La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati

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La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati

 

Era la primavera del 2012 quando andai a Beit Jala, nei pressi di Betlemme, per scoprire da vicino cosa stava succedendo nella colline e nella valle del Cremisan che Israele, nella sua incontenibile ingordigia,  cercava di annettersi grazie al mostro di cemento che violenta il paesaggio, le vite e i diritti dei palestinesi. Dopo aver parlato col sindaco e alcuni membri delle 58 famiglie che avrebbero perso le loro terre, andai a intervistare don Franco, il prete salesiano che dirigeva il complesso viti-vinicolo del Cremisan e che tentava di proteggere dalle mire israeliane questa collina coltivata a viti e olivi che sfortunatamente si trova sotto uno dei più grandi insediamenti israeliani, ovviamente arbitrari.

L’incontro non ebbe un esordio cordiale, don Franco era un uomo colto, intelligente, ma piuttosto ruvido.

Alle mie domande rispondeva che lui faceva il prete e non discuteva di politica. Fingendo di non accorgermi del suo tentativo di liquidarmi cercai un varco per fargli accettare se non un’intervista, almeno un breve colloquio.

Gli parlai della campagna che stavo portando avanti in Italia sui vini Cremisan, con la quale provavo a far comprendere l’arbitrio del muro israeliano e della confisca della collina alla quale i salesiani e lui personalmente avevano dedicato tanti anni di lavoro. L’aggancio fu quello giusto, don Franco si aprì e, sempre affermando di non parlare di politica, mi disse che  i quasi cinquant’anni che aveva passato in Palestina, i numerosi libri letti - anche in arabo -  non solo di poesia e narrativa ma anche di storia, non gli avevano mai permesso di capire davvero la questione israelo-palestinese finché non gli capitò di leggere La pulizia etnica della Palestina.  

Insistette sul fatto che non avrebbe mai capito la realtà autentica della situazione israelo-palestinese se non avesse letto quel libro. Mi dissi completamente d’accordo perché era stato una pietra miliare anche per me e aveva segnato il passaggio dall’attivismo filopalestinese nato dal rifiuto dell’ingiustizia,  alla piena consapevolezza che la realtà attuale è basata su un originario progetto sionista che lo storico Pappé è riuscito a mostrare  basandosi sui documenti israeliani finalmente desecretati.  

Il non più laconico e scostante don Franco, una volta scoperto questo punto in comune divenne gentile e parlammo a lungo.

Nella sua convinzione sacerdotale che la consapevolezza può far mutare comportamenti e idee, mi disse che chiunque avesse letto quel libro avrebbe capito l’origine reale di un’ingiustizia da sempre impunita, quindi era un libro da far leggere a tutti. Una pietra miliare posta sul cammino della conoscenza proprio da un accademico israeliano il quale, nel rispetto della realtà storica e con grande onestà intellettuale, aveva reso pubblica una verità così scomoda che lo avrebbe reso oggetto di diffamazioni e ostilità inducendolo ad abbandonare Israele e a proseguire il suo lavoro di ricerca e la sua carriera accademica in un’università britannica.

Tra i vari libri scritti nel corso degli anni, Pappé nel 2017 ha pubblicato in inglese The biggest prison on earth, che può essere considerato il seguito de La pulizia etnica della Palestina e che ora è disponibile in italiano per la traduzione di Michele Zurlo, edito, come il precedente, da Fazi Editore di Firenze col titolo “La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati”, collana  Le terre, pag. 400, 20 euro.

L’autore dedica questo lavoro “ai bambini palestinesi, uccisi, feriti e traumatizzati dal vivere nella più grande prigione del mondo” dichiarando così, in modo onesto e limpido, di riconoscere da quale parte stare, e da quale parte lui sta, tra l’oppresso e l’oppressore. Anche La prigione più grande del mondo si basa su verbali d’archivio e altri documenti autentici che sconfessano totalmente la narrazione israeliana la quale, grazie al diabolico e intelligente lavoro dell’AIPAC[1], è ben supportata sia dai media che dalla superpotenza USA e dai suoi Stati vassalli. Il volume, come esplicitato nel sottotitolo, prende in considerazione quella parte della Palestina storica che sfuggita all’annessione del 1948-49 verrà occupata militarmente da Israele e gradualmente annessa, de facto, a partire dal 1967.

