni luogo ed in ogni tempo, la riproduzione del nostro modello di società.