Il discorso di Trump e la nuova strategia USA
Riferimenti storici e ambizioni globali nel discorso inaugurale
di Gabriele Germani
È stato un discorso ottocentesco, da Presidente che intende rilanciare il paese verso il futuro e che riempirlo di speranze. Era un dialogo rivolto all’America profonda, millenarista e cristiana, in cui l’uomo prometeico cammina da solo nelle praterie con la Bibbia in una mano e il fucile nell’altra, un uomo che è destinato a costruire il proprio destino.
Tanto destino manifesto e tanta volontà di far capire che gli Stati Uniti non scherzano più. Si apre una nuova fase. Un competitore sorge ad Est ed il nuovo Presidente cambia strategia.
Assieme a Panama, non sarà sfuggito ai più il riferimento al venticinquesimo presidente: William McKinley. Un uomo dimenticato in patria e sconosciuto al resto del mondo, perché ricordarlo in un passaggio così importante?
Trump parla al suo paese e non al resto del mondo. Gli USA devono ritrovarsi, si sono smarriti, ma ora le cose cambieranno, suggerisce, e questo vuol dire anche ricostruire la propria storia.
A seguire vi sono valutazioni di ordine politico: McKilney rimane a noi noto per le politiche protezionistiche e per la guerra ispano-americana combattuta nel 1898. Gli USA lasciarono maturare le tensioni, fino a giungere al misterioso affondamento della corazzata USS Maine in visita a L’Avana. All’epoca Cuba era l’ultima riottosa grande colonia spagnola nel continente americano.
Madrid del suo vecchio impero conservava Cuba, Puerto Rico, le isole Marianne, le isole Caroline, le Filippine e qualcosa in Africa.
Lo scontro fu rapido e portò alla vittoria degli Stati Uniti che ottennero l’annessione di Puerto Rico come territorio, l’indipendenza (temporaneamente occupata) di Cuba e le Filippine, dove la guerriglia indipendentista proseguì fino al 1902 e fu repressa con metodi brutali dai nuovi padroni; infine l’annessione di Guam (parte della colonia spagnola delle isole Marianne e Caroline, che nel 1899 la Spagna vendette alla Germania).
Con l’occasione gli USA ratificarono anche l’annessione delle isole Hawaii come territorio alla federazione (sarebbero diventate uno stato nel 1950). Precedentemente dei coloni occidentali, legati alla produzione di zucchero in piantagione, avevano realizzato un golpe contro la monarchia locale e chiesto l’annessione. In un primo momento, il Congresso per questioni geografiche ed etniche aveva rifiutato la proposta.
La questione della razza tenne banco anche per Cuba e Puerto Rico. Il timore era che questi territori avrebbero peggiorato le caratteristiche etniche della popolazione USA.
Razzismo, suprematismo e imperialismo questi erano i capisaldi del periodo.
La guerra ispano-americano fu tassello necessario per la costruzione del Canale di Panama, all’epoca in fase di progettazione.
Con l’annessione di Guam, Puerto Rico, Filippine e l’unione delle Hawaii, gli USA passavano ad una nuova corsa verso il West. Concluso il processo di unificazione del territorio continentale, risolta la questione interna della schiavitù e avviato un grande processo di collegamento e omogeneizzazione del grosso del corpo statale, Washington si lanciò verso due direttrici: il Golfo del Messico e l’Oceano Pacifico.
Nel 1901 gli USA ottenevano il permesso di portare avanti il progetto del canale da Bogotà; nel 1903 la Colombia si ritirava dall’accordo e gli USA spinsero la formazione dello stato panamense. I lavori dell’infrastruttura si avviarono nel 1907 e conclusero sette anni dopo, nel 1914.
Le azioni odierne di Donald Trump non devono dunque stupirci. Il riferimento al presidente McKilney è quello all’avvio dell’imperialismo statunitense oltreoceano, un espansionismo mirato verso l’estero, persino intercontinentale. Gli USA si ponevano come eredi (e avviavano in quel momento la salita sul podio) del sistema-mondo occidentale, diventavano il nuovo centro controllando i due oceani.