Che l’obiettivo vero dell’occupazione fosse l’annessione verrà mostrato, documenti originali alla mano, pagina dopo pagina a partire dalla prefazione e dall’introduzione, entrambe dell’autore, che vanno assolutamente lette prima di entrare nel corpo del libro, perché offrono il quadro d’insieme del progetto sionista nelle diverse fasi del suo più che secolare svolgimento. I titoli che l’autore dà ai capitoli e ai paragrafi in cui si sviluppa il volume rappresentano una guida sia cronologica che concettuale del lavoro di ricostruzione storica da lui accuratamente compiuto. A cominciare dai luoghi fisici, come Givat Ram, la collina su cui è stata costruita l’Università ebraica, e dai personaggi che nel 1963, proprio in quelle aule, studiarono il progetto sionista che si sarebbe poi sviluppato, a partire dal giugno 1967 col nome in codice di “piano Shacham”, dal nome del governatore militare, amico e correo di Ariel Sharon in azioni di rappresaglia particolarmente spietate contro i feddayin già dal 1953.

Gli archivi consultati da Pappé hanno infatti rivelato che già quattro anni prima della guerra dei sei giorni la struttura politica e militare organizzata per il controllo di Cisgiordania e Striscia di Gaza aveva pronti perfino  i nominativi cui assegnare i vari ruoli nell’occupazione di quei territori. La preparazione che “l’unità speciale” aveva avuto a Givat Ram permise infatti a Israele di istituire immediatamente, nello spazio di pochissimi giorni dall’inizio della guerra, un governo militare e un sistema giudiziario  atti a controllare da subito, e secondo un sistema tipicamente carcerario, il popolo sotto occupazione. A Givat Ram, ci dice Pappé, si era stabilito come realizzare e come gestire quella che sarebbe stata la prigione più grande del mondo, basata su diversi gradi di punizione verso i detenuti a seconda della loro “buona condotta” verso il carceriere, passando dal carcere meno duro alla forma estrema del carcere di massima sicurezza rappresentato dalla Striscia di Gaza con la cui esposizione si conclude il volume.

Inutile cercare qualche forma di dissenso a quel progetto mostruoso tra gli ebrei socialisti o di altre realtà politiche sedicenti democratiche: dai documenti d’archivio risulta che in quei giorni del 1967, da Begin al Mapam, dai partiti laici e liberali a quelli utrareligiosi nessuno si oppose, e quel che venne stabilito allora ha rappresentato il solco da cui Israele non ha mai deviato. Le carte geografiche in appendice al volume e la ricca bibliografia rendono ancor più trasparente la verità su una delle più gravi ingiustizie del XX e XXI secolo che cammina sulla menzogna mediatica scavalcando impunemente gli ostacoli previsti dalla legalità internazionale per quei crimini che Israele commette quotidianamente.

Come affermato da Ilan Pappé “il modo in cui si inquadra una situazione può influenzare le possibilità di cambiarla” e questo rende chiaro perché fino ad oggi non c’è stata alcuna possibilità di influenzare un cambiamento, reale, di posizioni circa gli abusi israeliani, nonostante  l’intenzione di farlo sia apparsa, di quando in quando, anche da parte di (pochi) onesti israeliani tra i quali l’autore cita Meron Benvenisti, ex sindaco di Gerusalemme, o di rari politici statunitensi, tra i quali cita il senatore Fullbright che, preso di mira dall’AIPAC per le sue critiche e per aver chiesto il ritiro immediato di Israele dopo la guerra dei sei giorni, vide la fine della sua carriera. L’uso di un linguaggio ad hoc fu una delle mosse più lucide dei leader sionisti per evitare che la politica israeliana venisse sottoposta a sanzioni internazionali. Lo iato tra ciò che Israele faceva e ciò che diceva fu sancito “come linea politica”. Trovare gli opportuni stratagemmi lessicali fu compito affidato alla sinistra israeliana. Pappé cita dichiarazioni sconcertanti per il loro cinismo tratte dai verbali desecretati dove spiccano i nomi di Ygal Allon, Moshe Dayan, Abba Eban, ma anche di Moshe Kol e Zalman Aran il quale condensò in una sintetica frase la posizione da seguire : “siamo chiamati a dire qualcosa, non a voler necessariamente intendere qualcosa[2]. Praticamente l’essenza della menzogna, quella che ha consentito e tuttora consente a Israele di ottenere complicità e protezioni internazionali. Aran era un esponente del Mapai[3] e non della destra come si potrebbe supporre guardando alla storia più recente di Israele.

