Indipendenza nazionale, socialismo e lotta per il multipolarismo

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Indipendenza nazionale, socialismo e lotta per il multipolarismo


di Leonardo Sinigaglia per l'AntiDiplomatico

Il passaggio ad un mondo multipolare è ormai uno dei temi più dibattuti e presenti all’interno dello scenario politico internazionale.

Quello che fino a qualche anno fa rappresentava un fenomeno “di nicchia”, intuibile (in Occidente) solo da pochi individui e organizzazioni, è ormai diventato un qualcosa di palese, oggettivo e innegabile anche per le grandi masse. Come più volte ribadito dal presidente Xi Jinping, ci si trova innanzi a cambiamenti mai sperimentati da un secolo a questa parte, a un passaggio di fase profondo destinato a definire i decenni a venire. Questo cambiamento è associato a una contraddizione, quella tra le spinte alla multipolarizzazione del mondo e l’imperialismo egemonico statunitense. Tale scontro viene in Occidente definito principalmente in tre modi: il tentativo di costruzione di un’egemonia alternativa, da cui l’ordine liberale dovrebbe difendersi; la lotta tra “opposti imperialismi”, egualmente reazionari e distanti dagli interessi della classe lavoratrice; uno conflitto  destabilizzante che solo collateralmente può aprire spazi d’azione politica per il “movimento comunista”. Tutte queste tre visioni sono fondamentalmente errate e strettamente connesse l’un l’altra in quanto espressione, seppur in diverse gradazioni e forme, dell’adesione ideologica e materiale al sistema imperialista e all’incapacità di pensare altrimenti rispetto alle sue prospettive ideologiche.

 

Il multipolarismo è la negazione dell’egemonia

Il sistema liberal-boghese non è in grado e non è interessato a comprendere come possano esistere mentalità diverse da quella predatoria che lo caratterizza. L’idea che un paese non veda il contesto internazionale come un’arena strettamente competitiva in cui necessariamente serve tendere all’egemonia per sopravvivere è semplicemente inconcepibile. Questa visione, che viene presentata come fondata su assiomi naturali e  assoluti, è in realtà un riflesso ideologico delle dinamiche strutturali del capitalismo, che inevitabilmente porta al monopolio (che economico o, di riflesso, di “potere”) e quindi allo scontro generalizzato per un ingrandimento potenzialmente illimitato. Come la prevalenza dei meccanismi competitivi non rappresenta un riflesso della “natura umana”, ma delle meccaniche del capitalismo, così le spinte egemoniche nei rapporti tra popoli e Stati manifestano una tendenza non inevitabile, ma necessariamente connessa al potere politico della borghesia.

Il dipingere le spinte per il multipolarismo come un tentativo di sostituire all’egemonia liberale una nuova, e deteriore, forma egemonica risponde sicuramente a esigenze propagandistiche, atte a caratterizzare ogni possibile sviluppo come sicuramente peggiore rispetto all’attuale configurazione dei rapporti internazionali, ma anche a una precisa prospettiva ideologica. E’ chiaro quindi che non ci si possa basare su questa interpretazione, frutto essenzialmente di una proiezione di sé del sistema liberale e della sua propaganda di guerra. Ciò è perfettamente comprensibile nei paesi del Sud del mondo, dove davanti alla crudeltà degli interventi militari  e ai danni incalcolabili delle “riforme strutturali” imposte dal Fondo Monetario Internazionale qualsiasi chiacchiera atlantista sulla “trappola del debito cinese” o sulla pretesa “aggressività russa” perde completamente qualsiasi forza di convincimento. In questa parte del mondo è immediatamente comprensibile come la lotta per il multipolarismo si fondi non sulla ricerca di un’egemonia alternativa e più “benevola”, ma sulla costruzione di una nuova architettura internazionale qualitativamente diversa che permetta una risoluzione perlomeno parziale di attriti e contraddizioni tramite lo sviluppo di nuovi strumenti internazionali e  il rispetto in sede internazionale di ogni singolo Stato al di là del proprio peso specifico e della peculiarità culturali, come più volte espresso dalla dirigenza della Repubblica Popolare Cinese sia tramite il concreto impegno per la promozione del multipolarismo e delle organizzazione regionali, sia attraverso le numerose “iniziative globali”, da quella sulla sicurezza a quella per il rispetto delle diverse civiltà, che delineano i principi del futuro multipolare.

