Il “Piano Mattei” tra realtà e propaganda

Il “Piano Mattei” tra realtà e propaganda

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di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico

 

Nei giorni scorsi, la premier Giorgia Meloni ha colto l’occasione presentatasi con il viaggio di Stato in Algeria per definire i tratti generali del cosiddetto “Piano Mattei”, che in omaggio al mai sufficientemente compianto fondatore dell’Ente Nazionale Idrocarburi (Eni) impegnerebbe l’Italia a siglare intese transnazionali con i Paesi del bacino del “Mediterraneo allargato” finalizzate a «trasformare le tante crisi in possibili occasioni», attraverso lo sviluppo di una cooperazione multilaterale su base paritaria e pertanto scevra da qualsiasi intento predatorio.

Nelle intenzioni dei suoi promotori, l’ambizioso disegno strategico presentato dal capo dell’esecutivo di Roma dovrebbe trasformare l’Italia nel principale centro di distribuzione degli idrocarburi estratti in Africa settentrionale, Levante e Caucaso, nonché in uno snodo fondamentale per l’energia prodotta da fonti rinnovabili – attraverso progetti come quello messo in cantiere da Terna per la costruzione di un interconnettore elettrico sottomarino con la Tunisia.

Il primo, fondamentale tassello del complesso mosaico ideato dal governo Meloni è costituito dall’Algeria, di cui la stessa premier ha evidenziato la centralità durante il vertice con il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune. La nazione nordafricana, che stando alla Us Energy Information Administration disporrebbe di 159 miliardi di piedi cubi di gas, si è infatti affermata nel corso del 2022 come il maggior fornitore di gas dell’Italia, sulla scia del rapido sganciamento del “bel Paese” dalle forniture russe avviato in seguito allo scoppio del conflitto russo-ucraino. I dati indicano che, al dicembre dell’anno appena trascorso, la quota del fabbisogno italiano di gas coperta dalla Russia era crollata su base annua dal 40 al 16%, per poi attestarsi nelle settimane successive a un misero 3%. Entro lo stesso arco temporale, la copertura garantita dall’Algeria è cresciuta dal 22 al 34% grazie soprattutto all’incremento dei flussi transitanti attraverso la conduttura TransMed (che connette i giacimenti algerini ai terminali siciliani).

Le basi per l’incremento dei volumi di gas destinati all’Italia erano state gettate tra l’aprile e il luglio del 2022, quando, a margine di una serie di incontri di alto profilo tra l’allora primo ministro Mario Draghi e le autorità algerine, Eni dapprima strappò alla sua omologa algerina Sonatrach l’impegno ad aumentare le forniture via TransMed di almeno 9 miliardi di metri cubi entro il 2024. Successivamente, coinvolse la stessa Sonatrach in un’intesa a quattro con le compagnie TotalEnergies e Occidental Petroleum finalizzata alla messa a regime di alcuni giacimenti di idrocarburi individuati nel bacino del Berkine. Lo scorso 22 gennaio, la Meloni si è inserita nel solco tracciato dal suo predecessore patrocinando il raggiungimento di cinque accordi intesi a «rafforzare ulteriormente le eccellenti relazioni» tra i due Paesi in ambito politico, economico e culturale, ai quali sono andati a sommarsi quattro intese private. Tra cui spiccano quelle sottoscritte da Eni e Sonatrach, in materia di contenimento delle emissioni di gas serra, di realizzazione di condutture atte al trasporto di idrogeno ed energia elettrica, di sviluppo di tecnologie per la produzione di Gas Naturale Liquefatto (Gnl) e di incremento addizionale delle esportazioni di gas dall’Algeria all’Italia e all’Unione Europea nel suo complesso, mediante il potenziamento del gasdotto TransMed. Stando alle dichiarazioni formulate dall’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, l’accordo con l’Algeria porrebbe concretamente l’Italia nelle condizioni di azzerare le importazioni di gas russo già a partire dall’inverno prossimo. Più specificamente, ha spiegato Descalzi, «sono stati dati più di 3 miliardi di metri cubi e altri 3 miliardi nel 2023 e poi altri ancora. Bisogna pensare che solo 2 anni fa l’Algeria dava all’Italia circa 21 miliardi, adesso ha dato 25, arriveremo a 28 miliardi l’anno prossimo e poi nel 24/25 supereremo ancora».

