Inflation Reduction Act: l’Europa sotto assedio statunitense

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Inflation Reduction Act: l’Europa sotto assedio statunitense


di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico


Lo scorso agosto, l’amministrazione Biden ha promulgato l’Inflation Reduction Act (Ira), una legge asseritamente mirata a mitigare le forti pressioni inflazionistiche gravanti sul Paese, attraverso la riduzione del deficit di bilancio, l’abbassamento del costo dei farmaci e l’incremento della produzione d’energia a livello domestico, con particolare riferimento a fonti rinnovabili quali quella eolica, quella solare, e quella geotermica. Il provvedimento sancisce la ricalibrazione del cosiddetto Build Back Better, l’ambiziosissimo piano di investimenti pubblici annunciato da Joe Biden durante la campagna elettorale del 2020. Pur ridimensionandolo radicalmente, l’Ira contempla in ogni caso lo stanziamento di qualcosa come 737 miliardi di dollari per promuovere non soltanto lo sviluppo delle tecnologie che garantiscano lo sfruttamento dell’energia pulita, ma anche la definizione di catene di fornitura nuove di zecca. Nello specifico, il piano punta a ridurre le emissioni nazionali di carbonio del 40% entro il 2030 e prevede la concessione di sussidi per 369 miliardi di dollari, vincolandone però l’erogazione alla disponibilità delle aziende beneficiarie sia a impiantare saldamente la produzione sul territorio statunitense, sia ad approvvigionarsi di materie prime e semilavorati direttamente dagli Usa o da Paesi a cui questi ultimi sono legati da accordi commerciali preferenziali.

Prendendo palesemente le mosse dalle iniziative portate avanti – con esiti alquanto modesti – a suo tempo dall’amministrazione Trump, Joe Biden e la sua squadra di governo intendono stimolare la reindustrializzazione nei segmenti a più elevato valore aggiunto di un’economia fortemente “terziarizzata” come quella degli Stati Uniti. Ma a differenza del magnate newyorkese, sostenuto da una compagine compattamente incline a sostituire per quanto possibile l’import di materie prime sensibili (terre rare, litio, grafite, ecc.) con la produzione nazionale, l’ex senatore  del Delaware si è visto costretto a mercanteggiare con l’ala (pseudo)ambientalista del Partito Democratico. La quale punta a incrementare la produzione domestica di veicoli a trazione elettrica al duplice scopo di abbattere le emissioni e creare nuovi posti di lavoro, ma “esternalizzando” i costi che richiede l’estrazione delle materie prime necessarie alla cosiddetta “transizione ecologica”, di cui gli Usa disporrebbero in relativa abbondanza. Stando a un’analisi formulata da «Reuters» sulla base dei dati raccolti da Benchmark Mineral Intelligence in merito alla quantità di minerali necessari alla fabbricazione di un veicolo Tesla Model-3, i progetti minerari predisposti dagli Usa potrebbero assicurare la produzione di volumi di rame sufficienti a costruire oltre 6 milioni di veicoli elettrici, di volumi di litio sufficienti a costruire oltre 2 milioni di veicoli elettrici e di volumi di nichel sufficienti a costruire oltre 60.000 veicoli elettrici.


I sussidi a "doppio binario"

Ciononostante, l’irremovibilità manifestata in proposito dall’ala radicale del Partito Democratico ha reso necessaria una soluzione di compromesso implicante la concessione di sussidi “a doppio binario”; atti, cioè, per un verso a incentivare le imprese a implementare la produzione dei macchinari a livello nazionale, e per l’altro a spingerle ad approvvigionarsi di materie prime strategiche da Paesi alleati.