Si può parlare di “architettura qualitativamente diversa” poiché la lotta per il multipolarismo non comporta una semplice ridistribuzione del potere tra vari gruppi capitalistici, ma un vero e proprio cambio di fase destinato, al netto di sviluppi bellici imprevisti, a segnare l’ingresso in uno stadio marcatamente discendente per il sistema capitalista, un (lungo e contraddittorio) periodo di transizione verso l’instaurazione del socialismo su scala planetaria. Ciò è pienamente comprensibile se si tiene conto della natura politica degli attori coinvolti alla luce dell’evoluzione storica della fase imperialista del capitalismo. Questo permette di smentire ogni narrazione sulla lotta tra pretesi “opposti imperialismi”.

 

La competizione inter-imperialistica, l’egemonia e la sua antitesi dialettica

 Il capitalismo entrò nella sua fase imperialista negli ultimi decenni del XIX Secolo, quando le esigenze di competizione strategica, il bisogno di trovare nuovi sbocchi per i capitali accumulati in Occidente e la reazione alla crisi del 1873 spinsero le potenze dell’epoca alla completa spartizione dell’Africa, ad una più aggressiva penetrazione nel continente asiatico e, in Nord America, al completamento della marcia verso Ovest degli Stati Uniti. Tale processo, caratterizzato dalla predominanza del capitalismo monopolistico e dalla centralità dei finanzieri, portò alla divisione del mondo tra un piccolo numero di Stati dominanti e una grande massa di paesi asserviti e debitori, legati ai primi da forme più o meno esplicite, più o meno profonde di colonialismo. La centralizzazione del potere economico in sempre meno mani, in pochi cartelli capaci di raggruppare quote significative dell’economia mondiale, si accompagnò ad un’ancor più marcata gerarchizzazione internazionale giustificata ideologicamente dal preteso “fardello dell’uomo bianco”, dalla missione civilizzatrice del liberalismo occidentale, moralmente legittimato  nella sua opera di sistematico annientamento di ogni opposizione esterna o interna e di sfruttamento dei territori sottomessi.

Questo primo periodo della fase imperialista del capitalismo, caratterizzato da un “centro” industrializzato composto da una molteplicità di Stati avanzati sostanzialmente equivalenti in termini di potere economico e militare si interruppe brutalmente con la Prima Guerra Mondiale, esplosione delle contraddizioni accumulate negli anni tra quelli, impegnati in una sempre più serrata competizione per le risorse, i mercati e gli spazi utili agli investimenti nell’immensa “periferia” coloniale e semi-coloniale. Per questi motivi, come efficacemente illustrato da Lenin, ogni retorica “nazionale” volta a veicolare il supporto per uno dei due fronti non era altro che artifizio propagandistico: “[...] bisogna dimostrare che la guerra in corso non si combatte per emancipare le nazioni, ma per stabilire quale dei briganti debba opprimere più nazioni[1]. Nel caso in cui questa retorica fosse promossa da partiti socialista, ciò avrebbe costituito una “caricatura del marxismo”, un vero e proprio tradimento della classe operaia, che vedeva i propri interessi perfettamente distinti da quelli di ciascun gruppo imperialista. Molti partiti della Seconda Internazionale ciononostante decisero di appoggiare la guerra, richiamandosi alla categoria di “guerra nazionale” per spiegare lo scontro in corso, avendo la mente ferma ai conflitti del Secolo scorso. Ma la situazione era profondamente differente era in realtà profondamente differente. Nel nuovo contesto di scontro tra le potenze imperialiste, la parola d’ordine della “difesa della patria” non poteva essere riconosciuta come legittima, in quanto se contestualizzata storicamente nella situazione concreta non poteva che tradursi nel riconoscimento degli interessi della borghesia imperialista: “Il marxismo deduce il riconoscimento della difesa della patria nelle guerre come, ad esempio, quelle della grande rivoluzione francese e di Garibaldi in Europa, e la negazione della difesa della patria nella guerra imperialista del 1914-1916 dall’analisi dei particolari storici concreti di ogni singola guerra e in nessun modo da qualunque principio generale [...]”[2]. Solo la corretta comprensione del contesto portato dalla fase imperialista del capitalismo permise ai bolscevichi russi di portare avanti una prassi politica corretta e arrivare all’abbattimento del regime zarista e alla Rivoluzione d’Ottobre, con la creazione, una volta sconfitto l’intervento straniero, dell’Unione Sovietica.