Un ottimismo davvero smaccato, quello ostentato dall’amministratore delegato di Eni, che evidentemente non intravede alcun potenziale fattore critico in grado di pregiudicare la capacità reale di Algeri di tener fede agli impegni presi con l’Italia. Eppure, il periodo di bassi prezzi dell’energia protrattosi dalla tarda estate del 2014 all’autunno 2021 ha ridimensionato considerevolmente le entrate dell’industria energetica algerina, contingentando la sua disponibilità finanziaria riciclabile in investimenti finalizzati ad incrementare la produzione di petrolio e gas. Una limitatezza di risorse che ha con ogni probabilità contribuito a far sì che l’Algeria riuscisse ad aumentare l’export di gas verso l’Italia “soltanto” di 1,8 miliardi di metri cubi tra il 2021 e il 2022, a fronte dei 3 previsti dall’accordo siglato lo scorso aprile. C’è anche la possibilità che l’incremento dei volumi in uscita verso l’Italia derivino da uno “storno” dei flussi destinati originariamente alla Spagna tramite il condotto Maghreb-Europe Gas Pipeline, che l’Algeria ha ridotto drasticamente minacciandone anche la completa interruzione sulla scia di un contenzioso sorto a causa del supporto accordato dal governo di Madrid alle rivendicazioni avanzate dal Marocco – rivale regionale dell’Algeria – sul territorio del Sahara occidentale.

La necessità tassativa di incrementare la produzione in tempi rapidi ha spinto Sonatrach a sottoscrivere nel febbraio 2022 una partnership paritaria con Gazprom (51 contro 49%) per lo sfruttamento dei giacimenti di Rhourde Sayeh e Rhourde Sayeh North, a cui l’azienda statale algerina attingerà inesorabilmente per soddisfare la domanda italiana. Il coinvolgimento del colosso russo del gas nella produzione energetica algerina risulta alquanto sgradito agli Stati Uniti, così come la spiccatissima tendenza dell’Algeria – in eccellenti rapporti con Mosca quantomeno dagli anni ’70 – a rifornirsi di sistemi d’arma di fabbricazione russa. Lo si evince dal contenuto della lettera inviata al segretario di Stato Antony Blinken da un gruppo bipartisan di deputati statunitensi guidati dalla repubblicana del Michigan Lisa McClain, in cui si richiedeva ufficialmente di imporre sanzioni immediate e significative contro i membri del governo algerino ai sensi del Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act, in base all’accusa di «sostenere il regime tirannico di Putin». «Il rapporto sempre più stretto instaurato dall’Algeria con la Russia, dalla quale vengono acquistati aerei da combattimento, costituisce una minaccia per tutte le nazioni del mondo», si legge ancora all’interno della lettera, puntualmente recepita nelle sue linee guida da alcuni membri del Parlamento Europeo espressisi a favore della revisione dell’Accordo di Associazione siglato da Unione Europea e Algeria poiché quest’ultima «fornisce sostegno politico, logistico e finanziario alla Russia nella guerra contro l’Ucraina». I precedenti storici emblemizzati dal caso dall’Iran, i cui scambi commerciali con l’Italia crollarono letteralmente in seguito alla re-imposizione delle sanzioni Usa disposta dell’amministrazione Trump, forniscono coordinate piuttosto affidabili per prevedere l’esito a cui approderebbero i grandi progetti messi in cantiere dall’Italia e dall’Eni in Algeria, qualora l’apparato dirigenziale statunitense decidesse di adottare misure punitive nei confronti della nazione nordafricana.

