Iraq, i numeri di 20 anni di massacri a guida Usa

Dopo venti anni, bisogna prendere atto del fatto che la guerra in Iraq non è ancora finita. Figlia dell’unipolarismo, le cui storture giungono fino a noi e condizionano il mondo contemporaneo, quella fase è stata messa in crisi dal protagonismo del così detto sud globale e, soprattutto, dall’ascesa pacifica cinese. La cui iniziativa diplomatica è l’alleato fondamentale di chi, ancora oggi, si batte contro le guerre

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Iraq, i numeri di 20 anni di massacri a guida Usa

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di: Francesco Maringiò per italian.cri.cn e marx21.it

 

A vent’anni dell’invasione dell’Iraq da parte di una coalizione a guida Usa, formalmente terminata il 18 dicembre 2011, bisogna drammaticamente prendere atto del fatto che, in realtà, tale conflitto non sia ancora finito.

Nel 2014, infatti, le truppe statunitensi sono ritornate nel Paese (ed hanno occupato porzioni anche del territorio siriano) con l’obbiettivo dichiarato di fronteggiare l’ascesa dell’Isis, il cui leviatano è stato proprio la guerra all’Iraq. A tutt’oggi si stima che circa 2.500 soldati americani stazionino in Iraq e l’Amministrazione Biden questo mese ha messo a bilancio 400 milioni di dollari per continuare l’operazione militare. Proprio la commistione tra la guerra irachena e la crisi siriana ha spinto il prestigioso Watson Institute di Rhode Island a redigere un bilancio dei costi umani ed economici congiuntamente della guerra americana in Iraq e Siria nel ventennio 2003-2023.

Ed i costi sono ingenti: si calcola che la perdita di vite umane si aggiri tra i 550 ed i 580 mila nei due paesi, a cui vanno aggiunte le vittime per cause indirette come lo sfollamento, lo scarso accesso all’acqua potabile ed all’assistenza sanitaria e le malattie prevenibili. In termini di costi economici il Watson Institute parla di 2,89 trilioni di dollari, dato che include sia i costi finora sostenuti che l’assistenza ai veterani fino al 2050. Non parliamo poi della distruzione dei paesi e delle ferite inflitte per generazioni alla popolazione. Sempre il rapporto parla di 7 milioni di rifugiati ed 8 milioni di sfollati. A tutto questo si aggiunge un costo anche in termini ambientali: le operazioni militari statunitensi nella guerra all’Iraq hanno generato circa 100 milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalente, secondo uno studio condotto dalla professoressa Neta Crawford, docente di relazioni internazionali all’Università di Oxford e autrice del nuovo libro The Pentagon, Climate Change, and War: Charting the Rise and Fall of U.S. Military Emissions.

Ma a vent’anni dall’avvio di quella aggressione, le ragioni di chi si opponeva – anche nei paesi occidentali – alla guerra, restano tutte sul tappeto. È stato fin troppo semplice decostruire la narrativa bellica incentrata sulla minaccia imminente dell’Iraq di Saddam e della presenza di armi di sterminio di massa, come del resto evidenziato dal Rapporto Chilcot britannico (che analizza le responsabilità d Blair) e dalle dichiarazioni dello stesso Wolfowitz, teorico della dottrina della “guerra preventiva”.

E quindi ecco che emerge in tutta la sua evidenza il cuore del problema: il ruolo del Dollaro come moneta di scambio. Nel novembre 2000 Saddam annunciò che le esportazioni del petrolio iracheno sarebbero state regolate in Euro e stava spingendo all’interno dell’OPEC per abbandonare l’utilizzo del dollaro come moneta di scambio per il mercato petrolifero. La guerra serviva ad impedire questa transizione, ed infatti il primo decreto emesso dal governo dell’Iraq eletto sotto occupazione militare americana fu di tornare al Dollaro per il commercio del petrolio. La guerra inoltre, come ci ricorda il generale cinese Qiao Liang, ha fatto alzare il prezzo globale del petrolio, «questa impennata di prezzi aveva fatto salire la domanda globale di dollari, e che quindi gli americani erano riusciti a crearla attraverso la guerra. Prima della situazione in Iraq, un barile di petrolio costava 38 dollari, dopo il conflitto quasi 150. Ciò significava che una guerra aveva aumentato la domanda di dollari di più del triplo». Inoltre dal 2003 le entrate delle compagnie petrolifere irachene finiscono forzosamente su un conto aperto a nome della Banca Centrale dell’Iraq presso la Federal Reserve americana, per cui da allora l’Iraq non ha riacquisito la sua sovranità monetaria e finanziaria. È l’apoteosi delle conquiste americane nella fase di guerra dell’era unipolare, una fase che lascia ancora profonde ferite sia nei popoli assoggettati che nel cuore delle stesse società occidentali, come dimostrano l’impiego e l’abuso dell’esecutivo unitario durante l’era Bush jr, le operazioni di sorveglianza e compromissione di massa e le drammatiche vicende venute alla luce con i fatti di Abu Ghraib e Collateral Murder.

Questi venti anni sono stati quindi una lunga serie di errori ed orrori, ma sarebbe sbagliato ridurre tutto solo a questo aspetto. Sono anche stati anni di resistenza. Innanzi tutto da parte dei popoli che hanno resistito all’occupazione militare straniera e l’invasione del proprio paese prima e la precipitazione settaria poi, che ha contribuito al collasso della società irachena. Ma c’è stata una forte resistenza anche nei paesi occidentali, impegnati nella coalizione bellica contro l’Iraq: il 15 febbraio 2003 si svolse in tutto il mondo in quasi mille città una manifestazione mondiale per dire “No alla guerra, senza se e senza ma”. Oltre 100 milioni di persone sfilarono per le strade di tutto il mondo, scrivendo una pagina storica del pacifismo mondiale al punto che Patrick Tyler, editorialista del New York Times, affermò che «le enormi manifestazioni contro la guerra in tutto il mondo ci ricordano che potrebbero esserci ancora due superpotenze sul pianeta: gli Stati Uniti e l’opinione pubblica mondiale».

Questa visione, anche alla luce degli eventi di questi due decenni, è certamente semplicistica. Ma oggi, in modo più evidente di quanto non fosse già intuibile nel 2003, quell’opinione pubblica mondiale ha nella lotta contro le guerre un alleato importante. Le forme di resistenza nel nord e sud del mondo e l’ascesa di paesi del così detto sud globale, guidati dalla Repubblica Popolare Cinese assurta a seconda economia del mondo senza seguire la strada dell’Occidente né causare le guerre da esso provocate, hanno cambiato profondamente gli equilibri internazionali, chiudendo la bellicosa parabola del mondo unipolare.

Ora la sfida si sposta nella costruzione di un vero multilateralismo, come ripetuto molto spesso dalla dirigenza cinese, dove l’aggettivo sta a testimoniare non tanto la presenza nel mondo di mutati equilibri, quanto la necessità di superare regole ed imposizioni figlie della fase unipolare e godere di una governance centrata sulle Nazioni Unite ed il diritto internazionale. Per garantire ciò c’è bisogno di sicurezza, sviluppo e riconoscimento delle diverse civiltà mondiali. I tre pilastri delle iniziative globali che, non casualmente, Pechino sta avanzando al mondo, dando forma ai tratti di un nuovo umanesimo, che sorregge l’attività diplomatica di questi giorni. E non sono in pochi, anche qui da noi, ad augurarsi che tale dinamismo sortirà un effetto positivo sui conflitti in corso.

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