Il Venezuela vota per festeggiare Chavez
di Geraldina Colotti
Al palazzo di Miraflores, il popolo si è concentrato subito dopo aver visto la contentezza che traspariva dai volti dei dirigenti del Partito socialista unito del Venezuela durante la conferenza stampa di chiusura della giornata elettorale. Ma, qui, occorre aspettare che sia il Consejo nacional Electoral, il potere elettorale, a dichiarare quando una tendenza è irreversibile e a dare i risultati definitivi. Chi conosce il procedimento sa che il processo è rapido, il conteggio è automatizzato, anche le procedure di verifica, assolutamente affidabili e verificabili immediatamente da tutti i partiti, sono veloci. Se c'è un ritardo, significa che c'è un problema, com'è accaduto durante la prima elezione di Nicolas Maduro, subito dopo la morte di Chavez. Lo scarto era stretto - circa 300.000 voti a favore di Maduro - e il candidato della destra, Henrique Capriles aveva già scatenato i suoi per bruciare seggi elettorali, ambulatori con i medici cubani dentro, e istituzioni pubbliche. E, anche questa volta, tutti conoscono i piani dell'estrema destra di Maria Corina Machado e il "candidato di cartapesta", Edmundo Gonzale. Per questo, il popolo, è venuto a proteggere Miraflores. E a festeggiare, sicuro della propria forza, che non dipende dalle oligarchie. Sul palco, si succedono i gruppi musicali, da quegli storici, che hanno segnato con le loro canzoni il processo bolivariano, ai giovanissimi, che cantano questa esperienza ai nuovi ritmi della protesta globale. Quando dallo schermo possiamo ascoltare i risultati è quasi la mezzanotte. Si viene, così, a sapere che il sistema operativo ha subito un attacco hacker, ma questo ha solo potuto ritardare il conteggio in dettaglio perché, con l'80% delle schede scrutinate, la vittoria di Maduro è certa. Ha vinto con 5.150.902 (51,9%) sul candidato della Piattaforma Unitaria Democratica (Pud). Gonzalez ha totalizzato 4.445.978 (4,2%). Quando Maduro arriva, accompagnato dal Comando di campagna, ha gli occhi lucidi dall'emozione. Nel pomeriggio era circolato un messaggio di Kamala Harris con cui la vice di Jo Biden che dovrebbe sostituirlo invitava a rispettare la scelta del popolo venezuelano. Ma in nottata, ecco il cambio di rotta. Blinken fa sapere che la linea sarà quella di sempre: disconoscere i risultati, come chiede l'estrema destra che dagli Usa dipende, e che già rumoreggia, per le strade e, soprattutto, con i suoi padrini internazionali. Ma qui, intanto, si canta e si balla, e si dedica la vittoria a Hugo Chavez, che avrebbe compiuto settant'anni: il tempo che è durata l'Unione sovietica, un tempo in cui la borghesia ha tremato davvero nel mondo. Contro questa rivoluzione "pacifica, però armata", l'imperialismo rinnova quella grande paura, ma suscita anche la solidarietà dei popoli, che si sta rimettendo in cammino.
Cuore, mente e buone gambe, per marciare o ballare, al ritmo di una rivoluzione che mostra pochi sintomi di stanchezza. Difficile, per chi viene dall'Europa, dove l'esercizio del voto è una ritualità sempre più disertata, comprendere l'atmosfera che si respira in Venezuela a ogni tornata elettorale. Una festa di popolo, organizzato e cosciente, che sa di poter contare e decidere a tutti i livelli di gestione della cosa pubblica. Difficile restare indifferenti di fronte a un “esperimento” che dura da 25 anni, che resiste contro venti e maree, e che sfugge agli schemi ritriti delle “democrazie” europee.
Consolarsi con le interpretazioni interessate – ossia determinate da interessi materiali, concreti e consistenti – che provengono dall'estrema destra venezuelana, e che alimentano surreali dichiarazioni del “progressismo” europeo, non basta a negare un fatto incontrovertibile: che se in un paese del sud globale, come il Venezuela, costruito per essere una dependance del Nordamerica e un mercato per l'Europa è sorto un “laboratorio” di questo tipo; e se, con Chavez in vita, questo paese aveva raggiunto nella metà del tempo i cosiddetti Obiettivi del millennio stabiliti dalla Fao, vuol dire che è possibile costruire qualcosa di diverso dal modello imperante.
Un esperimento che proietta sull'Europa, e in special modo sull'Italia, una domanda: perché, nei nostri paesi, non siamo riusciti a imporre un'alternativa, né con le armi, né con le urne? Perché quando si è presentata in Grecia un'occasione, nonostante il grande consenso popolare, si è imposto di nuovo il progetto imperialista delle grandi istituzioni internazionali?
Per quante pulci si vogliano fare al chavismo, inventando altri “ismi” che ne indicherebbero la “degenerazione”, bisogna riconoscergli la forza dell'esempio, che spinge da un lato a seguirlo, dall'altro a far meglio, quando si può. E se si presentano ostacoli e barriere, l'esperienza di chi ha cercato di abbatterli o aggirarli prima, servirà senz'altro a chi ci prova di nuovo. Persino aver battuto l'estrema destra in Francia, ha rimesso in moto un qualche stimolo a livello europeo.
