La lezione di Gramsci
C'è un modo di affrontare l'eredità gramsciana che si è ormai radicato e rischia di rendere i contenuti dei Quaderni un puro esercizio intellettuale o di dar luogo a un'impostazione ripetitiva, senza efficacia politica, dei ragionamenti che Gramsci andava facendo in carcere.
Le considerazioni che seguono potranno anche essere ritenute una forzatura, ma almeno una domanda importante dobbiamo porcela, e soprattutto porla alla base di un dibattito tra comunisti.
Come mai con tanto gramscismo in giro non si è riusciti a ricavare un'ipotesi di riorganizzazione che tenesse conto di ciò che Gramsci stesso aveva scritto nei Quaderni e che pure è ritenuto generalmente un bagaglio essenziale della formazione comunista in Italia? E' possibile rassegnarsi al fatto di considerare i Quaderni un'opera storicamente datata da cui ricavare solo concetti di carattere generale come quello di egemonia, di guerra di posizione e guerra di movimento, di cosmopolitismo alla Bronstein ecc. dando per scontato che rappresentino il messaggio essenziale di Gramsci? Oppure bisogna cominciare a vedere le cose anche da un altro punto di vista e cercare di capire perché la lezione di Gramsci, nonostante i numerosi sacerdoti del suo culto, non ha sedimentato ancora un pensiero vivo che sia in grado di rianimare le file di chi, dopo la disfatta del PCI, si proponeva di rinnovarne l'esperienza?
A noi viene in mente, azzardando un'ipotesi, che se la lettura di Gramsci non ha prodotto un pensiero politico attivo è perché si è preso poco o nulla in considerazione il fatto che il suo lavoro tendeva non solo a ridisegnare un canone interpretativo della realtà italiana dopo la sconfitta dovuta al fascismo, ma anche a introdurre nella cultura comunista italiana paradigmi nuovi per interpretare la realtà.
Qual è il rapporto, dunque, tra il Gramsci che conosciamo attraverso gli scritti dei suoi esegeti e un Gramsci che cerca invece di mettere in movimento, con il suo metodo di ricerca, uno schema di azione politica aderente alla realtà?
Come sappiamo, l'importanza del congresso di Lione sta nella elaborazione delle tesi sulle forze motrici della rivoluzione in Italia in contrapposizione allo schematismo bordighiano. Successivamente però Gramsci con i Quaderni cerca di approfondire le questioni che un partito comunista deve porsi nel suo percorso di trasformazione della società. E non dobbiamo farci ingannare dal modo in cui queste cose vengono proposte nei Quaderni perché nelle condizioni in cui Gramsci si trovava negli anni '30 del secolo scorso, il controllo carcerario e le difficoltà personali gli impedivano di portare la sua ricerca a una conclusione più direttamente politica, per cui l’opera si presenta come un grande affresco apparentemente teso ad analizzare vari aspetti della cultura e della società italiana, mentre lo sforzo era quello di capire come questa fosse strutturata e come i comunisti si dovessero attrezzare per trasformarla.
Da questo punto di vista solo Togliatti ha saputo tener conto del suo metodo quando è tornato dall'esilio nel 1944. Non si è trattato infatti solo di un adeguamento della linea del PCI alla strategia del VII congresso dell'Internazionale. Se analizziamo gli sviluppi nel dopoguerra in Italia, insieme al passaggio Resistenza-Repubblica-Costituzione vediamo all’opera anche un altro fattore essenziale che dopo il 1947, nonostante la pesantezza dell'attacco del blocco reazionario guidato dalla DC, portò i comunisti a esercitare un’egemonia su una vasta area del paese, con un rapporto dialettico tra livello della lotta di classe e costruzione di un fronte sociale, politico, culturale articolato nella società italiana.