Durante il conflitto le potenze imperialiste europee si annichilirono reciprocamente. I pesanti tributi di sangue e risorse richiesti dalla guerra si rivelarono eccessivi per i regimi che fino a quel momento avevano guidato lo sviluppo capitalistico: gli Imperi Centrali ne uscirono frantumati e vessati da condizioni di pace umilianti e insopportabili; i paesi dell’Intesa ottennero sì la vittoria, ma a prezzo di una riconfigurazione dei rapporti tra le due sponde dell’Atlantico. Rotto il suo relativo isolamento secolare, gli Stati Uniti erano intervenuti in Europa con ampi crediti concessi agli alleati e con un’enorme corpo di spedizione che rapidamente riuscì a volgere a favore di Francia e Inghilterra le sorti di un conflitto ancora per molti aspetti in stallo. Gli USA erano usciti da questo completamente indenni e con perdite contenute, in una posizione di prominenza relativa rispetto ai loro alleati europei.

Si apriva così un nuovo periodo segnato  da un alto dall’inedita comparsa di un campo guidato politicamente da Mosca comprendente non solo il movimento comunista internazionale e la classe lavoratrice dei paesi capitalistici, ma anche i popoli oppressi nelle colonie e nelle semi-colonie; dall’altro da un campo imperialista ancora fortemente diviso all’interno ma in cui andavano rapidamente costituendosi una preminenza globale degli Stati Uniti e regionale dell’Impero Giapponese, che nelle conseguenze della Grande Guerra aveva visto l’opportunità per allargare il proprio progetto colonialista ai danni della Cina continentale.

Questo periodo sarà caratterizzato dal sorgere del fenomeno fascista, reazione del capitale finanziario sia al rafforzamento del potere e dell’organizzazione delle classi subalterne, sia alla crisi che, avente come momento esemplare il crollo della borsa di New York del 1929, investirà tutto il mondo capitalista, che reagirà ancora una volta aumentando i suoi tratti autoritari e amplificando l’oppressione nelle colonie e nelle semi-colonie, oltre che la competizione per queste. E’ all’interno del fenomeno fascista che viene pianificato il progetto egemonico della Germania nazista, fondato sulla colonizzazione dei territori slavi e la riduzione in schiaivitù degli abitanti di questi su ispirazione delle politiche razziste statunitensi, progetto poi ripreso nei confronti della Cina e dell’Asia orientale dall’Impero giapponese. L’emergere di questo disegno egemonico rappresenterà sempre più una minaccia non solo per il campo socialista e anti-coloniale, ma finanche per gli altri Stati borghesi e imperialisti. La Germania nazista, saltate le pur ventilate possibilità d’accordo in funzione anti-sovietica, si presentò come minaccia significativa anche per gli interessi dei capitalisti ad essa concorrenti. Anche per il campo socialista essa assunse una posizione nettamente antagonistica: rapidamente la contraddizione tra Unione Sovietica e Germania nazista divenne prevalente rispetto a quelle tra l’URSS e gli altri Stati capitalisti. La crescita delle contraddizioni tra l’egemonismo nazista, collegatto a quello nipponico e all’Italia fascista, e il resto degli Stati del mondo porterà allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale,che vide il fronte antifascista composto dagli Alleati, dalle forze cinesi, dall’Unione Sovietica e dai movimenti partigiani contrapposto agli Stati dell’Asse e ai loro collaborazionisti.

Questo secondo conflitto globale portò ad esiti simili al primo, ma enormemente amplificati nella loro portata. I confini del mondo socialista avanzarono enormemente, con la creazione delle democrazie popolari dell’Europa orientale e, successivamente, con la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese: da Berlino a Pyongyang la bandiera rossa sventolava senza soluzione di continuità. Inoltre, nello stesso Occidente i partiti comunisti e le organizzazioni sindacali avevano guidato la lotta antifascista, acquisendo una grande autorevolezza tra le masse e vedendo le loro fila ingrossarsi a dismisura, in specie in Italia e Francia, e in tutti i paesi ancora relegati in uno stato coloniale o semi-coloniale le lotte per l’indipendenza vennero galvanizzate dal successo rivoluzionario internazionale. Allo stesso tempo l’inferiorità dell’Europa occidentale nei confronti degli Stati Uniti non si era solo acuita per la distruzione bellica e la divisione della Germania, ma era stata formalmente sancita dalla creazione di organizzazioni quali la NATO e dall’avvio dei progetti euro-federalisti, primo passo per l’integrazione guidata da Washington di tutta l’area atlantica. La subordinazione dei paesi europei agli USA fu il tassello principale del progetto egemonico degli Stati Uniti, che, fondato economicamente sulla primazia del dollaro e sugli organismi creati a Bretton Woods, venne portato avanti tramite una postura internazionale aggressiva che nei suoi promotori più estremi arrivava finanche a ritenere concepibile l’utilizzo sistematico dell’armamento nucleare, come propose MacArthur nel contesto dell’aggressione occidentale contro la Corea democratica. Cruciale in questo contesto furono la creazione dello Stato d’Israele nel 1948 e il mantenimento del controllo su Taiwan nel 1949 a seguito della sconfitta sul continente degli eserciti di Chiang Kai-shek: questi due avamposti dell’imperialismo statunitense agli estremi opposti dell’Asia rendevano possibili le pianificate strategie di “contenimento” della minaccia comunista e anti-coloniale.

