L'INDUSTRIA AUTOMOBILISTICA E L'INTERESSE NAZIONALE

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L'INDUSTRIA AUTOMOBILISTICA E L'INTERESSE NAZIONALE


di Gilberto Trombetta



Negli anni 80 l'Italia era il quinto produttore automobilistico al mondo (2.000.000 di auto prodotte ogni anno). Oggi siamo scesi al 19esimo posto e non arriviamo neanche a metà della produzione degli anni 80.

Negli anni 80 l'Alfa Romeo (che era pubblica) dava lavoro a 29.000 persone. Erano 300 quando aprì e 8.500 nel 1949. Tra gli anni 60 e 80 è stato uno dei marchi più venduti in Italia, costantemente tra il secondo e il quarto posto con una percentuale che andava dal 4% l'anno a oltre il 9%.

L'Alfa Romeo va in crisi con la privatizzazione (svendita) alla Fiat degli Agnelli di metà anni 80. Ovviamente a opera del solito Prodi.
FIAT degli Agnelli e degli Elkann che nei decenni si è intascata centinaia di miliardi di euro di aiuti pubblici diretti e indiretti (220 miliardi di euro solo tra il 1975 e il 2012 secondo Federcontribuenti).

Aiuti in cambio dei quali lo Stato e i sindacati avrebbero dovuto pretendere garanzie scolpite nella pietra di mantenere in Italia proprietà e produzione, cioè i posti di lavoro.

Oggi lo Stato dovrebbe espropriare per interesse pubblico i siti di produzione di Stellantis presenti in Italia e riappropriarsi almeno dei marchi Alfa Romeo e Lancia. E fare quello che fece per decenni il Giappone come ci insegna la storia raccontata da Ha-Joon Chang nel suo "Cattivi Samaritani"
"La sfida tra Lexus e ulivo riveduta e corretta - Miti e fatti della globalizzazione

Tanti anni fa il principale produttore automobilistico di un Paese in via di sviluppo esportò la sua prima auto negli Stati Uniti. Fino a quel momento da quell’azienda erano uscite soltanto macchine di bassa qualità, brutte copie di quelle fabbricate dai Paesi più ricchi. Non si trattava di un’auto sofisticata: era solo una berlina di media cilindrata; ma il Paese ne era orgoglioso.

Sfortunatamente, fu un fiasco. Molti la trovarono brutta e i consumatori americani erano riluttanti all’idea di spendere soldi per una macchina che veniva da un Paese noto per sfornare soltanto prodotti di seconda categoria. L’automobile fu ritirata dal mercato statunitense. Il flop scatenò un grande dibattito nel Paese esportatore.

Molti sostenevano che l’azienda avrebbe dovuto continuare a fare ciò che aveva sempre fatto: macchinari per il tessile. Dopotutto, il principale bene d’esportazione del Paese era la seta. Se l’azienda non era riuscita a produrre una buona auto dopo 25 anni di tentativi, allora non aveva futuro. Il governo aveva dato al costruttore tutte le chance per riuscire ad avere successo.

Aveva assicurato all’azienda profitti elevati sul mercato interno imponendo alti dazi e controlli draconiani sugli investimenti stranieri nell’industria automobilistica locale. Quasi un decennio prima aveva usato il denaro pubblico per salvare l’azienda dall’imminente bancarotta. Quindi, sostenevano i critici, ora le auto straniere dovevano poter liberamente essere importate nel Paese e ai produttori esteri, che erano stati estromessi vent’anni prima, doveva essere consentito di reinsediarsi nel mercato nazionale.

Altri non erano d’accordo. Sostenevano che nessun Paese di rilievo era riuscito ad affermarsi senza sviluppare industrie «serie» come quella automobilistica.

L’azienda aveva solo bisogno di più tempo per riuscire a produrre auto che piacessero a tutti.

