Libia-Siria: per chi tifano, per chi tifare

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Libia-Siria: per chi tifano, per chi tifare

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di Fulvio Grimaldi
 

Amici, anche stavolta siamo lunghi. Perdono. Comunque per 15 giorni sono fuori e, dunque, c’è tempo per piano piano farcela. Se credete.
 

Diciamocelo: che bravi governanti sono quelli di Al Qaida e Isis!
Per chi tifano in Siria quelli là (non fatemeli nominare sennò Facebook mi banna e cancella il post) non è difficile saperlo: basta leggere il “New York Times”, standard aureo del giornalismo perennemente degno  dei riconoscimenti, se non di Pulitzer, di Reporters Sans Frontières (il corrispettivo mediatico di Medicins Sans Frontières e altrettanto cari a quelli là). Se pensavamo che nella provincia nord-occidentale di Idlib si fossero concentrati, accolti, nutriti e armati dai vecchi padrini turchi, tutti i tagliagole Isis e Al Qaida generosamente fatti evacuare dai territori e dalle città da loro abbellite con croci appesantite da infedeli, o con pelli di corpi scuoiati di dissidenti, la lettura del “New York Times” ci libera dall’intossicazione di simili fake news.
 

L’autorevole giornale che, se non fosse stato per l’assist della CNN, dei media di obbedienza atlantista con, nel nostro piccolo, il “manifesto”, ci avrebbe con le sue sole penne liberato da Milosevic, Saddam, Gheddafi, Assad e dai Taliban, rettifica quella che finora e per troppo tempo, quasi otto anni, è stata un’informazione falsa, bugiarda, truffaldina. Assad, con quegli hackers e troll delle ingerenze urbi et orbi russe, con quegli spiritati di flagellanti sciti, iraniani e hezbollah, voleva farci credere, col supporto di chilometri di audiovisivi fabbricati, raffiguranti giustizieri cha spellavano vivi innocenti, li incendiavano, o li annegavano in gabbie o li crocifiggevano, o ne sposavano a ore le donne, che il suo paese era stato invaaso, non da oppositori democratici assistiti dalla “comunità internazionale”, bensì da un branco di ossessi islamisti attivati da una “comunità internazionale” in preda a psicopatia stragista. Come pretendeva fosse successo in Libia e, poi di nuovo, in Iraq.
 

No, no, il NYT e i Pulitzer nostrani ci gratificano del privilegio della verità: E’ da far rabbrividire il destino “di combattenti ribelli e dei loro sostenitori civili che, oltre sette anni fa, si sollevarono per chiedere un cambio regime”. Deplorato che il vice primo ministro siriano si sia permesso di definire “terroristi” questi bravi combattenti, il giornale, al quale dobbiamo molto della credibilità delle armi di distruzione di massa di Saddam e del viagra fornito da Gheddafi ai suoi soldati perché stuprassero le connazionali, passa alla descrizione di come gli ingiustamente diffamati ribelli abbiano ben governato la provincia dai turchi loro affidata: “Si sono comportati da legittima autorità di governo e pubblica amministrazione, facilitando, tra l’altro, il commercio transfrontaliero con la Turchia e organizzando forniture di aiuti alla popolazione”. Visto che bravi, si preoccupano di nutrire la popolazione. Altro che Assad, che per principio l’affama.
Bambini Isis giustizieri
 

Coloro che il NYT, sempre attento a distinguere buoni e cattivi, all’indomani degli attentati dell’11 settembre, ottemperando ai suggerimenti di Bush, Cheney, Rumsfeld, neocon vari, FBI e CIA, aveva individuato come terroristi di Al Qaida che avevano dichiarato guerra all’America uccidendone subito 3000 cittadini, pur dichiarandosi sempre e con orgoglio membri di Al Qaida (Al Nusra, che è lo stesso), se non dell’ancora più terroristico Isis, ora per lo stesso giornale sono diventati “ribelli, oppositori, combattenti, ribelli combattenti, forze ribelli, la più forte fazione ribelle della Siria”. E neppure un’ombra di imbarazzo per il fatto che da Washington Al Qaida-Al Nusra continua ad essere bollata di “organizzazione terroristica”. E’ il NYT, con i suoi referenti tribali, che detta la linea: l’intendance suivra.
A questi limiti, che fanno del paradosso un termine obsoleto, si sono spinti molti altri. Da noi, particolarmente impressionante “Un Ponte per”, transitato dalla denuncia del genocidio iracheno, alla piena comprensione di ogni motivazione occidentale. Idem Assopace, storica organizzazione di sostegno ai palestinesi, che mesi fa si è avventurata in un’analisi del buon governo di Al Qaida nelle zone da loro amministrate, da lasciare a bocca aperta perfino John McCain che con questi bravi amministratori condivideva il kebab. E non solo quello.
 