Si entrò così in un nuovo periodo della fase imperialista del capitalismo, segnato da una lato da un relativamente unito campo socialista e anti-colonialista, dall’altro da un fronte imperialista dalla marcata coesione e gerarchizzazione a favore di Washington. Alla molteplicità degli imperialisti si stava definitivamente sostituendo l’egemonia statunitense, capace di vincere qualsiasi spinta autonomistica e centrifuga dei paesi capitalisticamente avanzati, come avrebbero provato i decenni della seconda metà del XX Secolo.

Questa configurazione essenzialmente bipolare resistette nonostante contraddizioni in entrambi i campi dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino agli Anni ‘60 inoltrati, quando il mondo comunista fu travolto dalle più esplicite conseguenze degli errori politici della dirigenza sovietica kruscioviana, segnata internamente dal rinnegamento di Stalin e dei primi decenni di Storia dell’URSS ed esternamente da un’atteggiamento para-egemonico, fondato sull’instaurazione di relazioni squilibrate e impari nei confronti degli altri partiti comunisti e Stati socialisti. L’accentuarsi di queste tendenze porterà allo sviluppo della “teoria dei tre mondi” da parte di Mao Zedong e Deng Xiaoping: “A giudicare dai cambiamenti nella situazione internazionale, il mondo oggi è diviso in tre parti, o tre mondi, che sono sia interconnessi che in contraddizione l’uno con l’altro. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica compongono il Primo Mondo. I paesi in via di sviluppo in Asia, Africa e America Latina compongono il Terzo Mondo. I paesi sviluppati tra questi due compongono il Secondo Mondo[3]. Il Terzo Mondo rappresentava nella visione proposta dalla RPC la principale forza di resistenza ai tentativi egemonici, in quanto i paesi di quello costituivano le principali vittime dello scontro internazionale in termini di sovranità negata e di sicurezza compromessa. Allo stesso tempo anche i paesi del Secondo Mondo rappresentavano un potenziale alleato,perché, per quanto legati a una superpotenza o, addirittura, mantenenti vincoli coloniali con i paesi del Terzo Mondo, “[a]llo stesso tempo, tutti questi paesi sviluppati sono a vario grado controllati, minacciati o bullizzati da una superpotenza o dall’altra. Alcuni di questi sono stati ridotti da una superpotenza in una posizione di dipendenza sotto l’insegna di una cosiddetta “famiglia”. In vario grado, tutti questi paesi hanno il desiderio di staccarsi di dosso la schiavitù o il controllo di una superpotenza e salvaguardare la propria indipendenza nazionale e l’integrità della propria sovranità”.

Nonostante certi errori estremistici della dirigenza cinese, si può dire che questa analisi rispecchiasse in maniera sufficientemente accurata la situazione creatasi nel campo socialista e le contraddizioni aperte anche dalla degenerazione para-egemonica dell’Unione Sovietica. Questa contraddizioni furono sfruttata dagli Stati Uniti nel quadro della loro violenta controffensiva innescata nella seconda metà degli Anni ‘70 in risposta alla crescente mobilitazione delle classi subalterne in Occidente, alla diffusione delle lotte per l’indipendenza, all’ulteriore espansione del campo socialista e alla crisi generale del capitalismo associata alla decadenza del modello keynesiano e allo shock petrolifero del 1973. Anticipata in un celebre rapporto della Commissione Trilaterale, questa prese forma con il neoliberismo incarnato da Reagan e dalla Thatcher, e si caratterizzò per una rinnovata aggressività tanto negli spazi periferici -colpi di Stato, guerre civili, pratiche terroristiche, supporto a organizzazioni terroristiche…- quanto nel centro del sistema capitalista, con la sistematica aggressione contro le conquiste democratiche della classe lavoratrice. Il centro capitalista mutò la sua natura da industriale a finanziario-speculativo, entrando per questo in rapporto di ancor più stretta dipendenza, e sfruttamento, con la periferia neocoloniale e semi-coloniale. A ciò contribuì la fine della convertibilità del dollaro in oro decisa da Nixon e la conseguente crescita esponenziale del debito pubblico americano, con un dollaro dal valore sempre più garantito unicamente dalla possibilità della sua imposizione coatta.