Era il 1958 e il Paese in questione era il Giappone. L’azienda era la Toyota, e l’automobile la Toyopet. Toyota aveva iniziato la propria attività come produttore di macchine tessili, spostandosi poi nel settore automobilistico nel 1933. Il governo giapponese aveva cacciato General Motors e Ford dal Paese nel 1939 e salvato Toyota coi fondi della Bank of Japan nel 1949.

Oggi le auto giapponesi sono considerate qualcosa di «naturale», come il salmone scozzese o il vino francese, ma meno di cinquant’anni fa la maggior parte delle persone, inclusi molti giapponesi, pensavano che il Sol Levante semplicemente non dovesse avere un’industria automobilistica.

Cinquant’anni dopo la débâcle della Toyopet, Lexus, il brand di lusso di Toyota, è diventato una delle icone della globalizzazione grazie al bestseller del giornalista americano Thomas Friedman, The Lexus and the Olive Tree. Il titolo prende spunto da un episodio accaduto a Friedman mentre era in viaggio su uno Shinkansen, il treno giapponese ad alta velocità, nel 1992. Aveva visitato uno stabilimento dove si producono le Lexus e ne era rimasto estremamente colpito.

Mentre rientrava a Tokyo da Toyota City gli cadde l’occhio su un articolo di giornale che parlava dei disordini in Medio Oriente, dove era stato a lungo come corrispondente. A quel punto tutto gli fu chiaro. Capì che «una metà del mondo era […] intenta a costruire automobili sempre migliori, dedicandosi alla modernizzazione, alla fluidificazione e alla privatizzazione delle economie per continuare a prosperare nell’età della globalizzazione; l’altra metà – a volte l’altra metà di uno stesso paese, a volte una stessa persona – era ancora impegnata nella lotta per il controllo di questo o quell’albero d’ulivo».
Secondo Friedman se i Paesi dell’ulivo che ci sono al mondo non si adeguano a un dato insieme di misure economiche, che lui definisce la «camicia di forza dorata», non potranno mai entrare a far parte del mondo Lexus. Nell’illustrare le regole della camicia di forza dorata, descrive essenzialmente l’ortodossia economica neoliberista: per riuscire ad adeguarsi un Paese deve privatizzare l’industria di stato, mantenere basso il tasso d’inflazione, limitare il peso della burocrazia statale, mantenere il bilancio dello stato in pareggio (se non in attivo), eliminare o abbassare le tariffe sulle importazioni, rimuovere le restrizioni all’investimento estero, deregolamentare il mercato dei capitali, rendere la propria valuta convertibile, eliminare la corruzione e privatizzare il sistema previdenziale.

A suo parere questa è l’unica strada che porta al successo nella nuova economia globale. La camicia di forza è l’unico strumento per partecipare al duro ma eccitante gioco della globalizzazione. È categorico in proposito: «Purtroppo la camicia di forza ha una taglia sola […]. Non è comoda né confortevole, ma è l’unico modello in vendita in questa stagione storica».

Tuttavia, se all’inizio degli anni Sessanta il governo giapponese avesse dato retta agli economisti fautori del libero scambio, oggi la Lexus non esisterebbe.

Nella migliore delle ipotesi, Toyota sarebbe diventata il junior partner di qualche produttore occidentale; nella peggiore, sarebbe stata spazzata via. Lo stesso discorso vale per tutta l’economia nipponica. Se il Paese avesse indossato la camicia di forza di Friedman anzitempo, oggi il Giappone sarebbe ancora la potenza di terza classe che era negli anni Sessanta, con un livello di reddito simile a quello di Cile, Argentina e Sudafrica.

Era l’epoca cui in il primo ministro giapponese veniva congedato in malo modo dal presidente francese, Charles de Gaulle, che ebbe a definirlo «un venditore di radioline». In altre parole, se avessero seguito il consiglio di Friedman, i giapponesi oggi non esporterebbero le Lexus ma starebbero ancora lì a disputarsi la proprietà dei gelsi (il cibo dei bachi da seta)".

Gilberto Trombetta

Gilberto Trombetta

43 anni, giornalista politico economico e candidato Sindaco di Roma con la lista Riconquistare l'Italia del Fronte Sovranista Italiano

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