L’ennesimo “spaventoso bagno di sangue di Assad”
Lo stesso lavoro a difesa e riabilitazione dei jihadisti lo fanno a edicole e schermi unificati, in armonica sintonia sinistri sinistri e destre, adoperando però criteri più sottili: non si arriva a nobilitare chi fino a ieri era il mercenario che polverizzava Palmira e scuoiava prigionieri. La nuova linea è “la popolazione vittima”. Vittima dell’imminente carneficina di Assad e dei suoi alleati. Scompare una provincia di un milione e mezzo di siriani sottoposti al regime dell’invasore turco e alle imposizioni e  comprovate sevizie di questa soldataglia d’accatto (si calcola in 50mila, compresi i famigliari) evacuata dalle zone liberate e compare sugli schermi, tra le macerie dei primi bombardamenti russi,  una popolazione terrorizzata, Elmetti Bianchi che corrono dappertutto facendo finta di soccorrere, ricomparsi sulla scena a dispetto dello sputtanamento seguito alle paghe ricevute dai governi aggressori e alla fuga in Israele. Avete fatto caso al silenzio che accompagnò e favorì l’obliterazione totale di Raqqa, ad opera dei missili Usa e dei cannoni curdi? Avete poi visto, molto più tardi, le immagini tipo Dresda di quella che era una delle maggiori e più prospere città siriane?
 

Si ripete il modello Aleppo, Homs, Deraa, Deir ez Zor. Ovunque uno Stato eserciti il proprio diritto, sancito dal diritto internazionale e dall’ONU (per quanto obliterato dall’attuale maggiordomo dei guerrafondai, Guterres), di liberare suoi territori invasi dall’aggressore, un coro smisurato di prefiche, di nuovo sincroniche sinistre sinistre e destre, clero ovviamente in testa, alza striduli lai e angosciate geremiadi sul genocidio che incombe sulla popolazione civile. Sembra quasi che le torme di Attila si stiano avventando su un asilo nido, anzichè l’esercito regolare di uno Stato sovrano, aggredito da mezzo mondo, che difende il proprio territorio liberando l’ultima provincia occupata da coloro che hanno sul proprio conto alcune centinaia di migliaia di civili e difensori massacrati e un paese devastato.
 
Una bimba, tre salvatori
 

Lontanissima da qualsiasi soluzione a vantaggio dell’incolumità dei siriani rinchiusi in Idlib, è per le fanfare dell’apocalisse di civili l’ovvia e unica ipotesi giusta e realistica. I governi che hanno alimentato l’assalto alla Siria reclutando in mezzo mondo briganti, Nato e Turchia in testa, se li riprendano e li rispediscano nei paesi d’origine: Tunisia, Marocco, Algeria, Egitto, Libia, Afghanistan, Qatar, Cecenia e paesi europei vari. Lo possono fare giacchè è dal loro soldo e dai loro armamenti che dipende questo mercenariato. E neanche a un bambino di Idlib verrebbe torto un capello. E agli Elmetti Bianchi la paga di  Londra gli toccherebbe spenderla alle slotmachine, anziché allestendo bimbetti verniciati di rosso. Purtroppo a questo osta la persistente volontà di Erdogan di congiungere Idlib all’altro enclave siriano occupato, Afrin, onde consolidare la sua presa sul questo territorio di confine siriano. L’altro essendo quello occupato dagli Usa con l’assistenza dei mercenari curdi.
 

Assad il chimico. Poteva mancare?
Immancabile, si risuscita lo screditatissimo stereotipo dell’attacco chimico da parte di un governo che di tutte le sue armi chimiche si è privato quattro anni fa, sotto sorveglianza internazionale, mentre armi chimiche in quantità si sono viste comparire tra i depositi e laboratori dei mercenari e quelle attribuite al governo sono risultate inesistenti. Attacco chimico ululato da tutte le bocche di vetriolo occidentali, alle quali si aggiunge, a rafforzamento della diabolizzazione dei russi, il rilancio della screditatissima farsa britannica dell’avvelenamento dei due Skipral, per mano di scriteriati agenti russi che l’altrettanto scriteriato Putin aveva spedito perché uccidessero vecchi spioni in pensione alla vigilia dei Mondiali di calcio in Russia. Tanto per suscitare più simpatia in Occidente.e vedersi appioppata qualche sanzione in più.
 