La pressione offensiva e, soprattutto, la degenerazione ideologica e dirigenziale interna portarono allo sfaldamento dell’Unione Sovietica. Ciò portò all’ingresso in un nuovo periodo segnato dall’imposizione dell’unipolarismo statunitense: venuto meno il loro principale antagonista strategico, essi poterono estendere la propria egemonia a gran parte del pianeta, imponendo il cosiddetto “Washington consensus” e il loro quasi completo monopolio militare, economico, ideologico, politico all’Umanità. Questo periodo si caratterizzò per l’estrema violenza, con ripetute guerre d’aggressione condotte ai danni di numerosi paesi, dalla Jugoslavia all’Iraq, e con una più marcata subordinazione neocoloniale del continente africano all’imperialismo. L’idea che il liberalismo occidentale a guida statunitense rappresentasse il punto culminante della Storia umana fu proposta come base ideologica di una visione che valutava ogni singolo popolo e struttura sociale in base alla sua somiglianza a quel paradigma, rinnovando la gerarchizzazione proposta nel Secolo precedente, privandola unicamente del suo contenuto razziale e ammantandola di un ipocrita umanitarismo.

L’imposizione del sistema unipolare creò però la sua stessa antitesi, creando per ogni popolo della Terra una singola minaccia chiara e identificabile. Già nel 1997, con la dichiarazione congiunta sino-russa sull’impegno per la costruzione di un mondo multipolare, diventava chiara la tendenza dei tempi e il fatto che, arrivato al suo zenit, il sistema imperialista evolutosi storicamente nella forma culminante dell’egemonia statunitense, si apprestava a tramontare. Nonostante le vittorie riportate nei primi Anni 2000 con le campagne d’aggressione contro la Serbia, l'Afghanistan e l’Iraq e il dispiegarsi delle prime “rivoluzioni colorate”, il sistema socio-economico dell’imperialismo si dimostrò sempre più precario e debole. Prova ne è stata la crisi finanziaria iniziata nel 2007, evolutasi poi in crisi sistemica del capitalismo provocata proprio da quella finanziarizzazione che, slegando completamente i profitti dei settori politicamente egemoni della borghesia dalle reali attività produttive, aveva creato contraddizioni insanabili e dalla rapida maturazione. Da ciò emerse come nuova componente egemonica di capitale quella collegata al cosiddetto “asset management”, rappresentata in primo luogo dalla triade Black Rock, State Street e Vanguard, in grado controllare quote azionarie decisive della stragrande maggioranza delle più grandi aziende del mondo, e collegate indissolubilmente economicamente all’apparato militare e politico statunitense. Ancora una volta il sistema capitalista reagì con la militarizzazione interna, segnata da austerità e disciplinamento, e dall’aggressività esterna, con numerose nuove avventure belliche e tentativi di sovversione internazionale. Ma questa volta, maturata la contraddizione tra unipolarismo e spinte alla multipolarizzazione del mondo, l’esito fu differente. Il mondo era cambiato, nuove strutture internazionali erano state create, dalla SCO ai BRICS, e sempre più chiari erano il ritorno sullo scenario internazionale della Russia e la crescita delle “economie emergenti”, tra tutte quella della Repubblica Popolare Cinese, che, grazie alla direzione del Partito Comunista Cinese, stava riuscendo a lasciarsi alle spalle quello stato di secolare inferiorità rispetto all’Occidente inaugurato dalle Guerre dell’Oppio due secoli prima.