Non meno problematica risulta la “tenuta” della Libia, l’altro pilastro su cui poggia il “Piano Mattei” detentore di riserve accertate pari a 48 miliardi di barili di petrolio (di alta qualità) e a oltre 53 trilioni di piedi cubi di gas. Recentemente, sempre nell’ambito della tournée africana di Giorgia Meloni, l’Eni si è impegnata con la società energetica libica National Oil Corporation a effettuare ben otto miliardi di dollari di investimenti per lo sviluppo di due giacimenti di gas situati al largo delle coste occidentali della Tripolitania e contenenti riserve stimate pari a 6 trilioni di piedi cubi. La messa a punto de i relativi impianti di estrazione richiedere un triennio, concluso il quale, ha dichiarato il presidente libico Farhat Bengdara, la produzione annua dei pozzi dovrebbe attestarsi a 8,8 miliardi di metri cubi per i successivi 25 anni ed essere convogliata in direzione delle coste di Gela tramite il gasdotto sottomarino GreenStream. L’Eni ritiene di poter ammodernare la conduttura per ampliarne la capacità di trasporto, pari allo stato attuale a 6 miliardi di metri cubi di gas all’anno ma concretamente limitata al 40% del potenziale massimo del gasdotto e al 30% scarso dell’ammontare complessivo di gas prodotto dall’Eni nel 2022.

Le ragioni che stanno alla base del mancato sfruttamento a pieno regime del GreenStream, e più in generale della sostanziale esclusione della Libia dal mercato energetico globale, vanno ricercate nel caos in cui il Paese è sprofondato all’indomani della guerra mossa dallo schieramento occidentale contro la Jamahiriya ad appena sei mesi di distanza dalla sottoscrizione del Trattato di Amicizia e Cooperazione italo-libico. Il governo Berlusconi, come è noto, fece carta straccia dell’accordo dietro forti pressioni esercitate per tramite del Quirinale dagli anglo-franco-statunitensi, prendendo direttamente parte all’intervento militare condotto sotto l’egida della Nato in seguito alle difficoltà militari riscontrate nelle prime fasi del conflitto dalla propaggine oltranzista dello schieramento atlantico, imperniata sull’asse Londra-Parigi.

L’assassinio di Gheddafi e la distruzione politico-economica-sociale della ex “quarta sponda” verificatasi per effetto diretto dell’aggressione targata Nato ha di fatto trasformato la Libia nel campo di battaglia dove da oltre un decennio si combatte una feroce guerra tra bande, che vede attualmente la fazione comandata dal generale Haftar controllare le aree orientali del Paese grazie al sostegno di Russia ed Emirati Arabi Uniti, ai quali vanno sommati Gran Bretagna e Francia che spalleggiano l’uomo forte di Bengasi pur accordando il proprio riconoscimento ufficiale al governo di Tripoli. Vale a dire lo stesso esecutivo che nel 2019 richiese all’Italia, tramite comunicazione diretta del presidente Serraj, il sostegno militare necessario a reggere l’urto delle forze guidate da Haftar. Il mancato intervento di Roma costrinse Tripoli a rivolgersi alla Turchia di Erdo?an, che beneficiando del cospicuo supporto qatariota inviò droni e truppe mercenarie sufficienti a preservare la sopravvivenza politica – oltre che fisica – delle istituzioni tripoline, ma non a impedire ai militari di Haftar di perpetrare continue azioni di sabotaggio in grado di interrompere ciclicamente la produzione nazionale di petrolio e gas.

