La produttività o la vita?
L’ho scritto tante volte, ma sono cose che vanno ricordate. Se prendete il testo unico in materia di salute e sicurezza e provate a dargli un’occhiata, troverete la definizione della parola “salute”: si specifica che essa non si esaurisca con la mera assenza di malattia, in quanto il lavoratore ha diritto a versare in un vero e proprio stato di “benessere”.
Insomma, sul luogo di lavoro abbiamo diritto (letteralmente!) di godere.
La normativa tutto sommato regge. Eppure i morti non si contano più, per non parlare degli infortuni. Certo, mancano gli ispettori e su questo bisogna lavorare, ma non basta.
Lo ripeto ancora, in nessun altro ambito del diritto esiste una distanza tra diritto formale e diritto materiale paragonabile a quella che si registra nel lavoro: puoi prescrivere le migliori condizioni sulla carta, ma se la lavoratrice o il lavoratore è ricattabile, se il suo contratto è a termine, se il suo posto di lavoro è in pericolo, tenderà a non denunciare il mancato rispetto delle norme. Perdere il lavoro, con una disoccupazione (voluta!) come quella che soffriamo significa rinunciare a lungo ai mezzi per la propria sopravvivenza, per quella dei propri cari e della propria famiglia, senza parlare dei sogni.
Ieri leggevo che la morte di Luana D’Orazio è riconducibile alla manomissione dell’orditorio al quale lavorava, il macchinario che l’ha stritolata, “utile” ad un aumento della produttività dell’8%. Luana aveva un bambino piccolo. In effetti molto giovane lo era anche lei.
Questa parola, “produttività”, risuona come un'eco lugubre dinanzi a quanto è accaduto: è uno spillo che si ficca nella testa e ti tortura.
Oggi è il mantra in qualsiasi discussione in materia di lavoro: tutti i piani industriali delle grandi aziende non parlano d’altro. Siamo precipitati in una deriva nella quale persino le più basilari e razionali regole del buon gusto sono venute meno.
Vi racconto questa. Recentemente ho partecipato alla presentazione di un piano industriale grosso: roba di centinaia di milioni di euro, con cessioni di rami d’azienda, uscita di oltre 800 lavoratori, roba da far paura.
L’AD era al centro di un palco - con le telecamere puntate, i fari e tutto il resto - e con un fare partecipato e apparentemente coinvolto parlava che pareva Fiorello quando imitava Morandi e motivava con «dai, dai che ce la fai!».
Una roba surreale: un discorso interamente incentrato sulla produttività: un’ora e mezza nella quale, praticamente, delle oltre diecimila persone impiegate nel gruppo non si è quasi parlato. Nessuno spazio: per il loro reale benessere, per loro ambizioni, per la loro crescita, per le loro rivendicazioni. Nulla, zero.
E allora glielo abbiamo fatto notare e quello che è accaduto dopo mi ha lasciato semplicemente di stucco. È intervenuto il capo del personale che, pensando di far bene e di difendere l’AD, ci dice che l’attenzione alle persone non manca affatto, ma che semplicemente per questione di “tempi” si è dovuta operare una sintesi nella presentazione. Ci stava ammettendo candidamente che: a) le persone possono essere “sintetizzabili”; b) che in un rapporto di priorità, ciò che conta è la produttività. Se a dire una roba del genere è un capo del personale (pagato che non vi dico), c’è da domandarsi cosa avrebbero potuto dire gli altri…
Tutti vogliamo che le aziende vadano bene: certo, io preferisco la piccola e media imprenditoria italiana, ma tutto sommato sono convinto che sia doveroso lavorare con dedizione perché tutte le aziende siano floride. Da ciò dipende l’esistenza stessa del lavoro. Questo però non può e non deve farci perdere di vista la centralità della persona, la sua rilevanza, la sua preminenza sotto tutti i punti di vista.
Se prendete i più importanti accordi sindacali siglati nel paese negli ultimi tempi, invece, vi renderete conto che la produttività ormai sia l’unico chiodo fisso di tutti: e attorno al tavolo di contrattazione ci sta il sindacato, oltre all’azienda. Questo schifo non si può più accettare: è fondamentale una rivoluzione culturale attorno a certi temi, una rivoluzione che ponga al centro la persona e le sue prerogative, che assottigli il divario tra diritto formale e materiale, che dia certezze e forza ai lavoratori del nostro paese. È importante che tutti facciano la propria parte e che i rappresentanti dei lavoratori tornino ad adempiere al proprio dovere, laddove spesso hanno rinunciato a farlo.
Emma Marrazzo, la mamma di Luana, in una recente intervista a Repubblica ha definito «l'Italia, un Paese di orfani e vedove e vedovi, privati dei loro cari, caduti sul lavoro» aggiungendo: «dopo la morte di mia figlia, avevo davvero sperato che qualcosa cambiasse. Non è successo niente, spesso penso che è stato proprio un sacrificio inutile».
Non possiamo arrenderci. Non lo faremo.