Un certo affievolimento dei latrati sui propositi chimici di Assad si è avuto quando l’intelligence siriana e russa sono riuscite ad anticipare il complotto e a documentare la fornitura di armi chimiche ai terroristi di Idlib tramite spedizioni organizzate dagli Elmetti Bianchi. Cosa che non ha scoraggiato Nicky Haley, la fuoriditesta ambasciatrice scassapaesi degli Usa all’Onu, che è andata avanti sulla minaccia chimica “indubbiamente di Assad” . Ma il più stolto e il più accanito della brigata non ha desistito. Un’eco, quella di Macron, che rimbalza tardiva e patetica, ma forse ancora funzionale alla provocazione. “Se usano le armi chimiche, interverremo”ha sparato a pancia in dentro e petto in fuori colui che “il manifesto” , gongolante per le ingiurie lanciate dal rothschildiano ai governanti italiani, ha nominato “leader del fronte progressista europeo”.
 
 

Concludiamo su Idlib, dove, al di là dell’amore litigarello tra Erdogan e Trump, si ricompongono gli interessi comuni degli sbranatori della Siria, titolari e surrogati. Nella provincia, strategicamente cruciale perchè sta a ridosso di Aleppo e Latakia, possiamo aspettarci l’ennesimo botto chimico, per poi farci lacerare il cuore dalle decine di bambini privi di vita, come quelli propinatici nel primo attacco chimico di Ghouta Est, con i bambini anche allora rapiti e sacrificati. Sarà una messinscena immonda, degna dei suoi manovali come dei mandanti, ma prima che un Ente ONU ne smascheri un’altra volta la falsità, i latrati dei bruti di guerra rischiano di essersi fatti sbranamenti e a tutti noi toccherà dire: non si poteva non farlo.
 

Sembrerà all’opinione pubblica  che le torme di Attila si stiano avventando su un asilo nido, anzichè l’esercito regolare di uno Stato sovrano aggredito da mezzo mondo, con l’uso della peggiore feccia terroristica rastrellata in giro, che difende il proprio territorio liberando l’ultima provincia occupata, con il sostegno di uno Stato vicino ostile, da chi ha sul proprio conto alcune centinaia di migliaia di civili e difensori massacrati e un paese devastato.
Comunque vada quella che sembra l’imminente battaglia di Idlib, e che potrebbe anche dimostrare che proprio per niente gli Usa e soci di minoranza si sono rassegnati ad abbandonare la partita per il cambio di regime e la disintegrazione dello Stato, non dovremmo dimenticare che un terzo della Siria resta sotto occupazione proprio degli Usa, facilitati  dagli invasori e pulitori etnici curdi e da quanti dell’Isis gli Usa hanno prelevato a Raqqa e rimesso in funzione contro la Siria.
 
Libia: o Haftar, o caos
 

Veniamo all’altro fronte che va riaprendosi alla grande. Quello della più riuscita applicazione della strategia imperialista del caos, adottata quando le soluzioni alla DDR, alla Honduras, alla Pinochet, o all’Ucraina, non riescono e ci si deve limitare a creare situazioni di disabilità permanente. E qui è ancora il “leader del Fronte Progressista Europeo” a dare la carte, stavolta con maggiore spazio concessogli dai fratelli maggiori, Usa e Regno Unito, come si fa col più piccolo quando pesta i piedi. Il quale, a sua volta, mette sotto quello ancora più piccolo, che neppure pesta i piedi, ma si rassegna a giocare col Lego.
 

Con una caterva di nomi di bande miliziane che, nella Libia lacera e insanguinata, si contendono fette di potere e territorio, ci hanno annebbiato la percezione di cosa succede nello Stato più avanzato, emancipato, prospero, giusto, dell’intero Continente (lo sancì l’ONU nel 2011, anno del risveglio dei mostri), quello di Muammar Gheddafi e della sua democrazia diretta e uguaglianza sociale. La situazione è più semplice e chiara di quanto gli sceneggiatori della crisi libica vogliano farci credere.
 
Haftar
 
 

Poker col morto
Mentre gli Usa e alleati maggiori stanno alla finestra, ma tengono pronte le proprie superiori forze d’intervento  militare ed economico, limitandosi sul terreno a operare con l’intelligence e le Forze Speciali, una formale delega alla ricolonizzazione del paese è stata data alla Francia e, come succedaneo ed eventuale strumento rivale in la minore, all’Italia. La prima, con la vera carta valida per un futuro unitario e di dignità nazionale, Egitto, governo di Tobruk e il generale Khalifa Belkasim Haftar, l’Italia con Fayez Mustafa Al Serraj e quel governo di Tripoli che assomiglia tanto al regimetto installato dagli Occidentali a Mogadiscio e il cui controllo non va al di là del cortile dei propri ministeri. Usa, Regno Unito, Francia. Tre giocatori e il morto. Noi.
 