Quali sono le deduzioni che si possono trarre dal metodo gramsciano applicandolo alla situazione italiana dopo la scomparsa del PCI? Si tratterebbe di individuare il filo rosso di una storia che fino agli anni '60 del secolo scorso si era mossa sostanzialmente in continuità con quelle che erano le linee guida della ricerca dei Quaderni. Due esempi tra i tanti: lo scritto di Togliatti sull'Emilia rossa e l'insistenza sui rapporti con il mondo cattolico. Parlando di questi temi si andava oltre allo specifico delle questioni e, analizzando le caratteristiche della società italiana, si individuavano le articolazioni politiche di cui bisognava tener conto per capire la realtà e modificarla. Dopo la fine del PCI a questa necessità non si è risposto più ripartendo dai dati oggettivi, ma proponendo schemi che non hanno affatto funzionato. Da un lato una sinistra di opposizione su basi eminentemente ideologiche e dall'altro un’idea piuttosto astratta di lotta di classe che non ha maturato perciò in modo permanente tra i lavoratori una posizione di antagonismo sociale che potesse divenire il perno per i cambiamenti. Alla resa dei conti ci si è accorti che mentre a destra dello schieramento politico italiano si andavano consolidando gli equilibri di potere, a sinistra rimaneva in piedi solo un’opposizione virtuale che non scalfiva i rapporti di forza reali.
Aprire il confronto su questi argomenti finora non è stato possibile e anziché cercare di capire che cosa non stesse funzionando sul piano delle analisi e delle proposte politiche si è lasciato campo libero alla disgregazione di molte esperienze. Nonostante le tante chiacchiere, contrariamente ai suggerimenti gramsciani, non siamo stati in grado di riorganizzare le idee sulla società che abbiamo di fronte e sul rapporto tra i livelli di riorganizzazione e le proposte di trasformazione.
Di cosa dobbiamo discutere dunque per uscire dalle difficoltà? Se, come è necessario, partiamo da un elemento che potremmo definire questione operaia, ci troviamo di fronte da una parte alla totale trasformazione genetica del sindacalismo confederale e dall'altra a meccanismi istituzionali che negli anni si sono andati vieppiù consolidando e pesano come macigni: monopolio della contrattazione da parte dei confederali, normativa antisciopero, mancanza di una rappresentanza diretta dei lavoratori nelle decisioni che li riguardano. Tutto questo non solo ha generato una distorsione del sistema storico di difesa della condizione dei lavoratori, ma ha anche modificato in profondità l'intero sistema dei rapporti sul piano degli equilibri politici perchè l'uscita di scena del protagonismo operaio ha aperto autostrade non solo alla destra, ma anche al nuovo liberal-riformismo che ha preteso e imposto per decenni la mistificazione di un suo ruolo succedaneo del PCI. Le questioni che si pongono hanno dunque una rilevanza e una portata assai vasta e l’incapacità di individuare i punti su cui va ricostruita la ripresa di protagonismo della parte più importante della società italiana ha portato alla fine a un governo composto da neofascisti. Ma proprio il punto di approdo dell'intero universo politico italiano pone l'esigenza di individuare e definire le forze in campo e il modo in cui i comunisti dovrebbero affrontare un'azione per modificare i rapporti di forza.
Dallo schema ideologico dobbiamo passare a quello basato sui dati reali. I quali ci dicono che una parte sostanziale degli italiani (più o meno il 50%) non vota e quindi si è distaccata dal sistema mediatico che sostiene i governi. È certamente un fatto positivo, ma non è possibile tradurlo in alternativa politica senza capire che cosa c’è dietro. Più la situazione si deteriora e più aumenta l'astensionismo che non si traduce però in spinta all'alternativa politica. Se consideriamo poi l'altra metà del popolo italiano, quella che vota, constatiamo che la destra risulta maggioritaria, che i liberal-democratici del PD non sono un'alternativa e che l'opposizione poggia di fatto sulle fragili spalle dei 5 Stelle. Il resto è limitato a quel settore minoritario e ghettizzato che prova, senza riuscirci, a creare un’alternativa politica, elettorale e sindacale.
Nessuno può ritenere di avere la chiave interpretativa della situazione, ma una cosa è certa, di fronte alla situazione in cui ci troviamo, bisogna spostare l'asse del ragionamento su cui si sta insistendo inutilmente da tempo, affrontando i nodi delle forze che oggi si possono mettere in movimento, di come liberare altre forze bloccate dall'astensionismo e, per quanto riguarda i lavoratori, riuscire a mettere in crisi il controllo confederale recuperando il loro protagonismo.
Non si può continuare ad andare avanti con gli slogan. Bisogna invece ristabilire una linea di continuità tra quello che è stato il pensiero e l'azione dei comunisti in Italia e ciò che i comunisti dovrebbero fare oggi. Con quel pessimismo dell'intelli¬gen¬za, ma anche con l'ottimismo della volontà, che Gramsci indicava come caratteristica dei comunisti.
Aginform
8 maggio 2023