A partire dal Canada, i cui vantaggi in termini di prossimità geografica agli Usa vengono in buona parte vanificati da una legislazione piuttosto complessa in materia di concessione dei permessi di sfruttamento, oltre che dal rischio assai concreto che i fiumi dal corso transfrontaliero scarichino in territorio statunitense parte dell’inquinamento minerario generato sul suolo canadese. L’altro potenziale anello della catena di fornitura a cui l’amministrazione Biden intende dar forma è l’Australia, che per entrare concretamente nel ruolo dovrebbe imbarcare le proprie materie prime su navi da trasporto alimentate ad energia fossile e spedirle a circa 15.000 km di distanza (a tanto ammonta lo spazio geografico intercorrente tra i due Paesi). Con tutto ciò che ne consegue in termini di inquinamento e incremento dei costi di produzione, destinate come sempre a scaricarsi sui consumatori finali.

Da un’analisi mirata a stabilirne il grado di funzionalità concreta Act agli obiettivi identificati apertis verbis dai suoi promotori emergono quindi tutti i limiti e le contraddizioni che caratterizzano l’Inflation Reduction Act. Se interpretato attraverso la chiave di lettura degli interessi in gioco e dei rapporti di forza vigenti, la legge appare invece assai meno sconclusionata.

Attualmente, gli Stati Uniti risultano gravati da un deficit commerciale stratosferico (948,1 miliardi di dollari nel 2022) e da una posizione finanziaria netta tremendamente negativa (-16,710,798 miliardi di dollari al terzo trimestre 2022), non dispongono di un tessuto industriale degno di nota quantomeno dagli anni ’80, producono quasi esclusivamente servizi e importano ogni genere di prodotto attraverso la stampa a ciclo continuo di dollari.


L'impatto sul vecchio continente

L’Europa, dal canto suo, ha storicamente ancorato la sua strategica mercantilista alle forniture di energia a basso costo assicurate dalla Federazione Russa, le quali hanno permesso al “vecchio continente” – o meglio, all’imponente blocco industriale integrato nella catena del valore tedesca – di inanellare giganteschi avanzi commerciali puntualmente riflettutisi nella sistematica compressione della domanda interna.

Dal punto di vista statunitense, il riequilibrio complessivo tra le due sponde dell’Atlantico non può prescindere dal “confinamento” di Nordamerica ed Europa entro il perimetro di un’area energetico-tecnologico-commerciale di respiro transoceanico che garantisca anzitutto la recisione dei legami di dipendenza tra il “vecchio continente” e i due nemici giurati degli Usa, vale a dire Russia e Cina. Un “disaccoppiamento” che nella visione di Washington passa necessariamente attraverso il doppio binario dell’innovazione tecnologica (associata alla chiusura nei confronti degli nemici) e della transizione energetica. In questa luce vanno osservati l’inasprimento delle misure restrittive sull’export di semiconduttori e tecnologie sensibili verso la Cina, l’isolamento di compagnie strategiche facenti capo a Pechino come Huawei e Zte e la predisposizione di cospicui investimenti pubblici focalizzati nel settore dell’Information and Communication Technologies (Ict), attraverso programmi come Build Back Better e leggi come il Creating Helpful Incentives to Produce Semiconductors for America Act, un disegno di legge approvato nel luglio 2022 implicante la concessione di sconti fiscali e l’erogazione di 52 miliardi di dollari di incentivi nell’arco di un quinquennio per stimolare sia la produzione di semiconduttori, sia lo sviluppo delle relative tecnologie. Stesso discorso vale per la decarbonizzazione, associata all’erogazione di contributi per lo sviluppo delle capacità di produzione dell’energia da fonti rinnovabili che riducano la dipendenza europea da gas e petrolio, di cui la Russia rappresenta una fornitrice di primissimo piano. Un primo passo in questa direzione era stato compiuto con l’abbandono tendenziale dei contratti di lungo termine (take or pay oil-link) in favore del sistema spot, decretato dall’Unione Europea dietro il pungolo statunitense proprio in un’ottica di diversificazione delle fonti di approvvigionamento.