Se gli Stati Uniti riuscirono a distruggere la Libia, a garantire la presidenza di Taipei ai separatisti e a promuovere nuove aggressioni diplomatiche ed economiche, essi furono fermati in Ucraina e Siria, dove la Federazione Russa, appoggiandosi alla componente russofona antifascista e al legittimo governo siriano, riuscì a frustrare le mire degli imperialisti impedendo che la Crimea e Damasco cadessero nelle loro mani. Dal 2015 si entrò in un nuovo periodo segnato dalla progressiva decadenza del sistema unipolare. E’ infatti significativo come da quell’anno gli imperialisti non riuscirono più ad ottenere vittorie strategiche, dovendosi accontentare di situazioni di stallo o venendo addirittura sonoramente sconfitti, come in Venezuela, dove l’avventura golpista di Guaidó finì nel ridicolo, in Iran, paese che riuscì a difendere a più riprese la propria indipendenza e il proprio diritto allo sviluppo, in Yemen, dove, sotto la guida di Ansarallah, il popolo non si è piegato ai salafiti e all’aggressione saudita, o ancora in Turchia, col fallimento del colpo di Stato gülenista filo-statunitense. Il biennio 2021-2022 si rivelò particolarmente significativo, prima con la vittoria della resistenza patriottica afgana contro le forze statunitense e i collaborazioni locali, poi con l’intervento russo nel conflitto tra russi del Donbass e regime di Kiev nel febbraio ‘22. Quest’ultimo evento ha rappresentato un vero e proprio spartiacque, in quanto ha accelerato enormemente il processo di disgregazione del sistema unipolare, galvanizzando dall’Africa al Sud America i fermenti indipendentisti, rendendo sempre più manifeste le contraddizioni tra gli USA e i propri paesi-satellite e tra le dirigenze politiche occidentali e le rispettive popolazioni e garantendo sempre più forza alla crescita delle strutture internazionali multipolari e al processo di dedollarizzazione. La ripresa della guerra indipendentista palestinese contro il regime sionista a partire dagli eventi del 7 ottobre ha impresso un’ulteriore accelerazione, mostrando chiaramente sia il definitivo venir meno della pax americana, sia la totale ipocrisia dell’imperialismo, agevolmente in grado di passare dalla più moralista retorica anti-russa alla totale non curanza per migliaia di bambini massacrati in pochi giorni dalle bombe sioniste.

Tenendo presente la traiettoria storica del sistema imperialista, il suo passaggio da una molteplicità di centri di potere concorrenti ed equivalenti a una stretta gerarchizzazione in seno allo stesse economie capitalistiche avanzate, costrette a piegarsi alla volontà dell’egemone anche a prezzo della loro stessa tenuta, appare chiaro come la situazione contemporanea non possa minimamente essere paragonata a quella del 1914, e, di conseguenza, è perfettamente comprensibile come lo scontro internazionale in atto non mostri nessuna somiglianza con la Prima Guerra Mondiale. Quella che è in corso non è una guerra per una diversa spartizione del mondo tra blocchi imperialisti, non è uno scontro per decidere chi opprimerà più nazioni, ma una guerra di liberazione internazionale condotta da un fronte eterogeneo e con non poche contraddizioni contro il prodotto storico dell’epoca dell’imperialismo: gli Stati Uniti d’America. Parlare attualmente di imperialismo brasialiano, indiano o, ancora peggio, di un imperialismo russo o cinese non è solo errato da un punto di vista teorico, in quanto nessuno di questi paesi, nemmeno quelli dalla più marcata dirigenza borghese, vive grazie all’azione parassitaria sul resto del mondo, ma è anche in profonda antitesi alla realtà per come è: nessun altro Stato al di fuori degli USA è capace di esercitare quella violenza internazionale inseparabile dalla natura materiale di uno Stato imperialista, nessun altro paese vive in maniera così cristallina ed esemplare ogni privilegio di un’esistenza parassitaria garantita dal controllo della finanza speculativa e dall’egemonia del dollaro. Parlare di “opposti imperialismi”, per quanto retoricamente possa sembrare sintomo di “ortodossia marxista”, nei fatti dimostra unicamente una dissociazione dalla realtà, l’incapacità di comprendere la situazione reale nella quale si opera politicamente e un ossessivo culto del libro che porta a valutare il presente solo alla luce del passato, quasi che ogni sviluppo della Storia non possa che essere il ripetersi ciclico di ciò che è già avvenuto, in una prospettiva ben distante da quella del materialismo dialettico, ma anzi profondamente metafisica, un idealismo volgare figlio della decadente borghesia occidentale.

Ne viene da sé che la lotta per il multipolarismo sia progressiva, manifestazione dialettica dell’avanzare della Storia, e non già uno scontro in seno al sistema liberal-borghese o una semplice opportunità per l’azione politica. Ma per comprendere questo pienamente è necessario ben afferrare la natura politica dell’antitesi del fronte unipolarista a guida statunitense.