Basandosi sulle fonti originarie si chiarisce quanto sia importante inquadrare la situazione israelo-palestinese secondo verità, ma per farlo serve coraggio, onestà intellettuale e, non ultimo, un certo grado di empatia verso il popolo vittima di una montagna di ingiustizia e di soprusi. E quest’empatia Pappé l’ha dichiarata, è nelle sue opinioni, ma non inficia minimamente la correttezza della ricerca storica su cui si basano i suoi lavori. La ricostruzione storica di tutto l’apparato politico, burocratico e militare mette in mostra la decisione di escludere Cisgiordania e Gaza da qualsiasi eventuale futuro negoziato di pace, decisione che smaschera il cosiddetto “processo di pace” che ha consentito a Israele di rosicchiare senza interruzione i Territori palestinesi occupati, sostituendo di fatto l’insediamento coloniale permanente all’occupazione che, solo verbalmente, veniva definita temporanea.  Un progetto che  in modo scientemente programmato, con un apparato burocratico enorme affiancato a quello militare, ha origine nel XX secolo, ma che i documenti esaminati mostrano essere già presente, almeno come obiettivo da raggiungere, nel lontano 1882.    Dagli archivi declassificati emerge la verità sulla guerra dei sei giorni, l’evento che ha permesso la realizzazione del progetto che avrebbe fatto di Cisgiordania e Gaza una prigione senza via d’uscita. Il criminale capolavoro di rendere i palestinesi dei detenuti in casa propria, una casa che si è fatta sempre più stretta grazie ai “cunei” ideati da Ygal Allon e all’espandersi degli insediamenti  coloniali fino a diventare  quasi delle città, non fu immediatamente compreso o non volle essere compreso dalle democrazie occidentali che osannavano (e osannano) Israele, così come non fu compresa la reale dinamica della guerra dei sei giorni grazie – anche – al lucido piano di contraffazione lessicale. In quasi 400 pagine, di cui nessuna superflua, Ilan Pappé spiega il meccanismo carcerario cui è sottoposto il popolo palestinese compreso lo stesso presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas. Il sistema premi-punizioni, ove i premi sono soltanto un minor accanimento vessatorio e le punizioni sono veri e propri crimini di guerra e contro l’umanità è ciò che i palestinesi sono costretti a vivere e a cui una buona percentuale di loro si ribella pagando con l’arresto e, quasi quotidianamente, con la vita, la non accettazione delle leggi imposte dal loro carceriere.

La Prigione più grande del mondo è stato scritto 5 anni fa e si può considerare la continuazione de La pulizia etnica scritto nel 2006. E’ auspicabile un terzo volume, appena i documenti del XXI secolo verranno desecretati, perché Israele, pur proseguendo la sua pulizia etnica lenta e continua tenendo i palestinesi imprigionati e vessati, non ha ancora vinto e, seppure a livello di vertici la Palestina è frammentata e facilmente ricattabile, a livello di popolo la resistenza non si è mai fermata, né davanti all’infamia degli omicidi mirati, né agli arresti in massa o alle demolizioni e alle confische, né sotto i bombardamenti e neppure sotto l’orrore del fosforo bianco che a Israele è misteriosamente consentito usare.  In conclusione, La prigione più grande del mondo, al pari de La pulizia etnica della Palestina, come diceva don Franco, rappresenta una sicura pietra miliare per capire la verità e togliere ogni velo ipocrita a chi si ostina a difendere l’indifendibile Stato ebraico.

 

[1] AIPAC  è l’acronimo di American Israel Public Affairs Committee, fondato inizialmente nel 1953 a Washington con il nome di American  Zionist Council, ma visto che sotto la presidenza Eisenhower non riuscì ad avere l’influenza che avrebbe avuto in seguito sugli affari americani con riferimento diretto e indiretto a Israele, venne affiancato da una lobby indipendente, appunto l’AIPAC, divenuta il più potente organismo di orientamento e di influenza filo-israeliana comprendente democratici, repubblicani e indipendenti capace di esercitare pressione tanto sui membri del Congresso che sui vertici del potere statunitense.

[2] Cfr pag. 133.

[3] MAPAI, Partito di sinistra fondato nel 1930. Nel 1968 entrò nel Partito Laburista.

Patrizia  Cecconi

Patrizia Cecconi

Romana di nascita, milanese di ultima adozione. Laureata in Sociologia presso la Sapienza Roma ove tiene per alcuni anni dei seminari sulla comunicazione deviante. Successivamente vince la cattedra in Discipline economiche ed insegna per circa 25 anni negli Istituti commerciali e nei Licei sperimentali. Interessata all'ambiente, alle questioni di genere e ai diritti umani ha pubblicato e curato diversi libri su tali argomenti ed uno in particolare sulla Palestina esaminata sia dal punto di vista ambientale che storico-politico. Ha presieduto per due mandati l'associazione Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese di cui ora è presidente onoraria e, al momento, presiede l'associazione di volontariato Oltre il Mare. Da oltre 12 anni trascorre diversi mesi l'anno in Palestina, sia West Bank che Striscia di Gaza, occupandosi di progetti e testimonianze dirette della situazione. Collabora con diverse testate on line sia di quotidiani che di riviste pubblicando articoli e racconti. 

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