Il governo di Tobruk è legittimato dall’ultimo voto popolare nell’intera Libia, quello di Tripoli dalle simpatie degli Usa e, quindi, di Onu e UE. Il primo controlla la più vasta  regione libica, la Cirenaica, con la maggioranza degli impianti e terminali petroliferi e del mare sotterraneo di acqua potabile, ed ha anche posizioni di forza nel meridione del Fezzan, dove gode dell’amicizia dei Tuareg, già sostenitori di Gheddafi, e in Tripolitani, a ovest, est e Sud di Tripoli. Intorno ad Haftar si sono raccolti coloro che non si sono rassegnati alla fine e alla demonizzazione della Libia di Gheddafi; l’ectoplasma Serraj si dice di poter contare su Fratelli Musulmani e integralisti Isis, suddivisi in bande concorrenti, che si disputano i quartieri di Tripoli e non hanno la minima prospettiva di poter avanzare pretese su territori più vasti.
 
 
 

Lasciando da parte le sedicenti brigate facenti capo a signorotti della guerra e boss locali, lo scontro in atto, al momento interrotto da una volatile tregua, è tra la Settima Brigata che avanza da Tahoura, area che personalmente constatammo essere, come Bani  Walid,  a Sud, roccaforte delle tribù maggioritarie in Libia, da sempre fedeli a Gheddafi, la Warfalla, e la Brigata Rivoluzionaria, definita Guardia Nazionale del governicchio di Serraj. Al soccorso di  questa, nelle ambasce per un’imminente presa di Tripoli da parte della Settima, Al Serraj, chiamò la Brigata di Misurata, unica forza militarmente credibile, composta dai capiclan della città che, nel dopoguerra, si rese responsabile delle peggiori atrocità contro i membri del precedente Stato e, soprattutto, contro la popolazione libica nera  e gli immigrati. I sopravvissuti alla caccia misuratina dei 2,5 milioni di lavoratori africani ospitati da Gheddafi, sono quelli che in gran parte stanno ora nei campi di raccolta, o ce l’hanno fatta ad arrivare da noi.
 

Il governo di Roma si ostina a voler apparire sostenitore di Serraj. Pare che al premier Conte Trump abbia promesso che, così facendo, l’Italia sarà sostenuta nella “speranza” di non dover cedere proprio tutto il petrolio ENI all’arrembante francese Total. Quella per il cui dominio sulle risorse del paese e, dunque, sulle sue istituzioni, due criminali di guerra, Sarkozy e Hollande scatenarono l’inferno. Confortati subito dalla vicina di casa e di salotto parigina, Rossana Rossanda, con la sua invocazione di una “guerra santa” “alla spagnola”, contro Gheddafi. Guerra santa poi allietata dallo sghignazzo della mancata (purtroppo per il “manifesto”) presidenta degli Usa, Hillary Clinton.
 
 

Fortunatamente non tutti sono creduloni a Roma e nei Cinque Stelle, specificamente con il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, si manovra discretamente anche in direzione di Tobruk, Haftar e dell’Egitto. A noi, per “tifare” l’unica forza che registri un vasto consenso popolare, che le elezioni  di dicembre vorranno sancire (se non sabotate dagli islamisti di Tripoli e loro sostenitori “progressisti” e ONU) basta il dato che tra le file di Haftar ci siano anche i gheddafiani, quelli dal parlamento di Tobruk riabilitati e da Tripoli condannati a morte e che si parli del figlio maggiore di Gheddafi, Saif al Islam, come possibile candidato alla presidenza. Ipotesi terrorizzante per i colonialisti, da cui il tentativo di rinviare le elezioni.
 
 
Macron in Mali
 
 

E non ci importa che Tobruk e Haftar siano anche tra le opzioni  di colui che il “manifesto”, di solito sostenitore di tutte le campagne lanciate dal Deep State Usa (Cia, FBI, Pentagono, Soros, neocon, media di guerra), definisce “leader del fronte progressista europeo”. Il “manifesto” sta con ciò che emana da Washington e liscia il pelo di Macron solo perché, alla luce dello scambio di contumelie tra Salvini e il rothschildiano di Parigi, lo individua come vero antagonista dei nostrani populisti xenofobi e fasciorazzisti. Lui, Macron, che sta mettendo a ferro e fuoco l’intera Africa settentrionale e subsahariana a forza di invasioni militari, innesto di terroristi da pretesto, depredazioni di risorse e impoverimento generale di milioni di africani; lui che con il CFA, la valuta coloniale grazie alla quale metà degli introiti di 14 paesi africani sono automaticamente trasferiti a Parigi, è riuscito a incrementare il flusso dei migranti per la maggiore soddisfazione di Ong, cooperative e mondialisti del meticciato. Migranti, peraltro, che il “leader del Fronte Progressista Europeo”, immobilizza a Ventimiglia e Calais, solo perché gli si eviti lo squallore dei fratelli nellebanlieu.
 

Lui, Macron, no. Lui non è né xenofobo, né fasciorazzista.

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