La forza dell'esempio, il coraggio di resistere, l'entusiasmo di vincere, sapendo pagare un prezzo. Spazzando via i distinguo, come il 7 ottobre in Palestina. Tutto questo si respira nella rivoluzione bolivariana. Difficile non farsi contagiare dall'entusiasmo anche per una rivoluzionaria del secolo scorso: perché, in barba agli strilli dottrinari che si fanno sentire anche in questa occasione, la bussola di Lenin indica ancora il cammino.
“La speranza è nelle piazze”, è stato lo slogan chavista per queste elezioni. Una frase che si è scelto per ricordare una vittoria storica, la prima di Chavez alle urne, quando si è imposto a pieni voti il 6 di dicembre del 1998. Il popolo la scriveva sui muri di un paese devastato dal neoliberismo, che veniva tradito a ogni tornata elettorale dal patto sottobanco stipulato con Washington dalle oligarchie, fin dal 1959.
Una “ricetta” messa in atto con la cooptazione dei partiti politici “tradizionali” per estromettere dal potere le forze che chiedevano un cambiamento radicale, dopo le speranze “di fare come a Cuba”, suscitate dalla cacciata del dittatore Marco Pérez Jiménez, il 23 gennaio del 1958.
Incontrando gli invitati internazionali, il presidente Maduro ha ripercorso le tappe della lotta di classe durante la IV Repubblica, quando l'estrema sinistra e i sindacati rivoluzionari di allora si incontrarono con Chavez – in carcere per aver organizzato la ribellione civico-militare del 1992 - per mettersi a disposizione del suo “progetto bolivariano”.
Decidere di passare dalla lotta armata alla lotta politica non fu un dibattito facile. Chi scrive lo ha ricostruito con grande interesse, ascoltando le testimonianze dei protagonisti, e leggendolo nei libri di storia, una materia assai valorizzata in questo paese in cui l'esempio conta.
Ascoltare con quale rispetto e proprietà questo presidente che viene dall'estrema sinistra e dalla lotta operaia parla della storia “insorta” del suo paese, e la traduce nel presente di una profonda convinzione gramsciana, fa un certo effetto: perché non sono parole al vento, come quelle che si sono serviti di questa concezione “pacifista”, in Europa, per spianare la strada ai signori della guerra e a quelli del portafoglio, destinando il grido degli ultimi a un'alzata di sopracciglio.
Quando parla Maduro, parla la lotta di classe di questo paese, quella di un'estrema sinistra che, a differenza dell'Italia - dove per vent'anni, a sinistra del Partito comunista più forte d'Europa, c'è stata l'estrema sinistra più forte d'Europa - , ha saputo trasformarsi, cogliere e inventare una nuova occasione. Il disprezzo o l'aria di sufficienza che la sinistra perbene d'Europa riserva all'ex operaio del metro, al governo dal 2013, non sono niente di nuovo. Ripetono quello che da sempre la borghesia e la piccola borghesia hanno riservato ai dirigenti proletari che mostravano un altro cammino.
Attingendo alla storia del suo paese, all'esempio di resistenza delle popolazioni originarie, che ha incontrato quella degli schiavi fuggiaschi (i cimarrones) per costruire esperienze di libertà, Maduro ha parlato del Bolivar, presente e vivo, che si respira qui. La sua nascita è stata celebrata nel giorno di festa nazionale – il 24 luglio – da due giorni di convegno di alto livello, organizzato dal'Istituto che porta il suo nome. Nelle relazioni degli ospiti, nazionali e internazionali, si è discusso di una nuova Alternativa Sociale Mondiale, analizzata in prospettiva economica, geo-politica, mediatica e con prospettiva di genere. Il laboratorio bolivariano sta aggregando e producendo riflessione.
Ricorrendo alla storia, intesa come scontro di interessi fra classi contrapposte, Maduro ha ricordato come, oltre a Bolivar e a Zamora, solo due presidenti nella storia del Venezuela, Cipriano Castro e Isaias Medina Angarita, hanno elevato la dignità del paese in due diversi secoli, nel 1800 e nel 1900, ma sono stati sconfitti dalle potenze straniere. Questo, però, non è avvenuto né con Chavez né ora con Maduro, che hanno fatto dell'indipendenza e dell'integrazione regionale, la base per realizzare nel presente il sogno di Bolivar.
Intanto, file disciplinate si sono messe in coda ai seggi fin dalle prime ore dell'alba. Il sistema di voto è complesso e automatizzato, ma esercitarne il diritto prende pochi minuti, e qui la cittadinanza è abituata. All'uscita dal seggio, in molti mostrano l'impronta marcata d'inchiostro, la parte finale del voto. Questa che si celebra, è l'elezione n. 31. C'è un'atmosfera di calma, e di attesa, si ascoltano commenti e chiamate al voto. All'inizio del pomeriggio, l'affluenza è già alta. Quando si fa la storia, solo i “tiepidi” rimangono indifferenti.