Il dinamismo turco in Africa umilia la UE
di Gabriele Germani
I capi di Stato al vertice dell’Unione Africa del 15-16 febbraio hanno fissato il prossimo summit Turchia-Africa, in Libia.
Ankara aveva ottenuto nel 2005 lo status di osservatore e nel 2008 quello di partner di interesse speciale per l’organizzazione. Replicando uno schema di cui abbiamo già parlato riguardo l’ASEAN.
La diplomazia neo-ottomana stabilisce un dialogo a due con le singole nazioni, ma cerca anche di entrare come osservatore in tutti i consessi regionali. Queste rende possibile il raggiungimento di accordi commerciali globali e la penetrazione attraverso il soft power.
Non serve qui citare nuovamente la diplomazia degli aerei o l’apertura di innumerevoli ambasciate e consolati.
La Turchia ha avuto nel dopo Gheddafi un ruolo chiave nel paese nordafricano.
Quando, questa estate, il governo di Tripoli dimise il Presidente della Banca Centrale, causando l’ira di Bengasi, spettò ad Ankara, assieme al Qatar e all’Egitto, mediare tra le parti. A suo tempo, alcuni parlarono di intervento russo nelle vicende interne. Mosca avrebbe spinto Haftar, suo alleato in Cirenaica a bloccare la produzione di petrolio, danneggiando le economie occidentali.
Un percorso che ci ricorda la Siria.
Le due crisi sono simili: due leader vicini a Mosca, rovesciati da una galassia di ribelli che vede al suo interno anche delle componenti legate ad Erdogan (senza sopravvalutarne il ruolo).
Qualche settimana fa, Ankara ha reso noto la possibilità di accordo con il nuovo governo siriano sulle ZEE (le zone economiche marine). Questa mossa ricalca quanto già fatto nel 2019 con le autorità libiche. I confini marittimi della Turchia sono motivo di tensione con la Grecia e i suoi alleati: Cipro e in seconda battuta Israele. Non solo per le ricchezze dei fondali, ma anche per la capacità di proiezione che l’Anatolia cerca di ottenere da almeno un secolo.
Il trattato di Losanna del 1923, alla fine della I Guerra Mondiale e del conflitto greco-turco, confermò il controllo di Atene su gran parte delle isole egee. Questo fu ribadito nel Trattato di Parigi, alla fine della II Guerra Mondiale, quando l’Italia lasciò il Dodecaneso ad Atene. La Turchia si trovò dunque chiusa nelle proprie coste, con davanti una barriera naturale.
L’accordo sulle ZEE del 2019 con la Libia implicava che i confini marittime delle due nazioni si toccassero. Le zone a contatto sarebbero la proiezione delle coste egee turche e quella più orientale delle coste libiche. Questo raggio immaginario passa al di sotto dell’isola di Creta, che come tale avrebbe (seconda Ankara) una ZEE con margine ridotto rispetto alla piattaforma continentale.
La Grecia e l’Egitto risposero nel 2020 con un contro-accordo. Le parti non arrivarono a dichiararsi confinanti, ma sottintendevano il non riconoscimento dell’accordo turco-libico e la possibilità di una zona economica speciale più estesa anche per le isole
Tornando al presente, lo spostamento annunciato nelle settimane passate di armi russe dalle basi siriane a quelle libiche, conferma la natura ambivalente del rapporto turco-russo. Da un lato, Ankara svolge un ruolo indiscutibile di contenimento delle ambizioni di Mosca, dall’altro adopera una strategia spregiudicata per diventare interlocutore privilegiato del suo stesso rivale.
Questa è la natura della politica, si tratta con un avversario riconosciuto come tale. In questo Ankara ha tenuto una linea opposta a quella di Bruxelles che negli anni ha demonizzato Putin. Oggi gli europei sono sconfitti dal loro stesso grande alleato che, cambiato il governo, opta per trattare direttamente con Mosca.