 

Il multipolarismo e i suoi promotori: un Fronte Unito internazionale

Con l’espressione “Fronte Unito” si fa riferimento al felice e fruttuoso adattamento della strategia del Fronte Popolare al contesto cinese promosso da Mao Zedong portato avanti dal PCC  dalla seconda metà degli Anni ‘30 sino, con alterne vicende, ai giorni nostri.

Il Fronte Unito nacque come alleanza, guidata politicamente dal Partito Comunista Cinese, delle classi rivoluzionarie, ossia proletariato, contadini, piccola borghesia e borghesia nazionale, che, pur mantenendo una parziale divergenza negli interessi, erano unite nell’opposizione all’imperialismo, in particolare a quello giapponese, che all’epoca rappresentava per la nazione cinese la contraddizione principale: “Qual è il compito tattico fondamentale del Partito? La creazione di un vasto fronte unito nazionale rivoluzionario, non altro. Quando la situazione della rivoluzione cambia, occorre mutare di conseguenza la tattica e i metodi di direzione della rivoluzione. Il compito dell'imperialismo giapponese, dei collaborazionisti e dei traditori della patria è trasformare la Cina in una colonia; il nostro compito è invece trasformare la Cina in uno Stato libero, indipendente, che goda dell'integrità territoriale. [...] Se finora il nostro governo è stato basato sull'alleanza degli ope­rai, dei contadini e della piccola borghesia urbana, da oggi in poi esso dovrà essere un governo che comprenda anche quegli elementi delle altre classi che vogliono partecipare alla rivoluzione nazionale. Oggi il compito fondamentale di un tale governo è quello di opporsi al tentativo dell'imperialismo giapponese di annettere la Cina. Questo governo sarà molto largo e includerà non solo coloro che sono interessati alla rivoluzione nazionale e non alla Rivoluzione agraria, ma anche, se lo vogliono, coloro che non sono in grado di lottare contro gli imperialisti europei e americani per i vincoli che li legano a essi, ma che sono pronti a lottare contro l'imperialismo giapponese e i suoi lacchè[4].

Venivano così compresi nel Fronte Unito non solo i proletari e i contadini, i più saldi nella lotta per l’indipendenza nazionale e politicamente più affidabili, ma anche diversi settori borghesi che mostravano comportamenti più ambigui e meno univoci, ma che erano comunque portati, per un insieme di interessi materiali e coscienza patriottica, ad opporsi almeno alle manifestazioni più violente e umilianti dell’imperialismo. La garanzia della direzionalità della lotta era data dal controllo politico del PCC, che avrebbe impedito qualsiasi deviazione verso compromessi di convenienza, eterna tentazione degli strati medio-alti di borghesia.

Anche se con le ovvie differenze date dal diverso contesto d’applicazione e dalla diversa, e più complessa, natura dei soggetti coinvolti, l’attuale lotta per il multipolarismo può essere vista come un’applicazione su scala internazionale del medesimo principio. E’ chiaro come gli interessi del popolo lavoratore, del moderno proletariato e della piccola borghesia, siano contrapposti a quelli dell’imperialismo statunitense, che attraverso la speculazione, l’austerità, la predazione della ricchezza pubblica, la negazione dei diritti sociali, le guerre e la miseria ha per questa rappresentanto sempre esclusivamente una forza regressiva, ma è altrettanto importante notare come la globalizzazione a guida statunitense abbia sistematicamente negato gli interessi di settori relativamente ampli di borghesia, quelli più legati al contesto nazionale e meno competitivi sui mercati globali. La corsa al riarmo e le prospettive di disaccoppiamento economico ha inoltre non solo ulteriormente danneggiato questi, ma esteso gli effetti nocivi anche a quelli più strettamente legati alle economie emergenti. Se si pensa al piano internazionale, appare ancora più chiaro come le esigenze di sviluppo, sicurezza e stabilità che accomunano tutti i paesi del mondo siano negate materialmente dalla prassi predatoria dell’imperialismo statunitense e dalle sue catene economiche, politiche e ideologiche. Ne nasce una convergenza d’interessi che, per quanto parziale, è decisiva e risponde alla principale contraddizione della nostra epoca.

