La follia delle clausole di salvaguardia sull'IVA

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La follia delle clausole di salvaguardia sull'IVA



di Thomas Fazi
 

In questi giorni si parla molto delle cosiddette clausole di salvaguardia sull’IVA. I media non perdono occasione di ricordarci come, a meno che il futuro governo non sia in grado di “reperire” 23 miliardi nel 2020 e 28 miliardi nell’anno successivo (per mezzo di tagli alla spesa pubblica e/o maggiori tasse), scatterà l’aumento automatico delle aliquote IVA (al 25,2 per cento nel 2020 e al 26,5 per cento nel 2021) previste, per l’appunto, dalle suddette clausole di salvaguardia. Difficile, se non impossibile, però, trovare qualcuno che osi mettere in discussione la logica di fondo di questa falsa alternativa, presentata come una sorta di “legge naturale”.


In realtà, come vedremo, si tratta dell’ennesimo strumento di classe travestito da tecnicismo economico. Per capire perché, partiamo dalle basi. L’IVA (imposta sul valore aggiunto), come sappiamo fin troppo bene, è una tassa – attualmente pari al 22 per cento – applicata a tutti i beni e servizi che vengono acquistati nel territorio nazionale. Come ogni tassa indiretta, si tratta di un’imposta intrinsecamente regressiva, poiché incide maggiormente sui redditi bassi che su quelli alti.


Forse non tutti sanno, però, che l’IVA in Italia non esiste da sempre: essa è stata introdotta nel 1972 – inizialmente al 12 per cento – in attuazione di due direttive europee finalizzate ad armonizzare i sistemi fiscali degli Stati membri in vista di una futura integrazione economica dell’Unione europea (allora nota come CEE).


L’introduzione dell’IVA e più in generale l’adeguamento della legislazione italiana alle direttive comunitarie europee sancì l’avvio di un graduale scardinamento del modello tributario «informato a criteri di progressività» previsto dalla Costituzione repubblicana del 1948 (art. 53). Un sistema informato al suddetto principio non poteva che privilegiare l’imposizione diretta sui redditi – con aliquote diverse a seconda della fascia di reddito, al fine di redistribuire ricchezza dalle fasce alte a quelle basse – rispetto a quella indiretta sui consumi.


Dal dopoguerra fino alla fine degli anni Settanta, infatti, la struttura impositiva italiana fu caratterizzata da 32 scaglioni di reddito ed altrettante aliquote, la più alta delle quali si aggirava intorno al 70-80 per cento, come si può vedere nella figura 1. Le imposte indirette, d’altro canto, erano relativamente basse (soprattutto bolli su prodotti specifici) rispetto al prelievo sui consumi introdotto dall’IVA.



Che l’introduzione dell’IVA rappresentasse una misura antipopolare che avrebbe gravato soprattutto sulle classi più deboli era ben chiaro ai partiti di sinistra dell’epoca. Come notarono i deputati comunisti nella relazione di minoranza sul disegno di legge per la delega al governo per la riforma tributaria, l’IVA avrebbe comportato «il più consistente e più concentrato fattore di aumento – e per giunta per legge – del costo della vita, concentrato sul comparto dei prodotti alimentari che rappresentano una quota di spesa tanto più alta quanto più bassa è la capacità di acquisto del consumatore».


A chi opponeva che l’Italia era tenuta ad introdurre l’IVA per via dei suoi obblighi verso la CEE (il «ce lo chiede l’Europa» ha una lunga storia), i deputati del PCI, al tempo ancora ben consapevoli del nesso inscindibile tra sovranità nazionale e salvaguardia del modello democratico-costituzionale, replicarono che «a nostro avviso nessun obbligo o impegno verso la CEE è superiore all’interesse nazionale». (Per carità di patria eviterò di fare raffronti con l’attuale sedicente sinistra).