Le ripercussioni energetiche

Il risultato è stato un incremento forsennato del prezzo dell’energia, sospinto dalle riaperture post-pandemiche e dalla speculazione al rialzo che è andata montando sulla scia delle tensioni internazionali alimentate dalla  linea d’azione Usa, imperniata sull’espansione verso est della Nato e sulla trasformazione dell’Ucraina in un’arma contundente puntata contro il fianco occidentale della Federazione Russa. Il conseguente scivolamento del confronto russo-ucraino sul piano inclinato dello scontro armato ha quindi comportato l’innalzamento di una nuova “cortina di ferro” da Mur­mansk a Sebastopoli, a ridosso della direttrice San Pietroburgo-Rostov, consacrato dall’adesione dell’Unione Europea alla campagna sanzionatoria contro Mosca promossa da Washington. L’effetto più immediato è consistito nel netto allentamento del legame energetico tra Russia ed Europa, poi reciso in maniera definitiva e potenzialmente irreversibile con il sabotaggio del gasdotti Nord Stream-1 e Nord Stream-2, che secondo una ricostruzione effettuata dal celebre giornalista investigativo Seymour Hersh sulla base di informazioni confidenziali d’alto livello sarebbe frutto di un’operazione accuratamente pianificata dall’amministrazione Biden. Il graduale prosciugamento del canale russo ha costretto l’Unione Europea a cimentarsi in una ricerca spasmodica di fonti di approvvigionamento alternative, ottenute o sottraendo le forniture destinate ad altri Paesi attraverso l’ultra-valutazione dei carichi, o cercando di legarsi ai grandi produttori collocati nello stesso schieramento geostrategico.

A partire proprio dagli Stati Uniti, il cui export di Gnl ha raggiunto nel 2022 un ammontare record di 3.500 miliardi di piedi cubi sospinto dal drastico incremento delle forniture all’Europa (+137% su base annua, per un controvalore di oltre 40 miliardi di dollari). Il vantaggio competitivo dato dalla minor distanza geografica dai rigassificatori europei su cui i porti industriali Usa possono contare rispetto a quelli qatarioti e australiani rende il Gnl statunitense più economico in confronto a quello commerciato da Doha e Canberra, ma di gran lunga più caro rispetto a quello che il “vecchio continente” importava dalla Russia. Nel marzo 2022, la presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen dichiarò, nell’ambito di un comunicato congiunto con Joe Biden, che «l’impegno degli Stati Uniti a fornire all’Unione Europea altri 15 miliardi di metri cubi di Gnl quest’anno è un grande passo nella direzione dell’indipendenza energetica dalla Russia. Questo sostituirà la fornitura di Gnl che attualmente riceviamo dalla Russia. E guardando al futuro, l’Europa lavorerà per assicurare una domanda stabile di ulteriore Gnl statunitense almeno fino al 2030. Puntiamo a circa 50 miliardi di metri cubi all’anno». Un simile incremento di produzione richiede tuttavia forti investimenti per l’allestimento di adeguate infrastrutture, non solo in Europa (rigassificatori) ma anche negli stessi Stati Uniti (prospezione, perforazione, costruzione di nuovi impianti di liquefazione, ecc.), e quindi la definizione di vincoli giuridici che formalizzino l’ancoraggio strategico degli acquirenti europei ai fornitori statunitensi. Lo ha evidenziato durante una conferenza tenutasi ad Abu Dhabi lo scorso gennaio Toby Rice, che in veste di amministratore delegato della società Eqt (principale produttrice di gas degli Stati Uniti) ha annunciato la disponibilità degli Usa a fornire i volumi richiesti di Gnl, ma soltanto previa sottoscrizione di contratti a lungo termine – gli stessi che gli Usa persuasero l’Europa ad abbandonare – al prezzo di 380 dollari per 1.000 metri cubi di gas.