Non sorprende quindi come nel fronte per il multipolarismo vi siano paesi e organizzazioni estremamente diversificati, da Hezbollah al Venezuela, dalla Russia al Niger, dalla Corea popolare al Burkina Faso, dalla Siria al Nicaragua, dal Brasile all’Algeria. A chi spetta la direzione politica di questo movimento? Nonostante la lotta sia in corso, i fatti propendono a favore della Repubblica Popolare Cinese, soggetto economicamente e scientificamente più rilevante, unico ad avere una visione politica complessiva chiara, teoricamente ben definita e, soprattutto, capace di dare a questa una rilevanza e un’autorevolezza internazionale. Ciò è stato fatto attraverso le numerose iniziative globali promosse da Xi Jinping, che hanno visto notevole interesse finanche da parte delle Nazioni Unite, e attraverso la progettualità della costruzione di una “comunità umana dal futuro condiviso”. Questo concetto, che si ritrova con insistenza nei documenti politici cinesi, rappresenta la più chiara visione attualmente prodotta sulle tendenze dei tempi attuali e sulla strada che l’Umanità dovrebbe percorrere: una grande ristrutturazione dei rapporti internazionali e dei modelli di sviluppo, l’adozione di strumenti democratici di risoluzione delle contraddizioni, la preminenza della cooperazione mutualmente vantaggiosa e ad ampio respiro sulla competizione e sulla conflittualità. Ciò potrà essere reso possibile solo dall’abbattimento del sistema imperialista egemonico degli Stati Uniti e l’edificazione al suo posto di una nuova architettura internazionale priva di egemoni. Ciò però non significa certo una diversa “fine della Storia”: contraddizioni continueranno ad esistere, persino marcate, ma ciò che sarà cambiata sarà la fase storica: la vittoria del multipolarismo porterà alla costruzione di una comunità umana dal futuro condiviso, ambiente in cui il socialismo potrà svilupparsi ed estendersi, progressivamente e come conseguenza del moto politico di rinnovamento globale e dell’immensa liberazione delle forze produttive dalle catene dell’imperialismo, a livello planetario, in un contesto segnato a livello internazionale dalla compresenza di indipendenza e interdipendenza come poli non conflittuali delle relazioni tra popoli e Stati.

Lo studioso marxista cinese Yu Pei dà una precisa descrizione di questa relazione:“L'idea di una comunità globale con un futuro condiviso è l'incarnazione della teoria marxista dell'emancipazione umana in queste nuove condizioni storiche e identifica un obiettivo e una direzione per le future iniziative dell'umanità. In questo senso, la costruzione di una comunità globale con un futuro condiviso è una tappa che dobbiamo attraversare se vogliamo realizzare in futuro “una comunità di individui liberi”. Il comunismo è un risultato inevitabile dello sviluppo sociale: questo obiettivo è lontano ma non senza speranza, e la ragione della sua eventuale realizzazione può essere trovata sia nella storia che nella realtà.[5]

L’analisi dei fatti dimostra come la lotta per il multipolarismo sia concretamente la lotta per l’indipendenza nazionale e la lotta per il socialismo. Sostenere la lotta per il multipolarismo significa appoggiare materialmente lo sviluppo del socialismo, osteggiarla, al di là del colore con cui ci si tinge, significa combattere contro lo sviluppo verso il socialismo dell’Umanità. Gli interessi delle masse popolari occidentali non sono distinti rispetto a quelli della classe lavoratrice internazionale, e attualmente si identificano concretamente con la lotta per il multipolarismo. Questa lotta è quindi da sostenere, senza se e senza ma, senza distinguo, ma con un posizionamento chiaro e politicamente ragionato. Con l’inasprimento delle contraddizioni e la sempre più rapida evoluzione dei processi la chiarezza è fondamentale e necessaria, non è più possibile tergiversare e nascondersi dalla realtà.

 

[1] V. Lenin, Attorno ad una caricatura del marxismo, in C. Basile, I bolscevichi e la questione nazionale, Genova, Altergraf, p. 265.

[2] V. Lenin, La rivoluzione socialista e il riconoscimento delle nazioni all’autodecisione, in C. Basile, I bolscevichi e la questione nazionale, Genova, Altergraf, 2017, p. 142.

[3] Il testo completo dell’intervento è reperibile al seguente indirizzo https://www.marxists.org/reference/archive/deng-xiaoping/1974/04/10.html

[4] Mao Zedong, Sulla tattica contro l’imperialismo giapponese, in Selected Works, Vol. I, Beijing, Foreign Languages Press, 1965, pp. 162-166.

[5] Yu Pei,  A Global Community with a Shared Future from a Macro-Historical Perspective, in Qiushi Journal, n. 3 (2019).

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