Ad ogni modo, la legge fu approvata. Da quel momento in poi, come si può vedere nelle figure 2 e 3, l’IVA – e con essa la pressione fiscale generale – ha continuato inesorabilmente ad aumentare nel corso degli anni, per l’effetto combinato dell’aumento della spesa per interessi (combinato “divorzio”-SME; per maggiori informazioni vedasi https://www.facebook.com/thomasfazi/posts/2351892221570569) e della severa contrazione fiscale richiesta dall’adesione dell’Italia al regime di Maastricht, fino ad arrivare ai livelli improponibili che conosciamo oggi.






Contemporaneamente, a partire dagli anni Settanta e in maniera sempre più decisa nel corso degli anni Ottanta e Novanta, l’aliquota massima sui redditi è scesa altrettanto inesorabilmente (figura 4), distruggendo la progressività delle imposte dirette.



Il risultato è stato il ribaltamento totale della natura stessa del sistema fiscale italiano: da strumento di redistribuzione dall’alto verso il basso – come previsto dalla Costituzione – si è trasformato in un meccanismo di drenaggio delle risorse dai lavoratori e dal ceto medio verso le grandi rendite finanziarie. Un ruolo di spicco in tal senso ha giocato l’aumento incessante dell’IVA, che oggi rappresenta circa il 25 per cento delle entrate tributarie.


L’apice di questo processo si è raggiunto proprio con l’introduzione nel luglio del 2011 – dunque nel pieno della tempesta perfetta orchestrata dalle oligarchie finanziarie, con la compiacenza della BCE, ai danni dell’Italia – della cosiddetta “clausola di salvaguardia” da parte del governo Berlusconi IV (che godeva – è il caso di ricordarlo – dell’appoggio della Lega). Essa prevede, come già ricordato, un aumento automatico delle aliquote IVA e delle accise qualora il governo non sia in grado di reperire le risorse necessarie a soddisfare i vincoli di bilancio europei. Siamo dunque di fronte all’istituzionalizzazione di quel “pilota automatico” che ormai caratterizza da anni la politica economica europea, finalizzata alla definitiva depoliticizzazione e de-democratizzazione del processo decisionale.


Le clausole di salvaguardia sono state attivate per la prima volta da Monti nel 2011 e poi nuovamente da Letta nel 2013. I governi successivi sono invece riusciti a “sterilizzare” le clausole di salvaguardia per mezzo di riduzioni di spesa e aumenti delle tasse, misure che comunque hanno colpito soprattutto i ceti medio-bassi. Per quanto riguarda l’attuale (ormai ex) governo giallo-verde, esso non ha fatto nulla per mettere in discussione il principio della clausola di salvaguardia: non avendo reperito le risorse necessarie per evitare l’aumento dell’IVA nell’ultima legge di bilancio, si è limitato a rinviarne l’entrata in vigore, riservandosi di trovare le risorse in un secondo momento. In questo modo la cifra si è quasi duplicata rispetto agli anni passati: 23 miliardi nel 2020 e 28 miliardi nell’anno successivo, come si diceva, se si vuole evitare l’aumento dell’aliquota IVA al 25,2 per cento nel 2020 e al 26,5 per cento nel 2021.


Questo ci porta alla situazione in cui ci troviamo oggi, in cui il prossimo governo – qualunque esso sia – si troverà a dover scegliere tra tagliare la spesa pubblica e/o aumentare le tasse e aumentare l’IVA. Certo, si potrebbero – e dovrebbero – rivedere drasticamente le aliquote massime, ma è lecito dubitare che questo darebbe gli esiti sperati (almeno in tempi brevi) – e permetterebbe di rispettare i vincoli europei – in un contesto di alta evasione e di piena libertà di movimento dei capitali.


Esiste ovviamente una terza opzione: ripudiare una volta per tutte il perverso meccanismo della clausola di salvaguardia e gli assurdi vincoli di bilancio su cui si basa e abbassare drasticamente l'IVA (il che ovviamente non è in contraddizione con la reintroduzione di un meccanismo tributario fortemente progressivo; anzi, la reintroduzione di forme di controllo sui movimenti di capitali ne rappresenterebbe una condizione probabilmente necessaria). Ma questo vorrebbe dire ripudiare tutta l’architettura di Maastricht, un’ipotesi che al momento non è al vaglio di nessuno dei principali partiti politici.

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