Il raddoppio sostanziale del prezzo degli input energetici che ne scaturisce sottrae giocoforza competitività alla macchina esportatrice europea nel bel mezzo di una congiuntura resa particolarmente critica non solo dallo spostamento del baricentro commerciale moscovita verso oriente, ma anche dall’entrata in vigore dell’Inflation Reduction Act. Per le imprese operanti all’interno del “vecchio continente”, chiamate a reggere, in un contesto economico caratterizzato da costi degli input in forte aumento, la sfida posta da una concorrenza cinese resa ancor più agguerrita dall’accesso pressoché illimitato all’energia e alle materie prime a basso costo che fino a pochi mesi fa la Federazione Russa vendeva soprattutto all’Europa, la prospettiva di godere del doppio beneficio rappresentato dai sussidi pubblici previsti dall’Ira e da prezzi dell’energia incommensurabilmente più bassi rispetto a quelli vigenti in Europa non può che risultare estremamente allettante.


Il segreto di Pulcinella 

Il disegno statunitense – reindustrializzazione del Paese a spese dell’Europa – è talmente scoperto che, come sottolinea il «Financial Times», emissari del Michigan, della Georgia, della West Virginia, dell’Ohio e di altri Stati federali hanno recentemente compiuto un vero e proprio tour europeo «armati di dettagli in merito ai succosi sussidi offerti dall’Inflation Reduction Act» allo scopo di convincere le industrie del “vecchio continente” di rilevanza strategica a rilocalizzare la produzione in territorio statunitense.  «Non penso che abbiamo mai lavorato tanto intensamente per reclutare aziende straniere quanto ora», ha dichiarato il direttore un funzionario dello Stato dell’Ohio al termine di una serie di incontri con dirigenti di imprese tedesche, italiane e belghe. I risultati non sono mancati, dal momento che, in seguito all’entrata in vigore dell’Ira, è stata annunciata l’apertura di almeno 20 nuovi impianti per la produzione di tecnologie legate alle fonti rinnovabili, metà dei quali decretata da aziende straniere. Tra cui Bmw, che lo scorso ottobre ha enumerato i dettagli di un piano di investimenti da 1,7 miliardi di dollari comprensivo dell’apertura di uno stabilimento per la produzione di batterie destinate a veicoli a trazione elettrica in South Carolina. La sudcoreana Hanwha Q-Cells, dal canto suo, ha invece pianificato un investimento da 2,5 miliardi di dollari per l’espansione di una fabbrica di pannelli solari sita in Georgia.

Gunter Erfurt, amministratore delegato di Meyer Burger, un produttore svizzero di tecnologie legate all’energia solare dotato di una filiale in Arizona, si è invece detto «stupito dall’attivismo profuso dai governi statali per attirarci». Ed ha aggiunto che «se l’Unione Europea non si presenta con qualcosa di simile [all’Ira, nda], potremmo continuare a crescere al di fuori, negli Stati Uniti in particolare, piuttosto che continuare a investire in Europa».

Nella sponda orientale dell’Atlantico, tuttavia, si registrano da un lato vacue reprimende contro il “protezionismo” di Biden, attestanti una profonda incomprensione dei reali rapporti di forza vigenti (di subordinazione, e non di alleanza con gli Usa).  Dall’altro, la solita frammentarietà strutturale che oppone agli ortodossi del nord, allergici a qualsiasi forma di intervento pubblico a sostegno delle imprese, una “fronda” piuttosto composita apparentemente disponibile ad allentare i vincoli di bilancio per porre i Paesi membri nelle condizioni di erogare sussidi pubblici analoghi a quelli previsti dall’Inflation Reduction Act statunitense, ma rigorosamente a seconda della disponibilità fiscali di ciascuno Stato. Una sorta di gioco al massacro, insomma, destinato non a scongiurare la prospettiva di deindustrializzazione che si staglia sempre più minacciosamente dinnanzi al “vecchio continente”, ma ad attutirne gli effetti soltanto per le sue componenti economicamente più solide perché implicante l’accentuazione del processo di cannibalizzazione dell’Europa meridionale ad opera dell’area germanocentrica ormai in atto dall’entrata in vigore dell’euro.

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