A tutt’oggi, la concrete prospettive di successo dell’intesa raggiunta da Eni e Noc risultano del tutto subordinate alla disponibilità delle fazioni in guerra a preservare le tregua raggiunta mesi addietro tra il primo ministro tripolino Dabeibah e il generale Haftar. A dispetto dei solenni proclami formulati dal presidente Bangdara, secondo cui l’accordo tra Eni e Noc rappresenterebbe «un chiaro messaggio alla comunità imprenditoriale internazionale che lo Stato libico ha superato la fase dei rischi politici», la stabilità della Libia rimane inesorabilmente appesa a un filo. Lo si evince anche dal contenuto stesso dell’intesa, che impegna i libici a esercitare un maggiore controllo sui flussi migratori gestiti dagli scafisti “titolari” della tratta mediterranea, e l’Italia a rafforzare il sostegno a quella stessa guardia costiera libica risultata più volte contigua alle milizie tribali coinvolte in crimini e traffici della più varia natura.

Molto più prosaicamente rispetto a come l’hanno delineato i rappresentanti dell’esecutivo di Roma, il disegno «con orizzonte di legislatura» elaborato dal governo Meloni si configura come un tentativo piuttosto velleitario di porre l’Italia, in linea con l’appiattimento dell’Unione Europea sulle posizioni oltranziste assunte dalla Nato, nelle condizioni di affrancarsi definitivamente dal gas della Russia. E magari di arginare l’attivismo di quest’ultima, «aumentato in Africa con elementi di destabilizzazione evidenti», ha dichiarato la premier. Pii desideri, stante la recente richiesta di adesione ai Brics presentata dall’Algeria, la moltiplicazione delle sinergie tra Algeri e Mosca in ambito energetico, militare, politico (l’Algeria non ha votato alcuna risoluzione di condanna dell’invasione russa dell’Ucraina in sede Onu) e la forte presenza della Russia in buona parte del continente africano, percepita generalmente – così come quella cinese – con molto maggior favore rispetto a quella delle ex potenze coloniali che si barcamenano per non vedersi definitivamente scalzate dai nuovi grandi attori globali.

La linea d’azione contraddittoria e distruttiva portata avanti dalle classi politiche italiane in materia di rapporti con l’estero vanifica peraltro gli innegabili vantaggi assicurati al Paese dalla sua posizione geografica – situata a metà strada tra le nazioni produttrici di idrocarburi della sponda meridionale del Mediterraneo e quelle altamente energivore dell’Europa centro-settentrionale – facendo apparire inaffidabile agli occhi dei leader stranieri qualsiasi iniziativa proveniente dalle autorità di Roma. Specialmente in quel bacino mediterraneo nei confronti del quale le classi dirigenti italiane hanno nel corso degli ultimi tempi espresso il peggio di se stesse, e in cui si registra per di più la crescente influenza di un rivale strategico diretto del “bel Paese” come la Turchia, anch’essa interessata ad accreditarsi come hub energetico di riferimento per l’Europa, in grado di convogliare verso di sé i flussi del Mediterraneo orientale, del Caucaso e della Russia. I problemi di natura (geo)politica vanno peraltro a sovrapporsi a quelli di carattere finanziario; per imporsi come crocevia del gas del Mediterraneo, l’Italia sarà inevitabilmente chiamata a sostenere investimenti colossali – attingendo a quali risorse? – per la realizzazione di una vasta e costosissima rete infrastrutturale che va ben oltre il potenziamento dei gasdotti TransMed e Trans-Adriatic Pipeline (che, detto en passant, si rifornisce dal Trans-Anatolian Natural Gas Pipeline, transitante attraverso la Turchia), ma richiede l’allestimento di snodi logistici e rigassificatori per il Gnl. Oltre, naturalmente, al mantenimento di una presenza costante e attiva della marina militare italiana in tutte le aree del Mediterraneo ad elevato interesse strategico. Ma attingendo a quali risorse? Va inoltre considerato il fattore-tempo, assolutamente cruciale per un Paese a cui l’appartenenza a un organismo vessatorio come la Nato impone di rimpiazzare quello che si configurava come il suo principale fornitore di energia.

Le numerose e pesantissime incognite che caratterizzano il “Piano Mattei” sembrerebbero suggerire l’adozione di un approccio maggiormente improntato alla cautela rispetto a quello fatto proprio dal governo Meloni e dai vertici dell’Eni.

 

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